mercoledì 6 aprile 2016

La Stampa 6.4.16
Quanto vale il petrolio d’italia
di Mario Deaglio

Nell’intricata vicenda del petrolio lucano, c’è qualcosa che lascia perplessi ed è la sproporzione tra la rilevanza economica e gli effetti politici. A livello globale, il giacimento di Tempa Rossa, ottimisticamente definito «Texas d’Italia», è del tutto irrilevante: a regime è previsto che produca 50-70 mila barili al giorno, per di più di bassa qualità. Certo, è una parte importante della produzione italiana (circa 170 mila barili al giorno) ma una minuscola porzione di quella europea (4 milioni di barili al giorno) e trascurabile a livello mondiale (circa 95 milioni di barili al giorno). È minima anche l’importanza sull’occupazione: nell’annuale relazione della Total, che gestisce le operazioni a Tempa Rossa, i dipendenti sono indicati in 144 su un totale di oltre 100 mila nel mondo.
L’eventuale estrazione dall’Adriatico - sulla quale è del tutto ragionevole avere qualsiasi opinione - non sposterebbe l’ordine di grandezza, portando al massimo al 10-12 per cento (dall’attuale 7 per cento) l’incidenza della produzione italiana sul fabbisogno italiano di greggio. Fermo restando il discorso giuridico e morale su eventuali corruzioni e malversazioni, è difficile immaginarsi un esercito di lobbisti internazionali che si precipita nei corridoi parlamentari per influenzare le decisioni sul petrolio italiano. Si tratta, insomma, di una buccia piuttosto piccola per il governo: se vi scivolerà sarà per altri motivi ai quali l’estrazione del petrolio lucano avrà fatto da conveniente paravento.
Guardando l’albero, ci dimentichiamo della foresta. Affascinati dal «Texas d’Italia», ci siamo scordati che in pochi anni il panorama degli idrocarburi nel Mediterraneo è radicalmente cambiato, in buona parte grazie all’Eni: nell’agosto 2015 venne annunciata la scoperta, precisamente da parte dell’Eni, di un gigantesco giacimento di gas - al quale fu dato il nome di Zohr - nel mare egiziano, al largo di Porto Said (la sua potenzialità è pari a circa centomila volte la produzione annuale di Tempa Rossa). E sotto il giacimento Zohr ci potrebbe essere altro petrolio. Nel febbraio 2016 la gestione del giacimento è stata affidata all’Eni dal governo egiziano e si stanno scavando i primi pozzi di esplorazione.
La produzione effettiva potrebbe essere avviata in tempi molto rapidi e già nel 2017 il gas estratto potrebbe sia ribaltare il quadro energetico dell’Egitto sia portare risorse rilevanti al bilancio pubblico italiano (dal momento che Cassa Depositi e Prestiti e Mef detengono complessivamente quasi un terzo delle azioni dell’Eni). È probabile che, nell’esecuzione del suo piano industriale, l’Eni «alleggerisca» la propria quota, come è d’uso tra grandi produttori mondiali, mantenendo però la maggioranza e la direzione esecutiva del progetto. In questo contesto, le relazioni tra l’Italia e l’Egitto acquistano un particolare significato nel quale si inquadra il caso Regeni: Roma e Il Cairo non possono condividere uno dei più grandi progetti industriali della loro storia senza condividere anche valori e principi giuridici.
Alla luce di questi sviluppi, gli orizzonti limitati, per non dire meschini, di buona parte della politica italiana appaiono in tutta la loro dura realtà: vogliamo sapere tutto di Tempa Rossa, non ci interessa quasi nulla di Zohr. La tattica politica ci attira più della strategia dell’industria, ciò che succederà nel prossimo referendum del 17 aprile più di quanto potrà succedere nei prossimi 17 anni al Paese. Se andremo avanti su questa strada, la storia italiana continuerà a essere - come è in gran parte stata negli ultimi vent’anni - una storia di occasioni mancate. O meglio, rifiutate.