La Stampa 4.4.16
Perché l’Italia fa gola agli stranieri
di Giorgio Arfaras
L’Italia
è un piccolo, ma non trascurabile, produttore di idrocarburi. Le stime
sul potenziale produttivo variano - si hanno, infatti, le riserve certe e
quelle probabili - ma sono sufficientemente elevate per attrarre le
grandi compagnie nazionali ed estere. Si ha così la produzione, la
distribuzione, e lo stoccaggio di materie prime, promosso dalle grandi
imprese. Lo Stato italiano incassa le royalties, l’industria lavora, si
costruiscono infrastrutture, e cresce l’occupazione in aree poco
sviluppate. Le stime sulla consistenza delle riserve attuali e
potenziali (lo stock) messe a confronto con il consumo corrente (il
flusso) indicano un’autonomia dell’Italia delle importazioni per circa
un decennio. Apparentemente, tutti sono avvantaggiati, e si riduce la
dipendenza energetica.
Eppure, nonostante l’evidenza del «bene
comune», si hanno molti contenziosi. Che stanno spingendo le major a
frenare: Shell ha annunciato il ritiro dalla Basilicata ed è a rischio
anche il progetto di Total a Taranto, mentre, secondo alcune stime,
negli ultimi sei mesi, il potenziale investimento estero è sceso da 16 a
6 miliardi di euro. I contenziosi con al centro grandi investitori
esteri non si hanno solo in campo petrolifero, e sono legati al
negoziato con gli ambientalisti, i magistrati, i sindacati, ma,
soprattutto, con i poteri locali. Il «ciclo industriale integrato» delle
materie prime non rinnovabili coinvolge più entità territoriali, dal
pozzo in Basilicata fino al porto di Taranto. Se ogni autorità fosse
libera di negoziare le proprie richieste, il ciclo industriale si
spezzerebbe in una miriade di mini trattative, con aumento dei tempi e
dei costi. E non è detto che l’insieme delle azioni di ciascuna comunità
a proprio vantaggio promuoverebbe il «bene comune». Il permesso per
procedere viene perciò deciso a livello statale: il provvedimento
«sblocca Italia». Una compagnia petrolifera, impegnata in pesanti
investimenti pluriennali, è perciò più che incentivata a «premere» sul
governo centrale affinché sblocchi i contenziosi locali. La caduta del
prezzo spinge a rinunciare ai pozzi nelle zone impervie, come i mari
profondi e l’Artico, giustificati solo intorno ai 100 dollari al barile.
Il prezzo corrente è meno della metà, e non è detto che risalga a
breve. Intanto il Medio Oriente è sempre più rovente, i rischi nella
Russia sotto sanzioni restano alti. La scoperta di nuovi giacimenti nel
mondo che possiamo definire «occidentale» (dall’Adriatico, a Cipro, allo
shale Usa) offre alle major europee e americane, da anni incalzate dai
colossi statali arabi e del Sudamerica, nuovo ossigeno. I non minuscoli
pozzi «continentali» sono molto meno costosi sia in termini di ricerca
sia di spese di trasporto, e hanno meno rischi politici. Una grande
opportunità che si scontra però con il confronto tra le due visioni
dell’Italia: potenza industriale aperta a tecnologie e investimenti,
oppure il «Paese della Bellezza» che scommette su ristoranti, spiagge e
monumenti, non rovinati da ciminiere e trivelle.