La Stampa 4.4.16
Massimo d’Azeglio, il patriota riluttante
A
150 anni dalla morte del pittore, romanziere e primo ministro del Regno
di Sardegna In tempi di retorica unitaria commentò: “Pur troppo s’è
fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani”
di Alessandro Barbero
Centocinquant’anni
fa moriva Massimo d’Azeglio, primo ministro del regno di Sardegna dal
maggio 1849 all’ottobre 1852. Lui e il suo rivale e successore Camillo
Cavour avevano moltissime cose in comune. Tutt’e due appartenevano alla
più antica nobiltà piemontese: ovvero a famiglie che dopo aver fatto i
soldi con i traffici e l’usura negli industriosi comuni del Piemonte
medievale, i Taparelli a Savigliano, i Benso a Chieri, avevano
giudiziosamente investito nell’acquisto di feudi, contee e marchesati,
ed erano entrati al momento buono al servizio dei Savoia. Eredi di
illustri e ricchissime famiglie, erano però entrambi secondogeniti: e il
figlio cadetto d’una famiglia nobile, nel Piemonte della Restaurazione,
non aveva un destino così invidiabile.
Soltanto Cavaliere
I
privilegi della nobiltà si ereditavano comunque; ma il patrimonio di
famiglia andava tutto in fedecommesso al primogenito. Perfino quand’era
primo ministro e l’uomo più potente d’Italia, Camillo abitava nel
palazzo di proprietà del fratello maggiore, il marchese Gustavo; e solo
grazie al fatto che la famiglia possedeva anche un titolo comitale
poteva farsi chiamare, a titolo di cortesia, sor cont. Meno fortunato da
questo punto di vista, Massimo è stato per tutta la vita soltanto «il
cavalier d’Azeglio»: il marchese era suo fratello Roberto. Non è forse
un caso se i due cadetti, nati in un ambiente reazionario e clericale,
divennero entrambi ribelli e liberi pensatori, e rifiutarono la carriera
militare a cui le famiglie li destinavano per costruirsi un altro
destino.
Qui, però, le analogie finiscono, perché è difficile
immaginare due scelte di vita più diverse. Mentre Camillo si dedicava
con zelo ad arricchirsi, non senza perdere in borsa somme colossali che
poi convinceva il padre a ripagare minacciando altrimenti di spararsi,
Massimo scoprì che la sua vera vocazione era la pittura e se ne andò a
Roma a dipingere, mantenendosi con la vendita dei suoi quadri. È vero
che l’arte era un pallino di famiglia, e anche suo fratello il marchese
Roberto si occupò di pittura per tutta la vita: ma lo faceva da studioso
di storia dell’arte, tanto che divenne nel 1832 il primo direttore
della Galleria Sabauda, allora ospitata a Palazzo Madama. Massimo,
invece, faceva la bohème a Roma e nei Castelli; però lavorava sodo, e la
famiglia dev’essersi detta che era meglio così, giacché prima,
ufficialetto adolescente a Torino, il ragazzo ne aveva fatte di tutti i
colori.
Genero di Manzoni
Alla carriera politica, in quegli
anni, d’Azeglio non pensava affatto; all’Italia sì, però, come tutti i
giovanotti d’allora. I suoi quadri raffiguravano gli eroi che sanno
morire per la patria, e quando gli venne voglia di provare a fare anche
dei romanzi, trovò i soggetti nelle pagine più patriottiche della storia
d’Italia, come La disfida di Barletta. Siccome era un giovane modesto e
ansioso di imparare, andò a chiedere consiglio ad Alessandro Manzoni, e
per troppa fretta sposò anche sua figlia Giulia, che aveva dieci anni
meno di lui. Giulia, poi, morì dopo appena tre anni, durante i quali
Massimo l’aveva resa profondamente infelice, e il suocero romanziere gli
fece causa per una faccenda di eredità; ma nel frattempo il romanzo era
uscito, con straordinario successo, portando D’Azeglio alla ribalta
nazionale. Passò ancora qualche anno prima che gli venisse voglia di
buttarsi in politica, ma quando lo fece bruciò le tappe, anche perché
dopo i lunghi e sonnolenti anni della Restaurazione i tempi della storia
erano improvvisamente diventati frenetici: entrato nel giro dei
cospiratori mazziniani nel 1845, quattro anni dopo Massimo era primo
ministro.
Paradossalmente fu lui a far entrare nel governo Camillo
Cavour, che dopo aver realizzato l’obiettivo di diventare l’uomo più
ricco del regno si era proposto, modestamente, di diventare presidente
del Consiglio, ma alle prime elezioni del Parlamento Subalpino era stato
trombato. D’Azeglio prese in mano la barra del governo in un momento
drammatico, all’indomani della catastrofe di Novara e dell’abdicazione
di Carlo Alberto, e la tenne ben ferma al centro, dichiarandosi
«risoluto a picchiare egualmente sui rossi come sui neri»: in linea con
questa prospettiva rigidamente liberale, fece sparare sugli insorti
repubblicani di Genova, ma rifiutò i suggerimenti di ritornare al
passato abolendo lo Statuto, e promosse le leggi Siccardi nonostante la
violentissima opposizione della Chiesa.
L’«empio rivale» Cavour
Offrire
al giovane Cavour il ministero delle Finanze dovette sembrargli una
buona idea: «È un autentico gallo da combattimento, specialità che ci
mancava», si compiacque. Ma il re Vittorio conosceva meglio i suoi polli
e commentò: «Ma come, non veggono lor signori che quell’uomo lì li
manderà tutti colle gambe all’aria?» (ma il re parlava in piemontese e
disse di peggio). Puntualmente, già un anno dopo Cavour macchinava per
buttar giù D’Azeglio e prendere il suo posto, e Massimo nelle sue
lettere lo chiamava ironicamente «l’empio rivale».
Quando Camillo,
come da copione, gli sfilò la maggioranza, D’Azeglio si dimise e rimase
a guardare, dando ancora una mano quando ce n’era bisogno, ma con
crescente disincanto. Mentre il Paese appena unificato si ubriacava di
retorica, commentò che «pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno
gl’Italiani», senza sapere che la frase, opportunamente modificata per
renderla meno pessimistica, sarebbe diventata famosa; vedendo come
andavano le cose col brigantaggio nel Mezzogiorno, osservò che non era
troppo chiaro se i napoletani «ci vogliono o no», e concluse amaramente
che, avendo unificato la Penisola, i piemontesi avevano guadagnato «la
ricompensa d’esser venuti in tasca a tutti gli Italiani». Morì nel 1866,
a 68 anni, senza fare in tempo a vedere il trasporto della capitale a
Roma, che aveva avversato tenacemente, sostenendo che tutti quanti si
facevano di Roma un’idea puramente retorica; il che avrebbe dovuto far
riflettere, visto che lui era l’unico che la conosceva bene.