mercoledì 20 aprile 2016

La Stampa 20.4.16
Ma ai giovani serve il lavoro più di ogni cosa
di Stefano Lepri

Delle pensioni discuteremo nella seconda metà dell’anno, annuncia il ministro dell’Economia Padoan. Si tratta di un problema obiettivamente spinoso.

Di fronte al quale il governo cerca di guadagnare tempo sapendo che un compromesso non sarà facile raggiungerlo. Si ha qui un esempio importante delle difficoltà che presenta la decisione politica oggi in Italia.
All’apparenza, lasciando andare in pensione prima gli anziani si può sperare in maggiori opportunità di impiego per i giovani. Certo è così dal punto di vista della singola azienda: va via uno, ho i soldi per assumere un altro. Ma chi paga, poi, quella pensione in più? Noi tutti, con maggiori tasse o maggiori contributi previdenziali.
Nell’insieme del Paese, dunque, il pensionamento anticipato di un elevato numero di persone si tradurrebbe in maggiori oneri sulle aziende e sulle famiglie. Cosicché le prospettive di lavoro per i giovani ne sarebbero, al contrario, danneggiate. Il governo lo sa, però si trova di fronte a una pressione concentrata da parte dei sindacati, delle opposizioni politiche, della sinistra Pd.
Nel nostro assetto politico-sociale (come pure avviene in parecchi altri Paesi avanzati) gli anziani dispongono di canali di rappresentanza consolidati per far valere i propri interessi; i giovani no. Si aggiunge qui l’errore di visuale delle singole aziende, che vedono il proprio vantaggio nei pensionamenti, ma non il danno all’intero sistema produttivo.
La riforma Fornero ha lasciato numerosi problemi irrisolti. Ha dovuto essere molto brusca a causa delle condizioni drammatiche in cui l’Italia si trovava in quella fine del 2011. In ogni caso è arduo governare con regole omogenee la varietà delle persone, da chi non vede l’ora di lasciare dopo decenni di fatica a chi vorrebbe restare attaccato alla scrivania oltre i 70.
In teoria l’uscita flessibile proposta dal presidente dell’Inps Tito Boeri funziona. La stessa Elsa Fornero ne era una sostenitrice prima e lo resta. Si potrebbe lasciare il lavoro prima con una penalizzazione adeguata, tale da tener conto che si sono versati da uno a tre anni di contributi in meno e si percepirà la pensione per 1-3 anni più a lungo.
Si avrebbe così equità tra chi lascia l’impiego e chi decide di restare. L’ostacolo è nelle regole di bilancio europee, che occorrerebbe aggirare con qualche marchingegno contabile o finanziario come quelli a cui ha accennato ieri il sottosegretario Tommaso Nannicini.
Il guaio è che la proposta Boeri pare, nei suoi numeri esatti da economista, «punitiva» a tutte le forze che premono per le uscite anticipate. Aprire nell’attuale Parlamento un percorso di modifica della riforma del 2011 - quella che appunto il ministro Padoan definisce «pilastro della sostenibilità» dei conti pubblici dell’Italia - comporta rischi seri.
Prima del governo Monti, sempre gli interessi dei più anziani avevano prevalso su quelli dei più giovani. Gli esclusi dalla riforma Dini (occupati da più di 18 anni nel 1995) sono oggi a riposo con trattamenti spesso più alti dei contributi versati.
Può accadere di nuovo. Concedere un ventaglio di opzioni è opportuno e sensato; purché non sottragga risorse meglio impiegate altrove. Non aver trovato ancora un impiego fisso a trent’anni è un dramma assai più serio, e inquietante per il futuro di noi tutti, che dover lavorare ancora per qualche tempo a sessanta.
I dati di ieri sulle assunzioni confermano che l’aumento di impieghi stabili registrato nel 2015 si doveva in gran parte alla riduzione dei contributi a carico delle imprese; occorre insistere su quello strumento. I giovani si aiutano aiutando chi davvero li fa lavorare, non illudendoli sui posti che gli anziani lascerebbero liberi.