Il Sole Domenica 17.4.16
Diritti umani o diritti dell’uomo?
Sono
due concetti che hanno pregi diversi. L’uno, oggi più in uso, rimanda
all’universalità. L’altro a un concreto progetto etico-politico
di Vincenzo Ferrone
Disciplina
temibile e pericolosa definiva Flaubert la storia nel suo
Sciocchezzaio. E non aveva tutti i torti se guardiamo agli interrogativi
e alle reazioni che la nuova storiografia internazionale sui diritti
umani sta generando nel dibattito pubblico, come pure nel mondo
accademico in un settore di ricerca da sempre rigidamente strutturato in
percorsi obbligati e rassicuranti certezze, nonché appannaggio
esclusivo di filosofi, giuristi, antropologi, sociologi e scienziati
della politica.
Gli storici sono infatti arrivati assai tardi a
occuparsi di diritti: lo sottolineava con tono di rimprovero già nel
2004 l’American Historical Review. Solo nel 1997, infatti, la potente
società degli storici americani aveva deciso di dedicare la propria
annuale convention all’argomento degli Human Rights – significativo, in
una nazione che in fondo è nata rivendicando la propria indipendenza
sulla base dei diritti inalienabili dell’individuo. Con il crollo delle
utopie comuniste il tema del resto era divenuto ineludibile. In quanto
formidabile formula politica emancipatoria e liberatrice il linguaggio
dei diritti stava proprio in quegli anni prendendo la forma di un’ultima
utopia, Last Utopia, come recita il titolo di un importante saggio del
2010 dello storico di Harvard Samuel Moyn. Un linguaggio che dominava
sempre più incontrastato l’agenda politica, alimentando ovunque forme di
lotta contro le dittature e i residui del colonialismo, e costituiva
l’ultima fonte di legittimità per qualsiasi azione di forza
internazionale, per quanto controversa e discutibile potesse essere.
Le
prime importanti ricerche sui diritti fondamentali si devono a
specialisti della storia contemporanea, in Italia come altrove. La
ricostruzione delle alterne vicende dei cosiddetti “diritti umani” nel
corso del Novecento è stata affrontata con attenzione a non produrre
rischi di confusioni linguistiche e anacronismi.
L’uso
dell’espressione “diritti umani” (Human Rights) in alternativa al lemma
sette-ottocentesco “diritti dell’uomo” (Rights of Man) ha infatti una
sua precisa valenza semantica: a tal proposito, infatti, è ormai noto
che solo dalla fine degli anni Settanta del Novecento il riferimento
agli Human Rights ha iniziato a dominare incontrastato il linguaggio
pubblico, la cui storia contemporanea non presentava dunque alcun
problema. Poi sono arrivate le ricerche degli storici dell’età moderna, e
con esse i primi guai. Prima del XX secolo, infatti, la pietra di
paragone concettuale era un’altra: erano i “diritti dell’uomo”
consacrati nella Declaration of Independence dei coloni americani del
1776 e poi nella Déclaration des droits de l’homme dell’89, e come tale
quell’espressione non poteva in alcun modo essere elusa. Farne la storia
delle origini significava indagare la trasformazione degli sparsi
riferimenti ai diritti soggettivi e naturali della canonistica e della
trattatistica giuridica del medioevo e della prima modernità nel
linguaggio morale, politico e costituzionale dei diritti dell’uomo
elaborato dall’Illuminismo.
Nel contesto culturale dei Lumi,
infatti, il riferimento alla parola uomo aveva un chiaro significato
universalistico, cosmopolita e soprattutto polisemico: quello all’essere
umano, a prescindere dal genere, come si evince facilmente
dall’Encyclopédie e dalla nascita delle cosiddette ’scienze dell’uomo’
tenute a battesimo dai philosophes. Non a caso solo durante la
Rivoluzione francese, grazie soprattutto all’opera di Condorcet e di
Olympe de Gouges, si pose la questione dell’estensione dei diritti
politici alla donna con la necessità di precisare anche sul piano
lessicale il riferimento al genere. Agli illuministi spetta il merito di
aver definito dapprima sul piano morale e storico l’esistenza dei
diritti fondamentali dell’individuo e di avere poi affrontato il tema
cruciale di come garantirne l’esercizio politico attraverso la
democrazia e la loro costituzionalizzazione.
Da questo punto di
vista, al di là degli innegabili punti di contatto, l’odierno linguaggio
dei diritti umani sembra avere alle spalle una storia diversa.
Nell’interpretazione dominante della storiografia americana gli Human
Rights sono presentati con un tratto di forte discontinuità rispetto al
progetto culturale e politico dei Rights of Man illuministici, per
apparire un’invenzione assai recente, senza vere radici nella storia del
Vecchio Continente e tutta plasmata Oltreatlantico. Di questi Human
Rights novecenteschi si sottolinea infatti il carattere universalistico,
destrutturante, post-moderno, antipolitico, tutto contenuto nell’ambito
morale, in opposizione al vecchio progetto illuministico che mirava
invece a trasformare concretamente i diritti naturali in diritti di
cittadinanza attraverso lo Stato e la nazione – i due velenosi
ingredienti della modernità politica occidentale che, in questa
prospettiva, risultano colpevoli di flagelli quali il colonialismo, il
razzismo, i totalitarismi, l’Olocausto.
Rispetto all’uso dei
settecenteschi “diritti dell’uomo” emergono innegabilmente, del resto,
molti vantaggi. Gli Human Rights, anzitutto, superano agevolmente il
vaglio inflessibile del politically correct – ricordo la recente
richiesta di mutare nome alla Déclarations des droits de l’homme del
1789, accusata di sessismo, inoltrata al presidente Hollande da un
gruppo di intellettuali femministe. Con la sua genericità la nuova
retorica dei diritti umani supera le distinzioni di genere e
orientamento sessuale, si attaglia ai difensori dei diritti
dell’individuo eredi dell’Illuminismo e soddisfa i partigiani delle
comunità e dei diritti delle nazioni (al costo, va detto, di perpetuare
una rovinosa confusione tutta ottocentesca che continua a creare
tragedie nella soluzione dei conflitti internazionali). Fare la storia
dell’origine intellettuale dei diritti umani così genericamente
concepiti apre poi praterie sterminate agli storici più ingegnosi,
fantasiosi o semplicemente attenti al mercato: in fondo, perché non
arruolare Buddha e Gesù in solerti attivisti di Human Rights Watch? Ma
ciò che preoccupa di più è la mancata consapevolezza di quei politici,
diplomatici e giuristi che a Bruxelles considerano ormai equivalenti, e
dunque intercambiabili, nei loro documenti e nelle loro sentenze le
espressioni “diritti dell’uomo” e “diritti umani”. Qualcuno dovrebbe
forse segnalare loro che se esistono i diritti umani non vanno però
dimenticati i diritti della storia – che non così facilmente si presta
ad anacronismi e acrobazie lessicali – se si vuole davvero capire il
nostro presente e agire con cognizione piena della posta in gioco.