Il Sole 21.4.16
Tribunale di Roma. Respinta richiesta di una coppia dopo la procreazione assistita
Gli embrioni in eccesso non possono essere distrutti
di Giorgio Vaccaro
No
alla restituzione degli embrioni “soprannumerari”: questo il principio
di diritto affermato dal Tribunale di Roma (decreto del 6 marzo scorso,
Sezione prima, giudice Galterio) che ha ritenuto di dover rigettare la
domanda avanzata con ricorso d’urgenza, da una coppia di coniugi che,
maturata nel 2003 la decisione di addivenire a un percorso di Pma
(procreazione medicalmente assistita), avevano dato il consenso alla
«fertilizzazione in vitro che aveva portato all’isolamento di 10
embrioni tre dei quali nell’ambito della fecondazione omologa erano
stati poi impiantati» con successo.
Successivamente, gli stessi
ricorrenti si erano rivolti al Centro chiedendo «informazioni sullo
stato di conservazione degli altri 7 embrioni» ricevendo come risposta
la semplice conferma dello stato di “crioconservazione” dei medesimi;
ancora da ultimo, nel novembre 2015, avevano comunicato al Centro
l’intervenuta loro volontà di «cessare la crioconservazione esigendone
la riconsegna».
L’esito negativo di questa istanza, li aveva, infine, convinti ad attivare il percorso giudiziario.
Costituitosi
in giudizio, il Centro aveva eccepito l’infondatezza della richiesta
per contrasto con la normativa vigente, che non permette in alcun modo
di “cessare” la crioconservazione. Tanto meno, osservava la difesa del
Centro, quando la restituzione pareva avere la finalità della
«distruzione degli embrioni» che costituisce condotta penalmente
rilevante.
Il Giudice romano nell’affrontare le motivazioni poste a
base dell’istanza, rilevava sotto il profilo del “fumus” della
“restituzione”come questo non potesse considerarsi esistente posto il
fatto che la norma, nel suo testo vigente, non consentisse alcuna
“apertura” ad una richiesta di tal fatta, ma anzi, la sentenza della
Corte Costituzionale n. 151 del 2009, intervenendo nel superare il
limite di tre embrioni destinati all’impianto della procreazione
medicalmente assistita, imprimesse «una particolare tutela prevedendo
l’obbligo della conservazione con la tecnica del congelamento, fino a
quando non vengano utilizzati per il loro successivo impianto in un
ulteriore ciclo di procreazione medicalmente assistita, ovvero vengano
dichiarati in stato di abbandono, secondo quanto disciplinato dal Dm
della Salute del 4 agosto 2014».
Ancora, proseguendo
nell’analizzare gli aspetti critici del ricorso in punto di fondatezza
del diritto, il giudice romano osservava come l’ipotesi della
“ventilata” soppressione, successiva alla avanzata richiesta di
restituzione, fosse un canone semplicemente “contra legem” prevedendo la
normativa un divieto espresso, la violazione del quale comporta «la
previsione della pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da
50mila a 150mila euro».
Sotto altro profilo e sempre in via di
diritto, la pronuncia in esame, non ha mancato di osservare come,
laddove la volontà dei ricorrenti fosse da ricomprendersi tra quelle
manifestazioni di volontà tese a «rinunciare ai futuri impianti» allora
si concretizza la sola diversa ipotesi di «embrioni dichiarabili in
stato di abbandono» con la conseguenza dell’assoggettamento di questi
alla «speciale procedura che ne prevede il trasferimento dal Centro di
procreazione medicalmente assistita alla Biobanca nazionale» senza che
mai possa aver pregio la richiesta di restituzione di alcun embrione.
Infine,
nell’affronto della tematica del “periculum in mora” si è osservato, in
merito alla sua insussistenza, come il «trascorrere di nove anni
dall’assenso alla crioconservazione» e di ulteriori sette anni dal
fallimento della società all’epoca custode degli embrioni -
immediatamente trasferiti in altra adeguata struttura di conservazione -
non giustificasse, sotto nessun profilo, il criterio dell’esistenza di
un pericolo del deterioramento dell’assunto diritto, durante lo
svolgimento di una ordinaria causa di merito, con conseguente
impossibile accesso alla via d’urgenza.