lunedì 18 aprile 2016

Il Sole 18.4.16
Sono tre i rami su cui poggia «Mafia capitale»
di Lionello Mancini

Il IV Rapporto dell’Osservatorio Luiss sulla legalità dell’economia è il più recente contributo alla comprensione di quel “Mondo di mezzo”, nel quale i Buzzi e i Carminati hanno stretto la mano a inamidati white collars, ovvero a politici, burocrati e imprenditori non ricattati né intimoriti, ma semplicemente comprati da arcinoti criminali di lungo corso. Insomma, Mafia capitale. Il Rapporto cerca di fissare i punti salienti del fenomeno, rincorrendo materiale giudiziario ancora incandescente, man mano che questo diventa pubblico.
È una buona sintesi quella, per esempio, offerta nel capitolo curato da Chiara Rosa Blefari e Roberta Lomurno: «Complessità e poliedricità (di Mafia capitale,ndr) sono testimoniate dal suo snodarsi lungo tre rami corrispondenti agli scopi del sodalizio, apparentemente scissi tra loro, ma tutti facenti capo a un unico dominus. 1) Il ramo criminale, che opera nel campo dell’usura e del recupero crediti con metodi violenti, dell’estorsione e del traffico di armi. 2) Il ramo imprenditoriale, che opera nel settore dell’edilizia, della somministrazione dei pasti, attraverso imprenditori apparentemente insospettabili, ma che, in realtà, agiscono per il sodalizio. 3) Il ramo della Pa, nel quale operano soggetti che rivestono cariche pubbliche di natura elettiva o di governo di enti pubblici, nonché imprenditori, in particolare nel settore cooperativo, che gestiscono appalti per le amministrazioni pubbliche nei settori dell’emergenza alloggiativa e della raccolta e riciclaggio di rifiuti».
Ancora: «In ragione delle peculiari caratteristiche sociali e criminali della città di Roma, Mafia capitale opera con nuovi e diversi obiettivi, il principale dei quali è di realizzare profitti attraverso l’infiltrazione nei settori economici e degli appalti pubblici. A tale scopo, la nuova organizzazione si avvale del tradizionale metodo violento solo nella misura in cui sia necessario per ribadire e riaffermare la sua forza. Nonostante ciò, l’associazione non può del tutto rinunciare al suo ancoraggio nel “Mondo di Sotto”, a pena di perdere il suo prestigio criminale, essenziale per il perseguimento dei fini affaristici».
Vengono così delineate, con linguaggio competente ma divulgativo, anche le differenze – sia pure nell’attesa di sentenze definitive – con le classiche organizzazioni mafiose. L’assenza di modelli rigidamente gerarchici e verticistici «è compensata dalla presenza di figure carismatiche di grande caratura criminale e da rapporti molto stretti con le organizzazioni mafiose tradizionali operanti nel territorio romano, nonché da una connaturata capacità di ricercare e realizzare continue mediazioni, che si risolvono in un equilibrio idoneo a generare il senso della capacità criminale».
Ai 16 giovani estensori del report e ai loro docenti, va anche riconosciuto il merito di aver saputo cogliere la sfida intellettuale connaturata alla tempesta giudiziaria scatenatasi a fine 2014: non risulta che altri ambiti culturali o pensosi think tank, abbiano sentito l’esigenza di interrogarsi su questo fenomeno criminale, più misconosciuto che ignoto a Roma e nel Lazio.
P.S. Sul secondo numero del neonato quotidiano “Il Dubbio”, l’analisi del direttore Piero Sansonetti terminava così: «Ieri il procuratore Pignatone, parlando alla Luiss, ha spiegato che “Roma non è una città in mano alla mafia ma è una città caratterizzata da presenze mafiose significative. La fortuna per noi inquirenti è che non ci sono omicidi né stragi. Non c’è bisogno di ammazzarsi perché ci sono soldi per tutti”. Sono parole sicuramente sagge. Ma una criminalità che delinque senza uccidere, senza terrorizzare, senza estorcere nulla ai cittadini comuni, siamo sicuri che non sia semplicemente criminalità ordinaria? Cos’è che distingue la criminalità comune da quella mafiosa, se non la violenza e il terrorismo diffuso?». Una strana domanda, che segue le già numerose risposte, a cominciare dalla Cassazione fino al Rapporto dell’Osservatorio Luiss. Sarà perché, come vuole il precetto latino, il Dubbio gioca pro reo?