il manifesto Alias 30.4.16
L’avventura del contatto
Tempi
presenti. «S/Oggetti di desiderio: Sexistence»: un’anticipazione della
«lectio» che il filosofo francese terrà a Bari il 5 e il 6 maggio, al
Festival delle donne e dei saperi di genere
Constantin Brancusi, «Il bacio», 1907
di Jean-Luc Nancy
Esiste
l’amore in tutta la sterminata estensione del termine, l’amore senza
confini, l’amore per l’umanità, il mondo, la musica, il mare o la
montagna, la poesia o la filosofia, che è essa stessa amore della
sapienza. Non è così? Quest’ultima, a sua volta, consisterebbe soltanto
nell’amare ciò che non si può giudicare, né conoscere o rifiutare: tutto
l’altro in quanto altro, tutto l’esterno in quanto esterno, e la morte e
l’amore stesso, impeto furibondo che ci fa morire nell’altro o fa
morire l’altro in noi.
Esiste questo amore sconfinato,
inesorabile, insopportabile, insensato, impossibile, ed esiste quello
che si fa e per il quale non possediamo altro termine se non, appunto,
«fare l’amore» (oppure «andare a letto», espressione che però non solo
manca di eleganza, ma si trascina dietro una sfilza di parole volgari,
triviali, oscene, sporche, disonorevoli, impronunciabili, oppure
riservate per essere pronunciate, gridate o mormorate durante l’amore
stesso, quando lo si fa). L’ultimo tipo di amore viene definito
preferibilmente «eros», mentre per il primo il lessico oscilla tra
«philia», «agapè» e «caritas».
In prossimità di soddisfazione
Questi
due amori hanno in comune lo slancio, l’infervoramento, la
precipitazione senza riserve e senza prospettive: non viene fissato lo
scopo, l’esito non viene descritto, si tratta di arrivarci sapendo che
l’importante non è giungere alla meta. Forse aspiriamo a tracciare i
confini di una finalità possibile: se da un lato ciascun altro è il mio
prossimo, la sua prossimità sembra giustificare e persino invocare la
mia predilezione, la scelta che faccio di lui e il valore insigne che
gli attribuisco; dall’altro, si suppone che il furore del desiderio
raggiunga un grado di soddisfazione tale da potersi placare. Eppure
sappiamo perfettamente che non ci è data alcuna prossimità senza che
questa ci venga immediatamente sottratta più in là, in un’estraneità
infinita. E sappiamo anche che non esiste «soddisfazione» – niente
«satis», niente «abbastanza» per colui che desidera non tanto appagarsi
quanto desiderare ancora e sempre, di nuovo.
All’orizzonte sia di
un amore che dell’altro compare la riproduzione, sotto forma di
conservazione del gruppo attraverso la pace comunitaria, oppure sotto
forma di conservazione della specie (e/o del gruppo…) attraverso la
generazione di nuovi individui. In entrambi i casi, tuttavia, ci si pone
al di là dell’opera: tanto il gruppo quanto il nuovo individuo devono
rinnovare il desiderio per conto proprio, invece di esserne il prodotto.
Forse
il sesso propone una cifra – se non la cifra – di tale rinnovamento del
desiderio, che in fondo non è altro che il desiderio stesso.
L’eccitazione
sessuale, con tutta la sua forza animale e il suo singolare dominio
sull’animale umano, rappresenta una turbolenza ontologica del rapporto:
alla pari del linguaggio, lo porta molto lontano, cioè dove non si può
parlare di satis-fazione, dove non se ne può mai fare abbastanza, ma
dove c’è incessantemente qualcosa da fare, qualcosa che non avviene mai
come tale, né come risultato, che perciò non è mai «fatta», ma che pure
non smette mai di volersi fare.
Un atto performativo
Cosa
facciamo quando facciamo l’amore? (domanda sussidiaria: in quante lingue
si dice, più o meno letteralmente, fare l’amore?) Noi non facciamo
niente nel senso di produrre qualcosa ; se si fa un figlio, che lo si
consideri o meno una produzione (riporto l’espressione di Françoise
Dolto: «I genitori credono di fare dei figli, ma si accorgono presto che
i figli non lasciano fare!»), non si tratta dell’amore in quanto tale,
che potrebbe benissimo essere del tutto assente. Noi facciamo nel senso
che compiamo un atto, anche se quello designato non è un vero e proprio
atto, è un sentimento, una disposizione, l’eccitazione del rapporto al
di là di se stesso, verso ciò che sembra destinato a rinnovarlo
all’infinito, oppure a oltrepassarlo in un amplesso con cui concluderlo,
senza però sapere in che senso vada preso quest’ultimo verbo.
Se
non altro l’espressione indica un’effettività dell’amore che nessuna
dichiarazione, nessuna dimostrazione, nessuna testimonianza potrà mai
pretendere di raggiungere. Ecco perché, in un certo senso, non è
impossibile fare l’amore in maniera diversa dal rapporto sessuale in
senso stretto: lo scambio di sguardi, di questo o quel contatto, persino
delle parole può avventurarsi sul terreno di questo «fare». Almeno una
cosa, infatti, è certa: l’amore non può essere soltanto detto, il suo
dire stesso dev’essere un fare. «Ti amo» è un atto performativo: fa ciò
che dice. L’amplesso si limiterà ad aggiungere un dire in eccesso, che
«performa» il proprio limite.
Perché bisognerebbe parlarne?
Semplicemente perché non c’è casualità nel gesto compiuto da Freud
quando ha voluto fare piena luce teorica sul sesso, gesto cui tendevano
già da qualche tempo alcuni approcci antropologici del XIX secolo. Non
c’è casualità perché non sorprende che venga investito di nuovi
significati ciò che era stato così accuratamente e costantemente
sottoposto a un controllo morale e religioso, vale a dire ciò che poteva
soltanto restare dissimulato per essere meglio sublimato
nell’assunzione dell’amore divino.
La dissimulazione del sesso non
faceva che portare avanti, con una modalità nuova proveniente dal
contesto cristiano, la sua antichissima valenza sacra. Forse non esiste
cultura in cui il sesso non sia, o non sia stato, oggetto di
prescrizioni particolari, che si tratti dei culti rivolti agli organi
genitali, dei sistemi di parentela e legittimità delle unioni, dei tabù o
delle clausole d’impurità, delle condanne di alcune forme di
sessualità, delle prostituzioni sacre oppure delle pratiche sessuali
legate a certi esercizi spirituali – per limitarci ad alcune voci di un
elenco che potrebbe essere molto più lungo e preciso.
Se è vero
che il cristianesimo, tra tutte le culture, forse ha rappresentato la
forma più propensa alla diffidenza e all’astinenza sessuali,
evidentemente esiste un nesso con il motivo dell’amore così come è stato
determinato dal cristianesimo. L’amore cristiano non si distingue
soltanto, come si dice spesso e a ragione, dall’eros in quanto desiderio
di possesso. Del resto, in buona parte della teologia e della
spiritualità cattoliche, l’agapè – distinta in quanto affetto, diletto,
cura (che diventa caritas) dell’altro – è stata spesso accostata per
molti aspetti all’eros. Carità e concupiscenza si oppongono, ma l’una
non può essere completamente estranea all’altra, perché in un certo
senso si deve pure amare ciò che si desidera, oppure desiderare ciò che
si ama. In realtà, carità e concupiscenza si attraggono a vicenda tanto
quanto sembrano respingersi.
Il ritorno infinito
Se l’unico
amore che vale (se non addirittura che esiste) è quello di Dio nel senso
di un genitivo soggettivo, cioè l’amore che viene da Dio e anche
l’amore che costituisce l’essere Dio, allora questo amore rivolto
all’intero creato, amore egli stesso creatore, relega
nell’insignificanza qualsiasi amore non divino e al contempo chiama
qualsiasi creatura a entrare in quell’amore, a diventare amore. Così due
tendenze profonde hanno governato e diviso il cristianesimo, riunendosi
e dividendosi al suo interno: un’espansione infinita dell’eros e
un’assunzione di qualsiasi desiderio e piacere sotto l’egida di una cura
originaria.
Nell’ottica dell’infinito, l’esigenza eccede in
maniera assoluta ogni possibilità di realizzazione, oppure non viene
realizzata se non come l’atto divino da cui procede. Dio crea per amore e
questo amore vuole tornare a sé all’infinito. L’amore diventa il nome
di un ritorno infinito – all’origine, a sé, all’altro assoluto.
Nell’ottica della totalità, il tutto va inteso non più come un ordine
(un cosmos con il suo arché e il suo logos), bensì come una scelta
gelosa che ordina (nuovo senso di èn archè hèn o logos). L’amore ordina
che lo si preferisca, come esso stesso ci ha preferito (al nulla).
Esiste un debito assoluto.
Esiste un debito, il dovere di
restituire l’amore ricevuto e, al tempo stesso, questo amore ricevuto
costituisce una specie di credito illimitato: l’amore rivendica se
stesso ovunque, in tutti. Vi è dunque una specie di totalitarismo,
un’economia totalitaria dell’amore, dietro la quale peraltro non è certo
indifferente veder profilarsi un’economia del profitto.
È a
partire da questo che è possibile comprendere come il sesso si manifesti
al mondo moderno con un vigore, una virulenza e persino una violenza
mai conosciute altrove. Esso è carico di tutta l’energia che nessun
impeto divino può più assumersi e che quindi non raccolgono nemmeno più
le macchine adibite alla produzione.
La vita in più
Saremmo
tentati di dire che il figlio è una produzione (poiesis), mentre l’amore
è un comportamento (praxis). Tale distinzione, però, risulterebbe
troppo semplicistica, perché un figlio è un’altra esistenza più che un
prodotto e il comportamento sessuale è ben lungi dal limitarsi agli atti
che portano questo nome. È molto difficile decidere dove cominci e dove
finisca il sesso attraverso tutti i nostri rapporti, attività e
atteggiamenti. Esso attraversa tutta la nostra vita. Ciò che ha portato
alla luce Freud, con il nome di «pulsione (Trieb) erotica», non è
l’imprevista importanza, più o meno meccanica, di un registro inferiore
della nostra animalità umana: è piuttosto la figura al tempo stesso
nuova e antichissima di ciò che ha aperto l’essere vivente a un
sovrappiù di vita e l’essere vivente parlante a un’esclamazione ai
confini del senso.
Per il momento accontentiamoci di dire che il
sesso apre l’esistente a un abisso e a una violenza che se non
esauriscono certo i tratti digressivi e scoperti dell’esistenza, quanto
meno possiedono una caratteristica: ci conducono – in un groviglio di
abisso e violenza – sul bordo di un «fare» che fondamentalmente si
limita a sfiorare al tempo stesso il doppio al di là dell’animale e del
divino, due nomi che non dicono altro se non che l’esistenza è la sua
stessa «deiscenza», una sexistenza.
(Traduzione italiana di Ida Porfido)
SCHEDA
Si
concluderà in grande la quinta edizione del Festival delle donne e dei
saperi di genere, con le due lezioni di Jean-Luc Nancy del 5 e 6 maggio
che andranno a coronare il percorso fitto di appuntamenti, tra
filosofia, cinema, teatro e incontri, che ha preso avvio a Bari fin
dalla metà di aprile. Dedicata interamente al segno delle transizioni,
quindi partendo dalla riflessione intorno alla soggettività nomadica, la
cifra complessa del presente riesce a dipanarsi. Ne è convinta
Francesca Recchia Luciani, organizzatrice e direttrice del festival e
docente di Storia delle filosofie contemporanee a Bari; appartiene
infatti al presente l’interrogazione sul corpo «e l’identità sessuale, i
corpi migranti nella loro relazione con i luoghi, riguarda tutti i
cambiamenti innestati nell’esistenza individuale dall’appartenere a un
mondo relazionale e sociale in perenne metamorfosi». Se nelle prime due
edizioni il baricentro atteneva ai saperi e le pratiche delle donne, da
tre anni a questa parte il festival ha cambiato non solo nome ma anche
fisionomia. Una torsione che è apertura femminista al tema delle
differenze. Il rilievo scientifico ma anche politico non può dunque
sfuggire quando si nominano le protagoniste delle precedenti edizioni,
da Ipazia a Carla Lonzi, passando per Audre Lorde. Centralità di vite e
portati politico-filosofici che assumono quest’anno l’idea di un punto
di partenza per raccontare cosa esprima la «transizione» quando a essere
interpellati sono corpi sessuati e in relazione. Con una precisa
intenzione di coinvolgimento del territorio, emerge allora una sinergia
di forze e di pratiche capaci di attrarre non solo un pubblico di
studenti ma più vasto che possa restituire narrazioni all’altezza di uno
spaesamento che si fa sempre più pressante.
Il festival, promosso
dal Centro interdipartimentale di studi sulla cultura di genere
dell’università degli studi di Bari «Aldo Moro» e sostenuto dalla
Regione Puglia, dall’università di Bari, da Apulia film commission e
Teatro pubblico pugliese [mentre le lezioni di Nancy sono state
sostenute da Fondazione Puglia e Alliance Française di Bari], viene
largamente condiviso anche dal tessuto associazionistico e da molte e
molti che con passione ci lavorano intorno, nonostante la variabilità
dei fondi a disposizione ma con il saldo auspicio di un sempre maggiore
impegno. Questo perché la formula adottata in direzione di una
trasversalità dei linguaggi può rappresentare un antidoto alle chiusure
disciplinari e al contempo un metodo efficace di ricognizione
esperienziale.
Il sito che riguarda l’iniziativa è
www.festivaldonnesaperidigenere.it. Mentre nel sito della rivista di
pratiche filosofiche e scienze umane «Postfilosofie»
(http://www.postfilosofie.it), si possono leggere gratuitamente i
materiali dei festival precedenti, come quelli relativi agli Atti di
questa edizione di prossima pubblicazione. (alessandra pigliaru)