il manifesto 30.4.16
Allarme, un comunista è fuggito
Intervista. Dennis Berry, attore e regista, racconta le vicende del padre sfuggito alla caccia alle streghe
di Rinaldo Censi, Cecilia Ermini
Il
primo approccio dice tutto. Siamo lì, nel tendone in Piazza della
Libertà, a Bergamo. Siamo lì per seguire l’incontro tra Anna Karina e
Olivier Seguret, parte integrante dell’omaggio ad Anna Karina, promosso
dal Bergamo Film Meeting. Tutti gli occhi sono rivolti a lei, Anna: la
sua perenne aria sbarazzina, gli occhi vispi, compresa una certa
timidezza. Mentre parla, Karina ringrazia più volte il marito, Dennis
Berry; lo cerca anche con lo sguardo, controlla dove sia. Aggiunge anche
che Dennis è un regista, e che ha girato film insieme a lui. E Dennis è
proprio lì davanti a noi, in prima fila, una testa riccioluta su una
sagoma fasciata perennemente da un piumino grigio. C’è un momento
comico: Dennis si alza, stufo di stare seduto. Karina si rivolge ancora a
lui ma lui non c’è, e lei lo cerca con lo sguardo. Ci diciamo che deve
aver già sentito queste risposte più di una volta. Più tardi siamo
all’Hotel. Bisogna intervistare Karina. Ritroviamo anche Dennis, seduto a
lato. Un viso simpatico. Ha la battuta pronta. Parla inglese, un
inglese californiano. Scambiamo qualche parola. Dice che Anna è stanca
per il viaggio in treno. Perché non avete preso l’aereo? Lui ci fissa
con uno sguardo sbilenco, di chi la sa lunga, e ci dice che ha problemi
col passaporto. La cosa – pensiamo – si fa interessante. Durante
l’intervista, è lui ad imbeccare lei, le ricorda qualche aneddoto:
somiglia a una specie di pigmalione, ma uscito da un film dei fratelli
Marx. Ridacchia, fa battute e alla fine ci accorgiamo che, più che
seguire l’intervista, seguiamo lui. Ha qualcosa di magnetico. Più tardi,
mentre passeggiamo, mettiamo insieme i pezzi, attratti da quella
sagoma, tanto bislacca quanto irresistibile. Americano, regista, con
problemi di passaporto: digitiamo il suo nome su google e – bum! – si
apre un mondo intero. Dennis Berry è il figlio di John Berry, grande
regista hollywoodiano, aiuto di Orson Welles al Mercury Theater,
ricercato da McCarthy perché tra i «rossi» di Hollywood. Più tardi,
mentre lui accompagna Karina in sala per presentare al pubblico Band à
part, la decisione è presa. Dobbiamo intervistarlo. Questo è ciò che
abbiamo raccolto, la mattina dopo, a cominciare proprio dal ricordo del
padre John. «Mio padre iniziò la sua carriera nel Mercury Theatre di
Orson Welles come attore e assistente di Orson e quando Welles se ne
andò a Hollywood, mio padre John prese per un po’ le redini del teatro e
fece molti spettacoli di successo, mettendo in scena anche un
bellissimo e controverso testo di Richard Wright. Poi andò a Hollywood».
Quando
avvenne, da parte di tuo padre, l’adesione al partito comunista che,
come sappiamo, gli costò una promettente carriera a Hollywood,
costringendolo a emigrare a Parigi?
Prima di lasciare il Mercury,
molti anni prima. Negli Stati Uniti, parliamo degli anni ’30, se eri di
New York e desideravi conoscere e «vivere» di cultura, dovevi in qualche
modo aderire al movimento, anche solo simpatizzare, perché la lotta e
le manifestazioni erano gli unici mezzi, anche nel mondo dello
spettacolo, per respirare e «produrre». Dopo qualche stagione al
Mercury, mio padre fu chiamato a Hollywood, girò cinque o sei film come
attore e poi passò alla regia cinematografica, realizzando film come
Bionda tra le sbarre con Betty Hutton e Casbah con Yvonne de Carlo. Poi,
nel 1950, Edward Dmytryk – questo prima che collaborasse dopo mesi
passati in prigione – propose a mio padre di girare un piccolo film per
supportare i famosi «Hollywood Ten» e mio padre accettò. In quel
documentario si percepisce l’atmosfera cupa e claustrofobica di quel
periodo, sembra quasi un film noir ma purtroppo le cose peggiorarono nei
mesi successivi. John Garfield ad esempio, protagonista del film di mio
padre Ho amato un fuorilegge, fu chiamato a testimoniare e morì
d’infarto poco prima di presentarsi alla commissione, immaginate lo
stress, la paura di perdere il suo status di attore… Poi toccò a mio
padre e così un giorno due agenti dell’FBI si presentarono a casa nostra
per prelevarlo. Mio padre scappò dalla finestra, prese la macchina e
guidò per nove giorni fino al Canada per poi volare verso la Francia. Il
giorno dopo, su tutti i quotidiani, la sua fotografia in prima pagina
era affiancata dalla scritta «Minaccia, regista comunista sta fuggendo
dalla nazione, se lo vedete chiamate questo numero» e così finì nella
lista dei criminali più pericolosi d’America. Era il 1951, mia madre,
con discrezione, si liberò della casa e partimmo poco dopo anche noi
alla volta di Parigi.
Parigi, all’epoca, era un approdo «sicuro» e
frequente per moltissimi «blacklisted». Che clima si respirava? Tuo
padre come e quando riprese a lavorare?
Si formò una meravigliosa
comunità: Jules Dassin, Alex North, lo sceneggiatore Ben Barzman,
addirittura alcuni, per crearsi uno status o trovare lavoro, dicevano di
essere nella lista ma non lo erano veramente. Era figo in Francia
essere un americano di sinistra. Vivemmo in una sorta di comunità per
due, tre anni, condividendo i pochi soldi che avevamo e ci riunivamo in
piccoli gruppi per fare dei piccoli convegni, anche divertenti a volte,
come quello per stabilire se era «comunista» o meno avere la donna di
servizio. Poi Jules Dassin riuscì a ottenere il primo contratto in
Francia e lasciò la comunità perché non voleva condividere i soldi.
Questa comunità, alla fine, si ruppe perché il capitalismo era ed è,
purtroppo, più forte di tutto il resto.
È un po’ la storia che racconta Lubitsch in «Ninotchka»…
Esatto.
Invece, per quanto riguarda mio padre, fece qualche film in Francia con
Eddy Constantine, un po’ di teatro a Londra e tornò a girare negli
States solo parecchi decenni dopo.
Che ricordi hai di tuo padre sul set?
Vedevo
poco mio padre a casa quindi andavo spesso a trovarlo sul set. Il mio
primo ricordo – quella che posso considerare la mia «scena primaria» –
avrò avuto cinque anni credo, risale ai tempi di Tension. Mio padre
parlava con Cyd Charisse, spiegandole, in un letto gigantesco, come
baciare Tony Martin. Mia madre mi teneva per mano e quindi lo ricordo
come un mix esplosivo di eccitazione, colpa, complesso di Edipo, ecc
ecc. A parte questo, mio padre, oltre all’essere stato un grande
regista, era un attore magnifico.
Come avvengono invece i tuoi
primi passi nel mondo del cinema? Dalle scarne informazioni trovate su
internet, esordisci come attore, nel 1967, ne «La collezionista» di Eric
Rohmer…
In realtà il mio primo lavoro nel cinema è stato come
assistente personale di Vincente Minnelli, a 19 anni, per il suo film
Castelli di sabbia con Richard Burton e Liz Taylor nel 1965. Non amavo
quel lavoro, c’era poco da fare anche perché Minnelli aveva una
padronanza assoluta del set e così, alla fine, il mio compito era
soltanto quello di evitare di non far ubriacare troppo i due.
Passiamo a «La collezionista»…
Haydée
Politoff, la protagonista del film, mi adorava e disse a Rohmer «Se
devo collezionare ragazzi, voglio decidere io chi». Non desideravo
recitare, non amo essere diretto da altre persone, ma conoscevo Rohmer
da un po’ e sapevo che sarebbe stato un lavoro breve. Fu un’esperienza
magnifica perché c’erano solo nove persone sul set ed era un mondo
completamente diverso da quello che avevo imparato a conoscere grazie a
mio padre. Sul quel set capii che si poteva girare un film in maniera
completamente diversa e capii anche che una cultura alternativa stava
crescendo contro il sistema. Rohmer diceva sempre «È l’economia a creare
l’estetica» e credo non esista affermazione più veritiera. Cominciò
così il mio tortuoso percorso cinematografico, a cavallo fra Francia e
Stati Uniti alla fine degli anni ’60.
Dopo «La collezionista»,
reciti anche in «L’amour fou» di Rivette, «Pauline s’en va» di André
Téchiné e «Paris n’existe pas» di Robert Benayoun. Come e quando avvenne
il passaggio da attore a regista?
Feci un film come attore,
Borsalino, e mi pagarono molto bene. Era verso la fine degli anni ’60 e
un amico, che conosceva le mie velleità registiche, mi disse «Fai come
Philippe Garrel, fregatene del budget». Avevo scritto un soggetto dal
titolo Jojo Doesn’t Want to Show His Feet, la storia di una specie di
mostro di 22 anni e della sua ragazza. Una storia davvero bizzara,
questo ragazzo non si toglieva mai le scarpe, nemmeno sotto la doccia.
All’inizio volevo rubare i soldi per girare perché all’epoca ero
convinto che il furto fosse l’unico atto «legittimo» e tutto ciò che era
legale era bandito. Alla fine non rubai nulla e lo girai con pochi
soldi, insieme alla mia amica Zouzou, ma fui molto soddisfatto. Jacques
Rivette amava molto questo piccolo film, lo considerava il primo horror
senza trama. Poi girai anche un altro corto The Death of a Cat che vinse
il primo premio al festival di Oberhausen. Ottenni così un po’ di
celebrità come regista underground e iniziai a pensare al mio primo
lungo, che volevo girare insieme alla donna che, nel frattempo, avevo
sposato: Jean Seberg.
Come avvenne l’incontro con Jean? Era in qualche modo legato ai comuni interessi civili e politici?
No,
scoprimmo successivamente di condividere la stessa passione per
l’attivismo e i diritti civili. La prima volta che la vidi avevo 25 anni
ed ero in un night club. La vidi danzare ma non avevo capito che fosse
lei, era molto buio. Ballava con una sorta di strano personaggio, forse
un nano. Rimasi folgorato e chiesi a un amico di organizzare un party
per incontrarla. Arrivò con Fabio Testi poi, approfittando di un momento
di solitudine, si avvicinò a me dicendomi «Puoi fare qualcosa per me?»
Risposi «Farò tutto quello che mi chiederai» e lei sussurrò «Baciami».
Uscimmo insieme tre volte e poi ci sposammo. Dopo il matrimonio con
Jean, volevo girare con lei il mio primo lungometraggio, una storia
molto cupa, una sorta di sci-fi d’autore anche perché lei era stufa di
recitare in film prettamente commerciali ma, per qualche guaio di
produzione, il film, Prossima apertura casa di piacere, si trasformò in
una commedia. Alla fine lo girai più per lei che per me, non lo amo
molto, e continuai a fare la spola con Los Angeles in cerca di soldi per
girare altri film.
Negli Stati Uniti hai avuto modo di entrare in contatto con il cinema underground dell’epoca?
Conoscevo
Andy Warhol e Paul Morrissey. Un giorno Warhol mi mostrò un film Jesus
Christ on 42nd street, la storia di un piccolo freak che vendeva speed e
si comportava come Gesù Cristo. Era un lavoro magnifico, molto più
interessante, a mio avviso, di altri suoi film. Il film andò
deliberatamente perduto perché, secondo me, Warhol non voleva mostrare
altri lati del suo genio; quel film cozzava contro l’immagine che si era
costruito e l’aveva reso famoso, quell’aura di provocazione e rottura
che lo circondava.
A proposito di «factory», a Parigi hai mai avuto contatti con lo Zanzibar Group?
Conoscevo
bene Olivier Mosset e ovviamente anche Philippe Garrel. A un certo
punto avrei dovuto girare un western psichedelico con Tomas Milian e
Pierre Clementi ma purtroppo arrestarono Pierre in Italia e restò in
galera per tre anni. Quando uscì era totalmente distrutto. Fu una vera
tragedia perché l’unica «colpa» di Pierre fu andare a una festa e fumare
marijuana. Ricordo che tutti, all’epoca, anche Federico Fellini,
cercarono di farlo uscire ma senza successo e poco tempo dopo una
tragedia simile accadde anche a Philippe Garrel. Quando uscì di prigione
mi disse «Non scorderò mai l’orrore che mi hanno fatto». Da allora, ho
l’impressione che Philippe giri film sempre bellissimi ma più dolci e
meno folli di quelli realizzati come Zanzibar. Per me resta uno dei
pochissimi esempi di purezza, lotta e non compromesso, non come me,
piccolo ladro del sistema.
Perché ti definisci in questo modo?
Dopo
numerosi progetti falliti, negli anni ’70, e la separazione da Jean,
volai a Los Angeles. Là incontrai Anna Karina e ci innamorammo. Ho
girato con lei un film, Last Song, la storia di un rockstar che indaga
sulla morte del fratello. Dopo una serie di passaggi a festival
importanti, compreso quello di Montreal e Taormina, il film avrebbe
dovuto avere una regolare distribuzione ma il distributore fallì quattro
settimane prima dell’uscita. Avremmo dovuto proiettarlo anche qui a
Bergamo, ma l’unica copia ora disponibile, è doppiata in francese, senza
il mio consenso. E non mi piace affatto. Sto lavorando ad una nuova
copia che uscirà in dvd. Poi, un po’ per caso e un po’ per problemi
finanziari, accettai qualche tempo dopo la proposta di un amico di
sostituire un regista in una serie tv. Non sapete i tormenti prima di
dire sì! Avrei messo a repentaglio la mia purezza? Ho bluffato e ho
accettato: «ma solo per una settimana!» gli ho detto. Poi sono andato
sul set: ed era tutto bellissimo. Da allora non mi sono più fermato.
Dopo anni di budget microscopici, pre-produzioni fallimentari, ecc ecc
finalmente avevo a disposizione macchine da prese, comparse, molti
soldi, una sorta di mia piccola Hollywood, un ritorno sulle tracce di
mio padre.
Va bene, forse ho accettato un compromesso che mai
avrei immaginato prima. Però non ho intenzione di «cedere» sulla
questione del passaporto. Dopo i guai dovuti all’allontanamento di mio
padre, non ho mai più risolto la questione, nonostante ancora oggi ci
siano dei problemi quando viaggio. Credo che potrei risolvere
tranquillamente la cosa ma, per lealtà verso mio padre, non lo farò mai.