il manifesto 30.4.16
Verdini debutta in maggioranza
Parlamento.
L’incontro alla camera tra la delegazione di Ala e quella del Pd
sancisce l’appoggio esterno al governo: «Abbiamo deciso una
concertazione per andare avanti nella legislatura». M5S e Fi: «Renzi
salga al Quirinale»
di Andrea Colombo
Da ieri e
solo da ieri l’alato gruppo di Denis Verdini fa parte a pieno titolo
della maggioranza. Sinora si trattava di ascari convocati alla bisogna.
Da quando, ieri mattina, il ruggente Denis è entrato nella sala del
gruppo Pd alla Camera, scortato da Ignazio Abrignani e Lucio Barani,
ricevuti con gli onori del caso dal vicesegretario Guerini e dai
capigruppo Rosato e Zanda, le cose sono cambiate. L’M5S insiste perché
Renzi salga al Colle per informare dell’avvenuto allargamento della
maggioranza. Forza Italia si associa. Lo avevano già fatto quando Denis
votò la fiducia, ma era una richiesta tirata per i capelli trattandosi
appunto solo di ascari. Ora quella richiesta è invece sacrosanta.
L’incontro
di ieri, infatti, è di quelli che si svolgono tra gruppi della stessa
maggioranza per definire il percorso e risolvere eventuali contrasti.
«Verdini non ha chiesto di entrare in maggioranza», rassicura Rosato. In
effetti non ha chiesto. Ha praticato l’obiettivo.
«Abbiamo deciso
il metodo: una concertazione per andare avanti nella legislatura»,
sintetizza Verdini. Il fedelissimo senatore Marcucci si esercita
nell’impossibile arrampicata sugli specchi: «Non c’è e non ci sarà alcun
ingresso di Verdini nella maggioranza». La risposta più precisa non
arriva dall’opposizione imbufalita né dalla minoranza Pd sgomenta che
denuncia «l’autogol». Proviene dal viceministro dell’Economia e
segretario di Scelta civica Zanetti: «Ala non è certamente nel governo,
ma è una forza in appoggio esterno al governo. Quindi l’incontro avrebbe
dovuto svolgersi con tutte le forze che sostengono il governo. Vorrà
dire che anche noi faremo un incontro bilaterale». Impeccabile.
Da
ieri i traghettati da Denis sono appunto una componente che appoggia
dall’esterno – dunque senza quella delegazione nel governo della quale
si parlerà semmai solo dopo il referendum – l’esecutivo («Non siamo né
in maggioranza né all’opposizione. Siamo in Paradiso» ha ironizzato lo
stesso Verdini). In compenso, in quanto componenti della maggioranza,
trattano sui provvedimenti. Il primo pacchetto sul quale trattare conta
due capitoli. Uno è il referendum, che vedrà i verdiniani schierati sul
sì, e su questo non c’erano dubbi, ma quasi certamente senza
imbarazzanti comitati in comune. L’altro è la prescrizione, questione
decisamente più delicata. Renzi vuole chiudere la partita subito, per
mettere la nuova legge all’incasso nelle urne di giugno. Per farcela ha
bisogno che lo sostengano sia l’Ncd che Ala. L’innalzamento dei termini
della prescrizione a 18 anni è troppo per Alfano e anche per Verdini,
che insiste sui 15 anni e mezzo previsti dal testo originario del
governo. La mediazione verrà cercata martedì al Senato, e si troverà
certamente più meno in mezzo tra i due termini. Si tratta comunque di
un’eternità. Però la chiacchierata di ieri alla Camera, oltretutto
fissata all’inizio addirittura al Nazareno, il sapore dell’autogol lo ha
davvero. Bisogna chiedersi perché Renzi abbia fissato un appuntamento
tanto delicato proprio adesso invece che a urne chiuse. Certo, la
tavolata avrebbe dovuto essere avvolta da muta discrezione, tanto che si
è aperta la caccia alla talpa. Ma confidare nella segretezza, in quel
colabrodo che è da sempre la politica italiana, sarebbe segno di
imperdonabile ingenuità, difetto del quale difficilmente si può accusare
Renzi.
Forse il ragazzo di Rignano ha deciso di correre il
rischio proprio perché ha bisogno di rinsaldare la maggioranza ed
evitare così incidenti esiziali, ad esempio proprio sulla prescrizione, a
un passo da un voto già molto difficile. Il tentativo di depotenziare
le elezioni di giugno da ogni valenza politica nazionale era e tanto più
è adesso una barzelletta: si tratterà al contrario delle amministrative
più dense di risvolti politici complessivi dal 1993. Erano rischiose
anche una settimana fa. Lo sono anche di più dopo l’abbandono di
Bertolaso e la convergenza azzurra su Marchini.
Sulla carta la
mossa dovrebbe avvantaggiare Giachetti a Roma, dal momento che la destra
dovrebbe dividere i propri voti tra due candidati. Ma la teoria e la
pratica sono cose diverse. Renzi, a Roma e in prospettiva ovunque,
contava di compensare l’emorragia di voti a sinistra facendo il pieno
dell’elettorato meno descamisado del vecchio Pdl. Data l’impossibilità
sia per l’ex protettore civile che per il palazzinaro di arrivare al
ballottaggio, quei voti dovevano convergere sulla destra moderata
incarnata dal Pd. Il ritiro di Bertolaso rende Marchini un’alternativa
reale per l’elettorato centrista, e rischia di salassare più Giachetti
che Meloni. Anche per questo ai piani altissimi del Nazareno c’è chi
profetizza: «Al ballottaggio Giachetti non ci arriva».