il manifesto 28
Se delinque un politico il danno è doppio
Legalità.
La corruzione dominante nel nostro paese non è quella dei ladruncoli di
strada, ma delle classi dirigenti e tra queste mafia, camorra e
’ndrangheta, per i capitali e il territorio che controllano
di Piero Bevilacqua
Credo
che sulla polemica esplosa in seguito alla dichiarazioni di Pier
Camillo Davigo occorra un di più di riflessione politica, rispetto alle
schermaglie formali, alle difese e alle accuse che abbiamo letto in
questi giorni. Sotto la densa polvere che si è alzata occorre cogliere
una sostanza politica di primissimo rilievo.
Sono in disaccordo
con quanto sostiene Anna Canepa, segretaria di Magistratura Democratica,
a proposito delle posizioni di Davigo, nell’intervista ad Andrea
Fabozzi (il manifesto, 24 aprile). Sono in disaccordo non tanto per i
contenuti in sé, che rientrano in logiche e schermaglie di corrente
(interessano a pochi). « Noi pensiamo che la corruzione non possa essere
affrontata esclusivamente in termini repressivi», afferma Canepa
nell’intervista, usando un motivo retorico per ridurre Davigo al rango
del Grande Repressore.
Ma come si può attribuire una convinzione
del genere non dico a un magistrato dell’intelligenza di Davigo, ma una
qualsiasi persona di media cultura? Chi può non essere d’accordo su
questo punto? Ma il fatto è che se manca la repressione, il resto (l’
amministrazione efficiente, un giustizia più rapida, la cultura della
legalità, ecc) non tiene. Senza la certezza della sanzione, la tendenza a
delinquere appare incomprimibile. Soprattutto, per svariatissime
ragioni storiche, in Italia. Non dimentichiamo che nel nostro paese sono
ancora vive e vegete due forme di criminalità organizzate che risalgono
a prima dell’unificazione nazionale, la mafia e la camorra, mentre una
terza, meno antica, la ‘ndrangheta, ha un raggio d’azione a scala
mondiale.
Capisco bene quanto ha dichiarato Raffaele Cantone, in
un’intervista sul Corriere della Sera (23 aprile): «Mani Pulite ha
fallito perché le manette non bastano». Certamente, non sono bastate e
non bastano, in nessun caso. Ma chi doveva far seguire alla repressione i
fatti di una profonda trasformazione della macchina amministrativa,
delle procedure giudiziarie, delle strutture della vigilanza e dei
controlli? Chi se non i governi e il ceto politico? Chi non ha fatto
seguire alla galera i fatti positivi di un profondo rinnovamento anche
dello spirito pubblico nazionale? Chi, se non il potere legislativo e
gli esecutivi? Sono costoro che sono mancati alla prova. Ai magistrati
spettano altri compiti, altrimenti in questo modo, per difendere il
governo Renzi capovolgiamo la verità dei fatti e con una capriola
retorica gettiamo la croce su Mani Pulite.
Un po’ di storia non
tanto per Cantone – magistrato prezioso per l’ opera che svolge nel
nostro paese – ma soprattutto per il presidente del Consiglio. Le parole
polemiche di Davigo sui politici che continuano a rubare, come in
passato, ma ora non se ne vergognano – che certo non sono formalmente
ineccepibili in chi rappresenta un sindacato – nascono nell’atmosfera
tossica creata dalla dichiarazione di Renzi al Senato il 20 di questo
mese.
In quella occasione ha detto testualmente che negli ultimi
25 anni sono state scritte «pagine di autentica barbarie legate al
giustizialismo». 25 anni? Ora lasciamo da parte Mani Pulite, che di
sicuro eccessi ne ha commessi, ma senza i quali non avrebbe scoperchiato
un sistema di corruttela così pervasivo e onnipotente. Chi ha governato
in Italia dopo quel terremoto giudiziario?
Abbiamo già
dimenticato? Noi siamo appena usciti da una fase storica in cui un
avvocato, Cesare Previti, che faceva vincere le cause al suo padrone
comprando i magistrati che lo giudicavano, è diventato ministro della
Repubblica. Vigeva allora la barbarie giustizialista? Erano gli anni in
cui il presidente del Consiglio, Berlusconi, con i suoi avvocati fatti
eleggere in Parlamento, si faceva emanare le leggi che dovevano salvarlo
dalla cause pendenti. L’intero parlamento della Repubblica asservito ai
voleri, ai capricci, perfino alle bugie ridicole di un magnate. A
questo giustizialismo allude Renzi? Sono anni di giustizialismo i
nostri, in cui il parlamentare Denis Verdini, amico del presidente del
Consiglio Renzi, e suo importante sostegno politico, con ben 6 rinvii a
giudizio, è tranquillamente al suo posto e continua a onorare della sua
presenza il nostro Parlamento? Ma perché Renzi scopre oggi l’urgenza del
garantismo? Non è per caso che, avendo fondato il suo potere su una
costellazione di appoggi, dal mondo imprenditoriale a quello finanziario
– come ha ben scritto A.Floridia (il manifesto, 14 aprile) – teme che
qualche inchiesta giudiziaria possa mandare in aria il suo traballante
castello?
Ora, nel paese in cui si tende a guardare solo al dito e
a non scorgere la luna, bisogna ricordare che Davigo ha anche fatto
un’altra affermazione: «La classe dirigente, quando delinque, fa un
numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente
da strada, e fa danni più gravi».
Ed è questo il punto, il vero punto da discutere.
Perché
la corruzione dominante nel nostro paese, non è quella dei ladruncoli
di strada, ma delle classi dirigenti. E tra queste, lo si voglia o no,
occorre metterci mafia, ‘ndrangheta e camorra, sia per l’imponenza dei
capitali che muovono, che per l’ampiezza dei territori che controllano.
Tale corruzione non è solo rilevante per il danno economico che infligge
al paese, com’è universalmente riconosciuto. Essa rivela in realtà una
questione politica di prima grandezza, a cui la sinistra dovrebbe
guardare con più attenzione.
Più di quanto non si creda essa è
legata strettamente alla dissoluzione dei grandi partiti di massa, i
quali formavano e selezionavano i quadri politici destinati alle
amministrazioni locali, al Parlamento, alla loro stessa gestione in
centro e in periferia.
Erano questi che operavano i primi filtri e
controlli sulla qualità, innanzi tutto morale, dei propri esponenti.
Oggi tale lavoro di selezione e filtro non esiste più. I presidi
politici della legalità sono stati sciolti. E chi decide di fare
politica lo fa per pura ambizione personale, entrando in un agone
competitivo interpersonale, anche con i propri compagni e in cui tutto è
permesso.
Ma la scomparsa dei grandi partiti popolari, nel nostro
caso del Pci, e l’emarginazione crescente del sindacato, hanno anche un
altro esito rilevantissimo per il dilagare della corruzione. Perché in
mancanza di un grande antagonista organizzato, capace di opposizione,
vigilanza e controllo, le classi dirigenti italiane, i nostri ceti
dominanti e quei politici che li rappresentano, sono da 20 anni
impegnati in un’azione predatoria del bene pubblico di un’ampiezza senza
precedenti.
Un’opera imponente di manomissione che solo il vigore
delle leggi riesce in parte a contenere e limitare. Oltre all’azione
generosa di pochi movimenti. La predazione, tramite soprattutto le
Grandi opere, riguarda il territorio, l’acqua, il patrimonio urbano, i
beni artistici , le città, il paesaggio. Anche spesso i nostri diritti.
Allora,
caro Cantone, è evidente che «le manette non bastano». La legge e la
vigilanza dei magistrati servono solo a contenere parte di quella
predazione di classe che scivola nell’illegalità, la punta dell’
iceberg. Non il resto. Perciò non solo non è giusto, ma è un grave danno
criticare i magistrati intransigenti. Perché oggi, quanto meno,
costituiscono l’ insufficiente argine in difesa del bene pubblico.