Corriere La Lettura 3.4.16
Ansia , il pregio è diventato un difetto
La capacità di trasmettere l’allarme di un pericolo (anche senza averlo mai vissuto)
è
 stata fondamentale nel successo evolutivo dell’uomo. Ma oggi costringe 
il cervello alla continua ricerca di nemici. Provocando il disturbo 
psicologico più diffuso e sottovalutato dei nostri tempi
di Fabio Deotto
Un
 uomo sta per attraversare la strada. È uscito dal lavoro da poco, le 
preoccupazioni che aveva tenuto a freno per tutta la giornata hanno 
ricominciato a chiedere udienza: è distratto. È appena sceso dal 
marciapiedi quando qualcosa — uno spostamento d’aria, uno stridio di 
pneumatici, il rumore prepotente di un clacson — lo induce a fare un 
salto indietro. Torna sul marciapiedi un attimo prima che un autobus gli
 sfrecci davanti. Il tempo di realizzare che cosa ha appena scongiurato e
 viene invaso dalla paura.
Se esiste uno scarto di tempo tra il 
momento in cui il protagonista di questa storia evita lo schianto e il 
momento in cui si rende conto di avere rischiato la vita è perché queste
 due reazioni sono il prodotto di processi mentali diversi, che 
avvengono a velocità diverse: la prima è una risposta inconscia e innata
 che condividiamo con altri animali, la seconda una rielaborazione 
emotiva prevalentemente conscia, legata alla memoria di episodi vissuti 
in passato, che è invece prettamente umana.
È il concetto alla 
base di Ansia , il nuovo saggio di Joseph E. LeDoux uscito il 30 marzo 
per Raffaello Cortina. Dopo aver descritto l’origine biologica delle 
emozioni ne Il cervello emotivo e le basi neurologiche dell’identità ne 
Il Sé sinaptico , il neuroscienziato americano ha scelto di affrontare 
di petto quello che oggi è da molti considerato il problema psicologico 
più diffuso (e sottovalutato) dei nostri tempi. Il termine «ansia» (così
 come «angoscia») deriva dalla parola greca angh , che veniva 
tendenzialmente usata per descrivere una condizione di costrizione o 
disagio fisico. L’idea di angoscia come condizione mentale è invece 
recente, di fatto è stata sdoganata da Sigmund Freud, che rimarcò la 
differenza tra la paura riconducibile a una situazione o a un oggetto 
presenti, e l’ ansia , ossia il timore per qualcosa che potrebbe 
realizzarsi in futuro.
Oggi la parola ansia viene utilizzata nelle
 conversazioni come lo zucchero nel caffè, spesso in modo improprio. Non
 è un caso: secondo il National Institute of Mental Health, nei soli 
Stati Uniti il 20% della popolazione soffre di disturbi legati all’ansia
 (attacchi di panico, fobie, stress post-traumatico, ansia 
generalizzata); in Italia la percentuale è inferiore (11,1% della 
popolazione), ma in entrambi i casi il dato reale è sicuramente più 
alto, dal momento che molte persone non entrano mai in contatto con un 
esperto che possa diagnosticare loro un disturbo.
Se noi esseri 
umani, a differenza di altri animali, siamo così vulnerabili all’ansia è
 per via delle nostre capacità speculative. «Anche se siamo nel presente
 — spiega LeDoux — viviamo per il futuro. Questa autoconsapevolezza è la
 nostra benedizione e la nostra maledizione. Essa ci permette di 
sforzarci per realizzare qualcosa, ma anche di preoccuparci del 
possibile fallimento».
Per capire meglio il concetto prendiamo un 
esempio comune di riflesso pavloviano: se somministriamo a un topo una 
scossa elettrica e contemporaneamente gli forniamo uno specifico segnale
 luminoso, il topo imparerà ad associare a quel segnale un pericolo: 
quando vedrà la luce si comporterà come se stesse per prendere una 
scossa, anche quando la scossa non c’è. Gli esseri umani, invece, sono 
in grado di associare un significato di pericolo anche a oggetti o 
situazioni che non hanno mai rappresentato per loro un’effettiva 
minaccia. Questo perché, a differenza dei topi, sono in grado di 
acquisire informazioni sulla realtà senza bisogno di farne esperienza 
diretta.
Diversi esperimenti hanno dimostrato che gli esseri umani
 possono sviluppare un riflesso pavloviano quando una potenziale 
minaccia viene semplicemente osservata (una persona ferita in un film) o
 spiegata da terzi (un genitore, un insegnante, un telegiornale). In 
questo modo, anche persone che non hanno mai sperimentato uno specifico 
trauma (rompersi una gamba, perdere il lavoro, venire derubate), possono
 presentare timori e paure analoghe a chi ne è stato colpito in prima 
persona. Questa capacità è stata cruciale a livello evolutivo, poiché 
consentiva al singolo individuo di trasmettere l’esperienza di un 
pericolo agli altri membri della comunità, inducendoli a sviluppare a 
loro volta sistemi di difesa. Se siamo sopravvissuti alla selezione 
naturale, insomma, è perché abbiamo sviluppato dei sistemi psicologici 
che ci consentivano di individuare (e comunicare) i pericoli a partire 
dalle nostre esperienze ed emozioni. In poche parole: sapevamo meglio di
 altri come salvarci la pelle. E poiché siamo i discendenti di chi era 
particolarmente bravo a identificare un pericolo, oggi, in un mondo dove
 siamo costantemente bombardati da informazioni allarmanti, questo 
dispositivo è sempre più a rischio cortocircuito. Come un soldato a 
difesa di un castello che non viene quasi mai attaccato, il nostro 
cervello è alla continua ricerca di nemici, e non incontrandone nessuno,
 può capitare che prenda di mira bersagli palesemente innocui.
Secondo
 LeDoux, per sviluppare metodi efficaci contro i disturbi d’ansia è 
necessario innanzitutto tenere conto di come l’essere umano, a 
differenza degli animali, abbia una consapevolezza di sé tale da 
immaginare le conseguenze future di una potenziale minaccia. Lo 
psicologo americano William James sosteneva che un uomo non scappa da un
 orso perché ha paura, ma piuttosto ha paura perché scappa. Per quanto 
approssimativo possa risultare, questo aforisma contiene una verità.
Torniamo
 sul marciapiedi citato all’inizio: l’uomo non ha spiccato un salto 
perché ha avuto paura dell’autobus, la sua è stata una reazione 
automatica, frutto di meccanismi innati di sopravvivenza, la paura è 
subentrata nel momento in cui si è accorto di aver saltato per salvarsi 
la vita. Di fatto ha creato nella sua mente una narrazione 
autobiografica in cui lui, il protagonista, ha schivato la morte per un 
pelo e ha avuto chiare quali conseguenze quella situazione avrebbe 
potuto avere. Analogamente alla paura, l’ansia secondo LeDoux è un 
«assemblaggio cognitivo» che coinvolge reazioni innate, esperienze 
memorizzate e proiezioni future.
Questo tipo di approccio apre le 
porte a soluzioni terapeutiche che in alcuni casi sfiorano la 
fantascienza. Nell’agosto del 2000, in un articolo apparso su «Nature», 
LeDoux spiegava come fosse possibile eliminare i ricordi traumatici di 
un topo intervenendo chimicamente nel suo cervello. Oggi, l’autore di 
Ansia non esita a intravedere un futuro prossimo in cui sarà possibile 
editare ricordi ansiogeni a fini terapeutici negli esseri umani. La 
prospettiva di intervenire direttamente sul cervello per modificare (o 
cancellare) specifici ricordi ha naturalmente sollevato un vespaio di 
polemiche: noi siamo ciò che ricordiamo — obiettano alcuni — perciò 
modificando un ricordo rischiamo di modificare la nostra stessa 
identità.
Esiste una concezione comune secondo cui il nostro 
cervello immagazzina esperienze come una macchina fotografica, o un 
computer. In realtà, è stato dimostrato che la memoria è materia 
duttile: ogni volta che richiamiamo alla mente un ricordo, di fatto lo 
riscriviamo e lo aggiorniamo. Da questo punto di vista, dice LeDoux, 
ogni forma di psicoterapia modifica la memoria, poiché va a rimodellare 
l’idea che abbiamo di eventi e situazioni che ci sono capitate. Un 
sistema per editare i ricordi, dunque, non andrebbe necessariamente a 
tradire la nostra identità ma, come ogni seduta dallo psicoterapeuta, ci
 renderebbe semplicemente persone diverse; possibilmente meno ansiose.
 
