Corriere 5.4.16
Per il premier l’incognita delle reazioni europee
di Massimo Franco
La
frase-chiave è quella in cui Matteo Renzi rivendica: «Noi non siamo
uguali agli altri: sia stampato in testa a chiunque abbia dubbi».
Dicendolo alla direzione del Pd, ieri pomeriggio, il premier ha evocato
il tarlo che rischia di corrodere la credibilità dell’esecutivo. Il
fatto che abbia sentito il bisogno di sottolinearlo è la conferma di una
difficoltà. Fino a qualche settimana fa, la novità della fase apertasi
nel febbraio del 2014 era scontata. Oggi non più: al punto che è lo
stesso presidente del Consiglio a doverla ricordare.
Con il
pasticcio, e con l’inchiesta giudiziaria, del petrolio in Lucania e le
dimissioni del ministro Federica Guidi, evidentemente a qualcuno sono
venuti dei «dubbi». Ed è chiaro che la vicenda travalica la magagna
scoperta dalle intercettazioni. Con la difesa a oltranza di quanto è
stato deciso, Renzi accredita una scelta utile al Paese, sbloccando
lavori fermi da anni. «Se questo è un reato, ho commesso un reato», ha
detto ieri al Pd con un’iperbole mentre i magistrati di Potenza finivano
di interrogare come «persona informata dei fatti» il ministro Maria
Elena Boschi.
La sfida parallela agli inquirenti, che invita ad
arrivare presto alle sentenze, e agli oppositori sottolinea
un’irritazione e, secondo i critici, una sindrome da accerchiamento. La
minaccia di trascinare in tribunale chi accusa il Pd di essere pagato
dai petrolieri segnala un’esasperazione. Mostra un partito che si sente
messo ingiustamente nell’angolo. L’operazione è rischiosa, non tanto per
le mozioni di sfiducia del M5S e del centrodestra, o per la fronda
incattivita della minoranza del Pd. Il tema sono le Amministrative di
giugno e il referendum istituzionale in autunno.
Quello di metà
aprile sulle trivellazioni, per quanto forse rianimato dal caso Guidi,
continua a essere liquidato da Renzi ribadendo la giustezza
dell’astensione. Le bordate delle opposizioni contro Palazzo Chigi e la
Boschi, strumentali ma certo logoranti, puntano a indebolire l’esecutivo
in vista delle prime due scadenze. Martellano sull’aumento delle tasse
che, dicono citando l’Istat, dipende anche dai contributi alle quattro
banche locali «salvate», già causa di tensioni. Per questo Renzi
avverte: non siamo come gli altri. Se viene omologato, la sua stagione
«rivoluzionaria» è chiusa.
Sarebbe un dramma per l’Italia e la sua
credibilità internazionale. L’immagine del Paese è già sgualcita dalla
vicenda della Basilicata: nelle cancellerie europee e tra gli
investitori ci si chiede dove approderà. Finché i «dubbi» a cui ha
accennato Renzi riguardano pezzi della sinistra o dell’elettorato,
rimangono una questione interna. Se però sfiorano quanti all’estero
hanno scommesso sulla cesura col passato, sarebbe un guaio. L’ombra
dell’affarismo oscurerebbe il confine tra vecchia e nuova classe
dirigente. E restituirebbe l’idea nefasta di un’Italia incapace di
rinnovarsi.