Corriere 30.4.16
La misura del sopruso
Più attenzione ai crimini contro le donne ma lo sguardo è limitato ai casi eclatanti
L’appuntamento
A Milano la prima edizione del Festival dei Diritti Umani punta sulla
condizione femminile nel mondo. Dalle «schiave» dell’Isis alle
spose-bambine del Burkina Faso, così si inizia a prendere coscienza di
umiliazioni e violenze
di Viviana Mazza
Dalle
ragazze yazide ridotte in schiavitù dall’Isis alle nigeriane trasformate
in kamikaze da Boko Haram, dalle spose bambine del Burkina Faso alle
«resistenze» italiane. Le protagoniste del Festival dei Diritti Umani di
Milano sono le donne. È lo specchio di un’attenzione internazionale
crescente sulle violazioni dei loro diritti, ottenuta anche grazie
all’attività instancabile di attiviste e attivisti. La strada da
percorrere è però lunga, spiegano al «Corriere» i difensori dei diritti
umani.
«La sensibilità sulla violazione dei diritti delle donne è
in aumento — dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia — ma a
questo non corrisponde l’efficacia delle misure dei governi. Il fatto
recente forse più importante è stata la Convenzione di Istanbul, il
primo testo vincolante sui diritti delle donne contro la violenza in
Consiglio d’Europa, ma l’applicazione è solo parziale. Delle tre p che
sono i cardini del testo, quindi protezione, prevenzione e punizione,
vediamo attuata solo l’ultima. La sensazione è che si provveda a
sanzionare cose già accadute».
Amnesty è presente al festival con
una mostra sulle spose bambine in Burkina Faso realizzata dalla
fotografa Leila Alaoui prima di morire pochi mesi fa in un attentato. Un
modo per ricordare il coraggio di chi dà voce alle altre donne anche a
rischio della vita. «Sui matrimoni forzati e precoci c’è più sensibilità
— continua Noury — e il fenomeno delle mutilazioni genitali è in
regresso grazie anche allo straordinario lavoro di Emma Bonino. Ma in
generale, se il mondo va male, le prime a subirne le conseguenze sono le
donne, anche per mano di gruppi armati non statali come nei casi delle
studentesse di Chibok, della pulizia etnica delle yazide o di Malala».
«L’attenzione ottenuta finora non è sufficiente», ci dice Ameena Saeed,
attivista yazida. La sua comunità, nel nord dell’Iraq, fu attaccata
dall’Isis nel 2014. «All’inizio le donne rapite erano 5mila, ma tuttora
ci sono 3mila persone nelle loro mani e alcuni sono bambini: ora li
addestrano a compiere violenze».
«Le sofferenze delle cosiddette
schiave sessuali meritano l’attenzione ricevuta sui media perché i
crimini nei loro confronti sono orribili — nota Andrea C. Hoffman
autrice di Farida , storia vera di una di loro, appena pubblicata da
Piemme —. Ma non dobbiamo dimenticare le migliaia di uomini massacrati
allo stesso tempo. È un genocidio e dovrebbe essere considerato tale».
In teoria l’enfasi sui diritti delle donne dovrebbe illuminare il resto
della storia, avverte la scrittrice nigeriana Lola Shoneyin, autrice di
Prudenti come serpenti (editore 66th and 2nd). «Dobbiamo stare attenti a
non dimenticare che la campagna Bring Back Our Girls è legata alla
guerra contro Boko Haram. Molte donne sono state rapite dai miliziani,
ma ci sono anche stati 59 ragazzi massacrati nella loro scuola».
Nel
caso della pena capitale in Iran, dove la stragrande maggioranza dei
condannati sono uomini, i casi più famosi sono quelli di donne: Delara
Darabi, Sakineh Ashtiani, Reyhaneh Jabbari. Il fondatore di Iran Human
Rights, Mahmoud Amiry-Moghaddam, spiega il problema è che lo sguardo
resta spesso limitato ai casi più eclatanti. «In Sudafrica quando
l’apartheid divenne un caso internazionale, non erano solo le esecuzioni
a fare notizia ma il fatto stesso che i neri non potessero sedersi
nelle stesse panchine dei bianchi. In Iran alle donne è vietato entrare
negli stadi e ci sono restrizioni sull’abbigliamento punibili con 74
frustate. Se le italiane venissero umiliate così, non ci sarebbe una
sollevazione globale? Ma abbiamo sviluppato una tolleranza per gli abusi
dei diritti, abbiamo stabilito un livello che siamo pronti ad
accettare. Sakineh ha suscitato tanta attenzione e ne siamo felici, ma
vuol dire che è la lapidazione la soglia alla quale diciamo basta?».
Perciò Amiry-Moghaddam ammira la campagna «My Stealthy Freedom», che
pubblica su Facebook foto di iraniane che si tolgono per protesta il
velo obbligatorio: è una lotta contro le violazioni «quotidiane» dei
diritti.
La fondatrice Masih Alinejad nota che «i diritti delle
donne sono oggi in prima linea tra le questioni politiche, mentre prima
gli uomini dicevano che se ne sarebbero occupati dopo aver risolto i
problemi prioritari». Ma chiede aiuto alle politiche occidentali.
«Federica Mogherini dovrebbe parlare dell’accordo nucleare ma anche dei
diritti umani e delle donne». Lei e tante altre intanto lavorano per
aumentare la consapevolezza all’interno propri Paesi. «In Nigeria la
gente capisce sempre di più i vantaggi dell’istruzione femminile, anche
perché ne vede i benefici economici — osserva Shoneyin —. Il problema è
che c’è tutta una generazione ancora legata a valori religiosi o
tradizionali oppressivi».