Corriere 27.4.16
C’è poca democrazia in questa Europa
di Giovanni Belardelli
L’Europa
è mortale? Così un giornale non sospettabile di antieuropeismo come Le
Monde ha intitolato un lungo articolo sulla situazione attuale
dell’Unione Europea. Per sottolineare il rischio di fine imminente che
la minaccia e insieme l’inconsapevolezza che di ciò sembriamo avere,
l’autore dell’articolo, Arnaud Leparmentier, ha paragonato la nostra
condizione a quella che Stefan Zweig, nel Mondo di ieri , attribuiva
all’impero asburgico alla vigilia del fatidico giugno 1914: «Tutto nella
nostra quasi millenaria monarchia austriaca sembrava duraturo e lo
Stato stesso appariva il sommo garante di questa ininterrotta solidità».
Le cose, come è universalmente noto, avrebbero preso tutt’altra
direzione. Non è la prima volta che vengono formulati paragoni del
genere: tre anni fa un centro studi americano, il Pew Research, definì
la Ue come «il malato d’Europa», riprendendo l’espressione che un tempo
si usava per l’impero ottomano (e anche in questo caso è ben noto come
andò a finire).
Eppure la nostra discussione pubblica sembra non
prendere troppo sul serio questi segnali di allarme e predilige temi e
toni legati alla quotidianità: la polemica Merkel-Draghi, la guardia di
frontiera europea, l’ultima dichiarazione di Juncker sulla richiesta
italiana di flessibilità e così via. Tutte cose rilevanti, non c’è alcun
dubbio, e tuttavia che danno vita a dibattiti e analisi non adeguati
alla crisi di fondo che l’Unione Europea sta attraversando. Una crisi
che, a partire dal 2008, è esplosa proprio sul terreno che più
costituiva il legittimo vanto degli europei: l’economia. Ma anche una
crisi che in questi ultimi anni si è andata allargando ad altri terreni:
dall’incapacità di dar corpo a una politica estera europea alla
indisponibilità di molti Paesi dell’Ue ad applicare gli accordi sul
ricollocamento dei richiedenti asilo.
Il modo prevalente in cui la
maggioranza dei media, dei politici, degli esperti di vario genere
affronta ciascuno dei terreni di crisi è caratterizzato da forme verbali
esortative: di fronte a Stati che ripristinano i controlli alle
frontiere si dichiara che non ci devono essere muri; di fronte alle
migrazioni di massa si afferma che si deve realizzare la redistribuzione
dei migranti; che si deve attuare un servizio di sicurezza europeo;
anzi, più in generale, una vera unione politica europea. Il discorso
europeista, in sostanza, corrisponde sempre più a quella forma verbale
esistente in alcune lingue che è l’ottativo: una forma che esprime un
desiderio, un auspicio e poco si cura del fatto che la sua realizzazione
trovi ostacoli spesso non superabili. Primo fra tutti il fatto che, su
ciascuna delle soluzioni appena citate, è ampiamente documentato il
disaccordo dell’opinione pubblica di questo o quel Paese.
Ma di
ciò che pensano i cittadini europei — della loro crescente disaffezione
per le istituzioni comunitarie — generalmente poco ci si cura. A volte,
anzi, si è teorizzato che non vi si debba prestare troppa attenzione:
quei cittadini, e i loro governi, avrebbero la colpa di non riuscire a
prescindere dall’orizzonte nazionale, soltanto negando il quale l’Europa
può avere un futuro. Sta probabilmente qui, nell’illusione che gli
Stati nazionali fossero entrati in una crisi definitiva dopo il 1945 e
fossero perciò destinati a una rapida scomparsa, uno dei limiti
culturali originari dell’europeismo ufficiale. Non solo perché quella
previsione non si è realizzata, ma anche perché ad essa si accompagnava
la mancata comprensione del nesso tra Stato nazionale e democrazia.
Sulla scia di John Lennon possiamo auspicare che in un futuro più o meno
lontano non sia più così («Imagine there’s no countries, it isn’t hard
to do…»), ma fino a oggi lo Stato nazionale ha rappresentato (e continua
a rappresentare) la premessa e l’ambito di esistenza della democrazia.
Stigmatizzare il fatto che la cancelliera Merkel sia tornata indietro
rispetto al suo iniziale atteggiamento di apertura verso gli immigrati
per seguire l’orientamento dell’opinione pubblica tedesca ha poco senso.
Cos’altro mai dovrebbe fare il capo del governo in un regime
democratico?
Ma la democrazia, il rapporto di fiducia tra eletti
ed elettori, è marginale se non assente nella complessa struttura di
governo delle istituzioni europee. Secondo alcuni ciò sarebbe
addirittura un bene, perché solo il carattere funzionariale-burocratico
di quelle istituzioni permetterebbe di fare il superiore interesse
europeo contro gli interessi nazionali. Prima o poi bisognerà
riconoscere che è una strada pericolosa, che rischia di allontanare
ancora di più i cittadini dalle istituzioni europee, lasciando ai vari
populismi antieuropeisti — dal partito di Farage ad Alternative für
Deutschland — la non disprezzabile risorsa di potersi presentare come i
paladini della democrazia.