Corriere 17.4.16
Tony Blair e quel «fondo segreto» per gestire le sue fortune milionarie
Il «Times» svela: l’ex premier si fece consigliare dal capo dell’Agenzia delle entrate
di Sara Gandolfi
La
«glasnost» finanziaria fa una nuova vittima a Londra. Dopo il primo
ministro conservatore David Cameron, che nei giorni scorsi si è trovato a
giustificare un po’ goffamente la presenza del suo cognome nei Panama
Papers, è la volta di Tony Blair. Un team di reporter sotto copertura
del Times ha svelato ieri che l’ex premier laburista creò un «fondo
segreto» per gestire la sua fortuna plurimilionaria, facendosi pure
consigliare dall’allora direttore dell’ufficio Revenue&Customs
(Hmrc), l’agenzia delle entrate britannica.
A spifferare le opache
manovre fiscali di Blair sono stati due suoi ex consulenti che,
credendo di parlare con i rappresentati di una ricca famiglia indiana,
hanno raccontato ai giornalisti tutti i dettagli dell’operazione. Poco
dopo aver lasciato Downing Street, nel 2007, l’ex premier avrebbe
iniziato a versare i proventi della sua attività di «super-consulente»
in un cosiddetto Fondo di Interesse in Possessione (IIP), strumento
finanziario legale che può contenere proprietà, azioni o altre fonti di
reddito e che offre significativi vantaggi fiscali, ad esempio la
possibilità di trasferire esentasse i beni ai figli.
La dubbia
moralità dell’impresa, ai limiti del conflitto d’interessi, emerge in
tutta la sue evidenza dalla seconda rivelazione dei due consulenti, cui
il Times concede l’anonimato: l’entourage di Blair avrebbe usato un
canale privilegiato per contattare Dave Hartnett, segretario dell’Hmrc
fino al 2012, e ottenere una consulenza privata sulla gestione fiscale
del fondo, che nel tempo è diventato la cassaforte delle «decine di
milioni di sterline» che l’ex premier ha guadagnato dopo aver lasciato
la guida del governo, a volte con consulenze di dubbio gusto. Se
confermata, la vicenda avrebbe in sé un retrogusto quasi grottesco,
ripensando al «giovane» Blair che durante la corsa alla leadership del
Labour Party, nel 1994, bollò il sistema fiscale britannico come un
paradiso «per chi può assumere i giusti commercialisti».
Hartnett
ieri si è trincerato dietro il segreto professionale mentre la portavoce
di Blair ha negato che egli abbia mai ottenuto «privilegi dalle
autorità fiscali» e ha garantito che «ha pagato le tasse dovute su tutte
le sue entrate». Ma il fronte conservatore, a sua volta scottato dalle
indiscrezioni dei Panama Papers, si è affrettato a cavalcare la storia,
invocando l’apertura di un’inchiesta.
Che Blair non fosse un
«contribuente ordinario», d’altra parte, è cosa nota da tempo anche se
l’entità del suo «impero finanziario» resta un mistero. La sua società
di consulenza, la Tony Blair Associates, vanta centinaia di clienti —
dalle banche d’affari al fondo sovrano di Abu Dhabi o alla società
PetroSaudi — e secondo il Times «utilizza diverse strutture fiscali
opache». In marzo, The Guardian provò a fare i conti in casa Blair,
svelando che Tony, sua moglie Cherie e i figli posseggono almeno dieci
case e 27 appartamenti nel Regno Unito, per un valore stimato di 27
milioni di sterline (circa 34 milioni di euro). Chissà se ora l’ex
premier si persuaderà ad uscire dall’ombra, come ha fatto di recente
Cameron, rendendo pubblica la sua dichiarazione dei redditi: nel
2014-15, l’attuale premier aveva un imponibile di oltre 200.000. Cifra
che Blair sarebbe riuscito ad incassare, nel 2007, con un solo
intervento pubblico. Nella Repubblica popolare cinese.