Corriere 16.4.16
I camaleonti del Cielo
Coltissimi,
educati all’obbedienza, avversati dagli altri cattolici, volevano
convertire il mondo trasformando se stessi e il messaggio di Cristo: «La
vocazione» di Adriano Prosperi (Einaudi) racconta i Gesuiti tra XVI e
XVII secolo
di Pietro Citati
Sotto il titolo La
vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento (Einaudi),
Adriano Prosperi pubblica un ricco e intelligente studio sulla Compagnia
di Gesù tra la fine del XVI e la prima parte del XVII secolo. Siamo nel
cuore del Rinascimento. Fondata da Sant’Ignazio, la Compagnia di Gesù
suscitava straordinari entusiasmi e avversioni. Per gli uni, essa era
prossima a Dio e al cielo come nessun ordine religioso; per gli altri,
era una iniqua contraffazione, che imitava le parole dei Vangeli
soltanto per volgerle al male.
I gesuiti entravano nella Compagnia
molto giovani: a 14 o 15 anni, prima di conoscere il mondo e quelli che
avrebbero giudicato i suoi inganni. La maggior parte di essi avevano
studiato nei Collegi gesuitici, che erano numerosissimi: nel 1750
settecentocinquanta nel mondo, cinquecento in Europa. Questi Collegi
avevano una grande fama: tutta l’Europa esaltava la loro cultura e
qualità intellettuale. L’insegnamento era vario e ricco: a metà del
Cinquecento, al Collegio Romano si insegnavano «lettere umane», tre
lingue, filosofia, matematica, teologia, mentre si svolgevano eccellenti
rappresentazioni teatrali; il latino era quello classico, Cicerone e
Virgilio, non, come negli altri Ordini, il latino medioevale. Le
autorità della Compagnia prestavano la massima attenzione
all’insegnamento dei Collegi. Sant’Ignazio aveva scritto a Filippo II di
Spagna che dalla formazione dei giovani gesuiti dipendeva il benessere
del mondo intero: padre Pedro de Ribadeneira aveva aggiunto che «la
sorte della religione e del mondo dipendeva dalla difesa della mente dei
giovani, ancora molli, ed aperte al pervertimento da parte del Nemico».
L’iniziazione
che permetteva di entrare nella Compagnia di Gesù era vasta, lunga e
complessa, sebbene, in casi straordinari, come quello di Antonio
Possevino, potesse diventare rapidissima. Il neofita sceglieva un
direttore spirituale: ogni giorno faceva l’esame di coscienza: alla fine
di ogni settimana consegnava al direttore l’elenco dei peccati
commessi: si confessava e comunicava molto spesso, quasi sempre due
volte la settimana; nulla era importante, per i gesuiti, quanto la
ripetizione e la perseveranza nel bene. Il peccato stava lì, in agguato,
dietro ogni angolo, e bisognava essere più veloci e sottili di lui per
sconfiggerlo. Il gesuita doveva essere versatile: dotato di molte
attitudini; «memoria finissima», conoscenza perfetta della Bibbia,
possesso di molte lingue. La qualità suprema era l’obbedienza ai
superiori e al Papa. Sant’Ignazio aveva detto: «Per non sbagliare,
dobbiamo sempre ritenere che quello che vediamo bianco sia nero, se lo
dice la Chiesa gerarchica».
I gesuiti scrivevano molto. Tutto
cominciava all’inizio, quando preparavano il racconto della propria
vocazione. Questi racconti si sono conservati negli archivi della
Compagnia di Gesù: oggi noi possediamo una straordinaria ricchezza di
testimonianze, raccolte in modo sistematico alla fine del XVI secolo, e
studiate da Giancarlo Roscioni ( Il desiderio delle Indie. Storie, sogni
e fughe di giovani gesuiti italiani , Einaudi 2001). Con il soccorso
dei direttori spirituali, i neofiti si addentravano nel mondo. Avevano
un modello altissimo: come diceva Sant’Ignazio, imitavano e continuavano
la missione degli apostoli. Il ritorno di Cristo era vicino: la sua
promessa storica stava per compiersi; e i gesuiti, predicando i Vangeli a
tutte le genti, affrettavano questo ritorno.
Non ignoravano di
avere molti nemici. I più terribili erano quelli più prossimi: le
famiglie. Le madri cercavano di dissuaderli dalla conversione alla
Compagnia con «carnali lachrime»: poi, non contente delle lacrime, li
tenevano chiusi in casa per settimane, «et hora con clamori, hora con
blanditie, hora con bastonate, hora con dehortatione di parenti
prossimi, pensavano rimoverli». Sebbene amassero il padre e la madre, i
giovani gesuiti non temevano le famiglie. Avevano letto i Vangeli e la
vita di san Francesco: sapevano che Cristo aveva consigliato ai suoi
fedeli di abbandonare le famiglie; mentre san Francesco, trascinato
davanti al vescovo di Assisi, «senza dire o aspettare parole, si tolse
tutte le vesti e le gettò tra le braccia di suo padre, restando nudo
davanti a tutti».
I giovani gesuiti sapevano che esisteva un
diritto paterno: basata su questo diritto, si innalzava l’Autorità del
sovrano, fondamento di ogni Stato. Ma essi sfidavano entrambi questi
diritti, in nome della Compagnia di Gesù, che, per loro, stava al di
sopra di ogni legge e autorità visibile. Non accettavano né padre né
sovrano, giungendo a teorizzare il tirannicidio. In un durissimo atto di
accusa, Antoine Arnauld sostenne che essi erano pericolosissimi, perché
col loro insegnamento armavano le menti dei loro allievi, spingendoli a
rompere il vincolo tra figli e padri, sudditi e sovrani. «Dicono —
scrisse un nemico dei gesuiti — che dovunque sono i Giesuiti si turba lo
Stato, si guastano i studi et università, et si altera la pace». Nel
novembre 1622 Paolo Sarpi aggiunse: «L’educazione dei PP. Gesuiti sta in
ispogliare l’alunno di ogni obbligazione verso il padre, verso la
patria, verso il principe naturale, e voltare tutto l’amore, e ’l timore
verso il padre spirituale. Dalle scuole de’ Gesuiti non è mai uscito un
figlio obbediente al padre, affezionato alla patria, devoto al suo
principe».
Mentre i giovani gesuiti lasciavano i Collegi, in pochi
anni il mondo diventò sterminato: non era più ristretto ai Paesi del
Mediterraneo, ma si allargava agli immensi Paesi che i navigatori
portoghesi e spagnoli avevano appena scoperto. Come scriveva Antonio
Possevino, «si aprono frequentissimi popoli alla fede di Christo, laonde
la Compagnia ha ultimamente mandato molte decine di Padri e di giovani
in quelle parti per cooperare alla volontà di Dio». Con una specie di
ebbrezza, i gesuiti si inoltravano in questo mondo nuovo, non curando
muri e difese .
Sotto la protezione dei direttori spirituali, essi
si abbandonavano con animo tranquillo alla volontà di Dio: non più
l’incertezza o l’insidiosa malinconia, ma serenità e coraggio. La
libertà non era pericolosa, perché la deponevano nelle mani della
Compagnia. Dovevano convertire gli infedeli, gli eretici, e gli stessi
cattolici, così diffidenti verso di loro. Dovevano diventare flessibili e
cedevoli: mascherarsi e persino mentire; quando andavano in Inghilterra
o nella Francia delle guerre di religione, ma anche quando assumevano
le funzioni di tutori privati dei figli dei potenti. Questo,
soprattutto, era il loro luogo, in alto; perché di lì, sebbene
mascherati, potevano guidare il mondo.
Secondo Francesco Saverio,
nel lontano Oriente il testimone occidentale scopriva non solo la
conoscenza dei misteri fondamentali cristiani, ma un ambiente benevolo e
accogliente, aperto a coloro che volevano portare l’annuncio di Cristo.
Guillaume Postel aveva scritto: «Tutta l’isola di Giapangui (il
Giappone, ndr ) diventerà facilmente cristiana, perché di cristiano non
le manca che il nome». Se volevano conquistare la Cina, i gesuiti
compresero che, in primo luogo, dovevano mutare sé stessi. L’immenso
Paese d’acque, che li aveva accolti, era disposto ad accettare le cose
più estranee, purché assumessero forme cinesi. Così essi si
trasformarono: con una capacità camaleontica, con quella straordinaria
mobilità che il loro Ordine aveva sempre dimostrato. Nati a Dôle o a
Issoudun o ad Avignone, nella più tenace provincia francese, assunsero
nomi cinesi: indossavano le fogge dei mandarini, le vesti di seta blu,
l’abito nero o viola, il cappello a cono, l’ombrello azzurro, il
ventaglio: mangiarono cibi cinesi, ebbero funerali cinesi; uccisero in
sé stessi le tracce dell’Occidente, acquistando la prudenza, la calma,
la gravità, la moderazione, la lentezza maestosa e passiva che
ammiravano nei loro allievi.
Per convertire e conquistare, i
Gesuiti erano disposti a tutto. Persino a trasformare completamente il
messaggio di Cristo. Quando i missionari predicavano lo scandalo della
Croce, i Cinesi insorsero: un Dio che soffre, un Dio che muore sulla
Croce, era un annuncio inconcepibile, degno dei «barbari
dell’Occidente». Così Matteo Ricci rinunciò al cuore del messaggio
cristiano: la caduta dell’uomo, l’incarnazione, la passione e la
redenzione da parte di Cristo. Il suo era un annuncio più stoico che
cristiano: i mandarini potevano accoglierlo, e convertirsi. Forse non si
accorse di quanto fosse terribile la sua rinuncia ai Vangeli .