domenica 13 marzo 2016

«Se il mito agonistico si è imposto nel neoliberalismo attuale, è perché questo è la versione ultima della razionalità moderna che — come ha visto Heidegger — ruota intorno al calcolo, a ciò che è quantitativo, a ciò che è oggettivo».
Corriere La Lettura 13.3.16
Il boomerang dell’agonismo
La competizione viene vissuta come la modalità prima di relazione. È la versione ultima della razionalità moderna che ruota intorno al calcolo
Ma se la vita è solo gara, qual è la sorte di chi perde? Cercherà di rovesciare il verdetto giocando d’azzardo? Il problema è trovare una forma di contesa non distruttiva
Destino ineluttabile
Se l’esistenza è una lunga rincorsa al successo, l’ultima sfida diventa la morte. Perciò alla fine, malgrado le vittorie, si viene comunque sconfitti
di Donatella Di Cesare

«Non arrenderti! Ancora uno sforzo!». «Sei a un passo dalla vittoria!». Sono le parole rivolte di solito da un allenatore agli atleti di cui cura la preparazione. Ma sono anche le formule di incitamento che scandiscono ormai la vita quotidiana di ciascuno, formule che, anzi, ciascuno ripete spesso tra sé e sé, quasi fosse il proprio personal trainer.
Come mai? Immaginiamo forse di vivere tutti come atleti? Pensiamo sia un dovere l’esercizio, il perfezionamento continuo? Aspiriamo a primeggiare? Ebbene, occorre ammetterlo, condividiamo, anche se inconsapevolmente, una concezione agonistica dell’esistenza.
Il fenomeno ha assunto negli ultimi anni contorni più nitidi e proporzioni sempre più vaste. Al punto da spingere i filosofi a interrogarsi su ciò che caratterizza l’agonismo diffuso, sui motivi che lo provocano, sulle ripercussioni etiche e politiche. Perché questo è almeno certo: che le generazioni che ci hanno preceduto, quelle delle nostre madri e dei nostri padri, non concepivano la propria vita come una gara incessante. Il che non vuol dire che non si mettessero in gioco o che si sottraessero alle sfide.
Che cos’è cambiato allora negli ultimi vent’anni? La questione è più complessa di quel che appare a prima vista. Senza dubbio la concorrenza è il cardine dell’economia capitalistica, che ha mostrato i suoi effetti esiziali non solo nel consumismo sfrenato, ma anche nell’ingiunzione alla crescita, nella spinta propulsiva, e nondimeno distruttiva, a produrre sempre di più. Tuttavia l’estremizzazione della sfida, l’inseguimento del prestigio, il sogno della superiorità, che si accompagnano perfino a un certo disprezzo per il denaro, sembrano tradire — come osservava già Jacques Derrida — una provenienza non economica.
Se parole come valutazione, classifica, selezione, merito, prevalgono nel discorso pubblico, indirizzano i programmi politici, improntano il lessico dell’economia, è perché il modello competitivo ha un successo incontrastato. La competizione viene vissuta come la modalità prima di relazione, con se stessi e con gli altri, quasi fosse una legge primordiale. Non c’è più quasi lembo di vita che si sottragga al modello della gara.
Non vediamo più il mondo, attraverso le lenti di Marx, solo come un grande magazzino di merci, né più solo come un immane spettacolo; per noi è sempre più lo spazio planetario di innumerevoli e differenti gare che si intersecano e si succedono a ritmo vertiginoso e nelle quali siamo ininterrottamente coinvolti.
Il paradigma agonistico ha un’estensione e una profondità tali da poter essere considerato uno dei tratti peculiari della nostra epoca. La visione imprenditoriale della vita, su cui attirava l’attenzione Foucault, non è sufficiente a spiegare il fenomeno nel suo complesso. Né basta puntare l’indice sull’alleanza che da tempo lega il pensiero liberale alle scienze sociobiologiche, basate, nella vulgata, sulla lotta per la sopravvivenza. Se il mito agonistico si è imposto nel neoliberalismo attuale, è perché questo è la versione ultima della razionalità moderna che — come ha visto Heidegger — ruota intorno al calcolo, a ciò che è quantitativo, a ciò che è oggettivo.
Ecco perché lo sport svolge nella vita attuale un ruolo senza precedenti. Si può essere sedentari, e seguire tuttavia un modello sportivo di vita dove l’imperativo categorico è primeggiare. L’uomo nuovo è l’atleta. Non è un caso che manager e soprattutto politici, da Clinton a Sarkozy, a Cameron, accettino volentieri di essere ripresi mentre fanno jogging o corrono in bicicletta. Sono dunque l’economia e la politica a piegarsi, quasi, allo schema dello sport.
Il successo del paradigma sportivo-agonistico va ricondotto all’esigenza di farsi valere in un mondo dove tutti sono — o dovrebbero essere — uguali in partenza, in cui cioè, secondo i dettami della democrazia, non ci sarebbe margine per nessun privilegio e il merito sarebbe oggettivamente misurabile. In breve, la gara sportiva assurge a modello della competizione democratica. Perché si tratta di un confronto aperto a tutti, dove le prestazioni agonistiche sono quantificabili, dove i tecnici, in veste di arbitri imparziali, proclamano vincitore il migliore. Proprio per questo lo sport, praticato prima da una élite, è divenuto fenomeno di massa. In un libro dedicato a questo tema Alain Ehrenberg ha parlato di «culto della performance». Lo sport concilierebbe concorrenza e giustizia — anche se la giustizia non sarebbe che il diritto del più forte.
Non importa poi che lo sport, tra doping, trucchi e corruzione, sia ben lontano da questo miraggio. L’importante è che resti l’ideale di una gara corretta, perché oggettiva, il cui responso è incontestabile. Chi ha vinto, e ha battuto il record, è migliore, è anzi superiore. Di qui lo spazio enorme che gli sportivi hanno nella sfera pubblica e nei media; osannati come eroi nazionali, vengono presi come veri e propri maestri di vita. Eppure, lo sportivo che ha vinto, ha vinto per sé, non ha combattuto per gli altri; è un eroe isolato che può essere solo ammirato da lontano.
Dietro questa fiducia nel calcolo si cela la terribile convinzione che la vita possa essere ridotta a una gara. L’assunzione di questo agonismo, che porta con sé l’obbligo di vincere, ha conseguenze devastanti. Che ne è, infatti, di chi perde? Disagio, depressione, «passioni tristi», come le chiamava Spinoza, scandiscono questa tarda modernità. Ma qui non deve sfuggire un altro fenomeno correlato: il gioco d’azzardo. Chi si sente escluso, avviato alla sconfitta, tenta la mossa estrema. Il «rischia tutto!», messaggio reiterato dalla pubblicità, viene preso alla lettera: si mettono in gioco non solo i soldi, gli averi, ma il tempo, i legami affettivi, la dignità, la vita stessa. Da un lato il gioco d’azzardo appare la rivolta esterna all’agonismo, la scorciatoia per aggirare tutte le gare vincendo d’un colpo, dall’altro ne è solo la versione parossistica che porta quasi sempre alla rovina.
Se la vita è una gara, un percorso finalizzato alla vittoria, la morte è l’ultima sfida — con inquietanti effetti per la bioetica. E su questo ha invitato di recente a riflettere Remo Bodei. Perché in extremis , nonostante le vittorie accumulate, si viene comunque sconfitti. Il modello agonistico, per l’affinità persino etimologica tra gara e guerra, ostenta non di rado tratti bellici. E se il confronto umano si riduce a uno strenuo misurarsi con gli altri, il conflitto — come già sottolineava Thomas Hobbes — è inevitabile. Se qualcuno vince, qualcun altro deve perdere. Di più: l’altro, se non si erge ad allenatore o arbitro, serve solo a identificare meglio la nostra posizione in classifica, o a riconoscere magari la nostra vittoria. Per il resto l’atleta, che ciascuno di noi dovrebbe essere, punta a essere leggero e flessibile, liberandosi da ogni relazione e da ogni responsabilità. Collabora solo di tanto in tanto o, come si dice, «fa squadra», cioè si aggrega temporaneamente in vista di un avversario comune. Poi fa ritorno a sé. E continua a competere — ma con se stesso.
Nell’età in cui domina l’incantesimo scientista della cifra, il fascino perverso di statistiche, classifiche, sondaggi, la valutazione impronta la vita intera. Si dilata a tutte le età (basti pensare a quel che avviene nelle scuole e negli atenei), non risparmia la politica e il mondo dello spettacolo. La valutazione fa anzi spettacolo, come dimostrano programmi quali MasterChef , The Voice of Italy e i numerosissimi reality .
Occorre essere «in forma», belli, sani, abbronzati — a ogni prezzo, con ogni sforzo. Non per vivere una vita migliore, bensì per vincere. Dal dentista alla palestra, dall’estetista al corso di lingua: la giornata diventa un lungo training, un immenso addestramento. Eccelle chi resiste eroicamente.
Ma l’esercizio non è forse encomiabile? E il desiderio di perfezionamento non va elogiato? Si può rispondere con Peter Sloterdijk, quando riflette su quella che chiama l’antropotecnica del postumanismo. Abbiamo ereditato dal Novecento la figura dell’oltreuomo, la spinta a sfidare i vincoli fisici, a superare ogni limite. Siamo tutti acrobati. Ci misuriamo con difficoltà sempre maggiori. La nostra esistenza è una «prestazione acrobatica». Ma il nostro atletismo eroico è una «ascesi de-spiritualizzata». Abbiamo perso la trascendenza e il senso della verticalità. Procediamo in solitudine, lungo una fune tesa non in alto, ma raso terra — come aveva intuito Kafka. Malgrado la tensione e lo stress, rischiamo miseramente di inciampare a ogni passo.
Si deve per questo condannare la competizione come tale? Certo che no. D’altronde nell’agone greco è sorta la stessa filosofia. È Nietzsche, il filosofo a cui non è sfuggito il tratto tragico-distruttivo del pensiero greco, a offrire nel suo scritto Agone omerico una indicazione decisiva. Nei versi di Esiodo scorge «due dee chiamate Eris». C’è una contesa buona, che «spinge al lavoro anche l’uomo inetto»; il vicino gareggia con il vicino, ma la gara, stimolata dall’invidia e dalla gelosia, tende al benessere. C’è invece una contesa cattiva che porta solo all’annientamento reciproco. Qui non si dà misura e trionfa perciò l’ambizione smisurata dell’unico genio. Per l’agone greco è indispensabile invece un secondo genio — nessuno deve essere per sempre il migliore. Altrimenti il gioco agonistico si esaurirebbe con grave danno per la città e la società politica. Ecco allora il male dell’agonismo moderno: è la cattiva Eris che da un lato favorisce la mediocrità aggressiva, dall’altro non conosce che un singolo, isolato vincitore.