martedì 29 marzo 2016

Repubblica Salute 29.3.16
Genetica.
Un legame tra la depressione e gli eventi cardiocircolatori. A unirli è l’azione di un gene che predispone alla trombosi ed è anche coinvolto nello sviluppo delle cellule nervose. E sono i meccanismi dell’infiammazione responsabili di entrambe le patologie
Sono così triste che mi viene l’infarto
PAOLA EMILIA CICERONE
ARRIVA DA UNA RICERCA ITALIANA la conferma di un dato che i cardiologi segnalano da tempo, l’esistenza di un legame biologico tra depressione e infarto miocardico. Come mostra chiaramente uno studio recentissimo, apparso sul Journal of the American Geriatrics Society, che ha seguito per oltre sette anni 7000 persone dai sessantacinque anni in su, scoprendo che quanti mostravano segni di depressione avevano maggiori probabilità di ammalarsi, fino al 75% in più. «Dovremmo tenerlo presente quando ci preoccupiamo della salute del nostro cuore, e imparare a tenere sotto controllo l’umore, come facciamo col colesterolo », osserva Elena Tremoli, direttore scientifico del Centro cardiologico Monzino di Milano, da cui arriva la scoperta, pubblicata sullo European Heart Journal, che depressi e infartuati hanno in comune una variante genetica.
«Una certa percentuale di depressione tra i malati cronici è normale – osserva il cardiologo Carmine Pizzi, dell’università di Bologna – ma nel caso delle cardiopatie il rapporto è forte e le percentuali davvero elevate, fino al 30%. Cervello e cuore sono in relazione e ci sono meccanismi con cui il cervello influenza l’attività cardiaca ». Come quelli scoperti dai ricercatori del Monzino: «Abbiamo visto come una variazione nel gene che codifica la neurotrofina cosiddetta BDNF (uno dei fattori di crescita delle cellule nervose, ndr), che è alla base di disturbi psichiatrici come la depressione, possa svolgere un ruolo importante anche nell’infarto miocardico acuto», spiega Tremoli. Studi sui topi hanno mostrato che questa variante genetica predispone ad alcune condizioni che favoriscono la trombosi, come l’iperreattività piastrinica. E una conferma ulteriore arriva dai dati clinici dei pazienti dell’istituto milanese. «Questo polimorfismo – aggiunge Tremoli – è prevalente tra i pazienti infartuati. Si tratta di una conferma a posteriori, ma importante».
Anche se è solo un tassello di un puzzle più ampio: la relazione tra cuore e depressione coinvolge neurotrasmettitori come la serotonina, fondamentale per la regolazione dell’umore, ma che gioca un ruolo anche nell’ischemia miocardica. E l’infiammazione, «o meglio la risposta infiammatoria, un fenomeno generalizzato di difesa cellulare molto diverso dall’infiammazione acuta come la intendiamo di solito, che entra in gioco anche nella depressione», spiega la cardiologa. Ma i possibili legami tra le due malattie non finiscono qui: «Dobbiamo considerare – aggiunge Carmine Pizzi – diversi fattori, tra cui l’alterazione del sistema nervoso autonomo e la disfunzione dell’asse ipotalamo ipofisi surrene. Nei pazienti depressi le ghiandole surrenali producono ormoni che predispongono all’ipertensione arteriosa e ad alterazioni metaboliche che potrebbero avere ripercussioni sulle malattie cardiovascolari».
La sfida è individuare fattori di rischio e nuove terapie. «Trattare il paziente cardiopatico depresso è più difficile, perché si deve intervenire su alterazioni del sistema nervoso centrale che influenzano negativamente l’attività cardiaca», osserva Pizzi. A differenza dei vecchi antidepressivi triciclici, quelli più nuovi, gli SSRI, cui capostipite è il Prozac, non rappresentano un rischio per i cardiopatici, e riducono i sintomi legati alla depressione, «ma non è ancora chiaro se un cardiopatico depresso in terapia con SSRI abbia una prognosi migliore», osserva il cardiologo. Intanto al Monzino sta per partire un nuovo studio con l’intento di seguire pazienti affetti da malattia coronarica, per vedere se soffrono di depressione. La speranza è quella di poter individuare una terapia con effetti preventivi.
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La serotonina che è importante per regolare l’umore gioca un ruolo anche nell’ischemia miocardica