giovedì 3 marzo 2016

Repubblica 3.3.16
Le radici comuni
di Ezio Mauro

QUANDO si andava a trovare Carlo Caracciolo, nel vecchio palazzo di via Po al numero 12, davanti alla porta era appesa al muro una gigantografia del primo numero dell’Espresso con la data del 2 ottobre 1955, il prezzo di 50 lire, quella “E” gigantesca ed elegante della testata preceduta dall’apostrofo che sarebbe diventato un marchio, e due soli articoli nell’intera prima pagina, oltre all’editoriale di presentazione del settimanale, anonimo. Due firme, quindi, per la copertina di quel numero storico: Nicola Adelfi e Vittorio Gorresio. Erano due firme della Stampa.
DIVERSE per natura, distinte per scelta e lontane per forza di cose, le nature delle due scuole giornalistiche si sono spesso intrecciate in questo lunghissimo dopoguerra. Intanto Caracciolo era cognato di Gianni Agnelli, patron della
Stampa, che vedeva in lui – come ripeteva sempre - «l’unico vero editore di giornali che c’è in Italia». Non era il solo legame familiare: Eugenio Scalfari, fondatore prima dell’Espresso e poi di Repubblica, era genero di Giulio De Benedetti, lo storico direttore della Stampa dove regnò indiscusso per vent’anni, e con lui la domenica mattina passeggiando nei boschi di Rosta tra mille cose si finiva sempre per parlare del settimanale romano e del quotidiano torinese della Fiat, del loro giornalismo. Roma e Torino sono diverse anche nelle abitudini e negli stili giornalistici, naturalmente, ma quella storie separate hanno continuato a incrociarsi. Oggi il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, viene dalla Stampa. Ieri Giulio Anselmi ha fatto il viaggio opposto, guidando prima L’Espresso poi il giornale piemontese. E torinese (a questo punto verrebbe da dire “naturalmente”) è Carlo De Benedetti, il presidente del Gruppo Espresso in cui oggi entrano
La Stampa di John Elkann e il Secolo XIX di Carlo Perrone.
Sembrano circostanze casuali, ma il mercato non si muove mai per caso quando sceglie i suoi uomini, così come il giornalismo quando fa le sue scelte di vertice. Chiunque abbia abitato nei due mondi, sa quanto i giornali siano tra loro diversi. L’anima della Stampa ha una sua irrequietezza tradizionale, perché è un’anima doppia, piemontese ed europea, programmaticamente fuori dal Palazzo: mai contro, sempre fuori. L’anima dell’Espresso e poi di Repubblica è insieme nazionale e romana, nella convinzione che da Roma si possa parlare all’intero Paese per testimoniare l’Europa come scelta e destino, ed è cresciuta per forza di cose e anche per vocazione di fianco al Palazzo, scenario privilegiato e osservato speciale fin da quando lo denunciò “corrotto”. In più, la Stampa porta con sé nei decenni la rappresentanza di quel mondo della produzione – imprenditori, tecnici e operai – che ha segnato l’identità del Nordovest italiano, oscurato negli ultimi decenni dalla cometa del Nordest mentre si indeboliva la forza del modello fordista tradizionale, ma in realtà vivo, con le città che sembravano proiezioni stesse della fabbrica, costruite con gli stessi attrezzi delle officine, e con le loro costruzioni politiche e sindacali. L’Espresso e Repubblica cercavano invece nei decenni una rappresentanza immateriale, non geografica ma storico-culturale, di un’Italia di minoranza ma vogliosa di Europa, di regole e di riforme, nella scommessa che il cambiamento era possibile anche da noi.
Due mondi. Ma un elemento comune è cresciuto proprio in questa funzione di minoranza consapevole, nutrita dall’elemento più forte dei due giornali, quello culturale. Per l’imprinting di Scalfari e Caracciolo, i giornali del Gruppo Espresso hanno scelto di camminare di fianco alla sinistra italiana, seguendo la mappa dei valori liberal-democratici, stimolandola ad evolvere in questa direzione. E alla
Stampa, per un paradosso tutto torinese, insieme all’impianto filo-governativo della più grande impresa italiana si è raccolta quella cultura liberale di sinistra che nasce dall’azionismo, e che ha portato a scrivere per quel giornale Casalegno, Bobbio, Galante Garrone, Mila, Jemolo. Due storie giornalistiche diverse dunque (una a Torino, da De Benedetti a Ronchey, a Mieli, l’altra a Roma, di forte impronta scalfariana) e un riferimento culturale che nasceva direttamente dalla couche azionista per gli uni, dalla sinistra attenta al vincolo liberal-democratico per gli altri.
È sempre stato ovvio seguire strade autonome e libere, per i giornali, secondo la propria natura. Ma questo nucleo comune della cultura azionista ha creato anche, altrettanto naturalmente, dei liberi punti di contatto nella laicità, nel senso dello Stato, nel rispetto del mercato e delle sue regole, nella scelta europea dell’Italia, nell’identità occidentale del nostro Paese e della nostra democrazia. Così è capitato che Stampa ed Espresso, Repubblica e Stampa si trovassero vicini nei momenti più significativi della vicenda italiana, il referendum sul divorzio, la lotta contro il terrorismo, il rifiuto della trattativa, la rottura di Tangentopoli, così come sono state distanti altre volte.
Oggi i percorsi societari dei due gruppi editoriali si affiancano per la decisione di unirsi in breve tempo, insieme con il Secolo XIX, un pezzo importante di antica nobiltà giornalistica del Nord, realizzando nell’editoria quel che John Elkann e Sergio Marchionne hanno sempre detto a proposito della necessità di fusioni nel sistema mondiale dell’automobile: perdere quote di sovranità pur di acquistare quella forza e quella superficie che è la miglior difesa del businnes e del lavoro in tempi difficili di crisi. E’ un atto di coraggio imprenditoriale da parte delle due società e dei loro azionisti, Cir ed Exor, di responsabilità da parte dei manager che dovranno guidare la nuova impresa e anche un gesto di fiducia nei confronti dell’editoria giornalistica e del suo domani, qualunque volto avrà. In questo senso, anzi, è un forte segno di ottimismo in un Paese ripiegato su se stesso. Si può crescere, si può cambiare dimensione, si può osare, vale la pena scommettere sul futuro. I giornali – Stampa, Repubblica, Secolo XIX, Espresso e i quotidiani locali - continueranno liberi e autonomi nelle loro identità distinte e separate. Ma le scuole giornalistiche, le culture diverse, le tradizioni, avranno un luogo d’incontro e di confronto, potranno crescere fianco a fianco, contagiarsi a vicenda, trovando nuovi strumenti d’espressione e nuova forza nelle sinergie industriali e commerciali. Nel piccolo mondo dei giornali, è qualcosa di importante, per noi e per l’intero panorama editoriale italiano. Perché scommettendo sul sistema dell’informazione, oggi, si scommette sul bisogno del Paese di conoscere e sul suo diritto di sapere, dunque sulla sua crescita civile.