giovedì 24 marzo 2016

Repubblica 24.3.16
Uno studio svela come l’evoluzione è tutta scritta sulle nostre facce
La storia dell’uomo si nasconde dietro barba e baffi
I cambiamenti delle mode e i costumi religiosi esprimono la mutevolezza della mascolinità
di Siegmund Ginzberg

Cos’è più “naturale”, farsi crescere barba e baffi, o radersi? Posta così, la domanda potrebbe far ridere. Eppure è una faccenda tremendamente seria, su cui ne può andare della testa. Lo zar Pietro il Grande voleva modernizzare la Russia tagliando le barbe. Chi rifiutava veniva mandato al patibolo. Fino al 1917, il diritto canonico cattolico scomunicava i preti che si facessero crescere la barba e i monaci che rifiutassero
la tonsura. I taliban prescrivevano, con pari severità, burqa per le donne e barba per gli uomini. I governi dell’Iraq del dopo Saddam avevano bandito barba e baffi nelle forze armate e di polizia, suscitando forti risentimenti tra le reclute. E su questo risentimento aveva fatto leva l’Is, incoraggiando barbe incolte anche più lunghe di quelle già in voga nei raggruppamenti islamici concorrenti. Nell’Egitto di Mubarak era vietata la barba agli uomini in divisa. Ma ora si può finire in galera, essere torturati e uccisi se una barba lunga conduce al sospetto di simpatie islamiste.
Paese o epoca che vai, problemi di pelo facciale che ti ritrovi. Per la mia generazione la barba alla Che Guevara era un segno di anticonformismo. Ora è tornata, ma per tutt’altre ragioni: non c’è modello in posa su carta patinata o manager rampante che non sfoggi un accenno di barba come moda comanda. La Corte suprema Usa consente ai datori di lavoro di decidere se i propri dipendenti possono farsi crescere barba e baffi, o meno. Ma i marines, ai quali era sinora proibito, ora aprono alla barba, alle chiome e ai turbanti dei sikh, e forse anche ai riccioli degli ebrei ortodossi e alle barbe islamiche. L’Inghilterra ha inventato gli skinhead, ma anche il Movember (Mustache- November), il fenomeno di massa per cui ci si fa crescere i baffi più bizzarri per sostenere cause benefiche.
La casistica è infinita. Così come infinita è la discussione sull’argomento. Se proprio volete leggere tutto quello che avete sempre voluto sapere (e non vi è passato per la mente di chiedere) su barba e baffi, potete rivolgervi all’ultimo libro di Christopher Oldstone-Moore, Of Beards and Men: The Revealing History of Facial Hair (University of Chicago Press). Si fonda sull’assunto che «la storia dell’umanità è letteralmente scritta sulla faccia degli uomini», che le mutazioni del pelo facciale esprimono «la mutabilità e varietà dell’idea di mascolinità in un determinato periodo e nel corso del tempo». Diventa questione politica quando questo attributo maschile viene caricato di significati morali e religiosi che non hanno più nulla a che fare con la moda o col gusto personale. L’unica cosa certa è che la “natura” c’entra poco.
Non è affatto il primo studio di questa ampiezza sull’argomento, ed è improbabile che sia quello definitivo. Spazia dalla biologia evolutiva (ma perché mai i maschi della specie homo sapiens hanno la barba e le femmi- ne no?) all’antropologia, dalla storia antica alla cronaca, con dovizia di riferimenti, curiosità, discussioni dotte e aneddoti. Il primo trattato dedicato al pelo facciale fu l’Apologia de Barbis del duecentesco abate Burcardo di Bellevaux, per il quale la barba era una “tentazione di vanità” in questo mondo, ma avrebbe accomunato tutti, chierici tonsi e laici intonsi, nell’aldilà. La sua contemporanea Ildegarda di Bingen spiegava che gli uomini sono più pelosi perché formati dalla terra e le donne meno perché formate dalla costola dell’uomo. Bisognava arrivare al 1967 perché il fondamentalista marocchino Muhammad al Zamzami pubblicasse un opuscolo intitolato: Chiara evidenza del fatto che coloro che si radono sono maledetti, e le loro preghiere sono prive di efficacia.
Nelle miniature del Trecento i buoni sono in genere sbarbati e i cattivi barbuti. Ma poi si alternano, anche a pochi decenni di distanza, momenti in cui sfoggiare la barba è segno di progresso, o al contrario di bieco oscurantismo.
My hair like Jesus wore it suona la canzone del musical del 1967 che fece furore per molti decenni. Ma le rappresentazioni di Gesù lo mostrano con la barba solo dal VI secolo. Da qualche secolo i papi si radono, i patriarchi ortodossi hanno immancabilmente una lunga barba. Il culto della barba accomuna ebrei ortodossi e musulmani ultrà. Nella Turchia dove sono nato i papà ritratti nei miei libri di scuola avevano immancabilmente i baffi, e io ero un po’ a disagio perché mio padre invece non li portava. In quella di Erdogan si può scandire slogan islamisti allo stadio anche a viso glabro. Capita che ci sia una divisione animata, anche in una stessa epoca e in uno stesso milieu tra chi si rade e chi no. Capita anche che si passi da un campo all’altro. Perché aiuta a nascondere faccione o doppio mento. O per pigrizia. O perché ogni tanto diventa impellente il bisogno di cambiare faccia, l’immagine riflessa dallo specchio.
L’Ottocento progressista era barbuto, come Marx e Darwin. Il Novecento, specie dopo che il signor Gillette aveva brevettato la sua invenzione (1904), preferiva i baffi. Famosi, quelli di Clark Gable ed Einstein. Ancora più famosi i baffi di Stalin e di Hitler. Un’ipotesi è che i due dittatori fossero accomunati dal desiderio di rendersi imperscrutabili. Pare che il Führer avesse sperimentato diverse acconciature facciali prima di decidersi per quella che aveva effetto. James Abbe, il primo fotografo non tedesco che ebbe accesso a Hitler, raccontò del disagio per quei baffetti che impedivano all’obiettivo della macchina fotografica di scrutare la personalità dietro la maschera. Lo stesso Abbe aveva fotografato un altro personaggio che sfoggiava sullo schermo identici baffetti, Charlie Chaplin, e aveva ottenuto che posasse per lui senza baffi. Ma nel caso di Hitler il personaggio si identificava con la propria maschera.
La somiglianza tra i baffetti di Charlot e quelli di Hitler è alla base del bellissimo film Il grande dittatore, in cui Chaplin si sdoppia nel ringhioso Hynkel e nel suo sosia per caso, un gentile barbiere ebreo. Gli fu rimproverato che, ridicolizzando Hitler, aveva favorito una sottovalutazione della tragedia che si stava profilando.