domenica 20 marzo 2016

Repubblica 20.3.16
I tabù del mondo
I dubbi di Amleto l’uomo che sa ma non sa agire
La vicenda segna il passaggio dalla tragedia antica che pone il soggetto a confronto con il proprio destino, al dramma della modernità che oppone conoscenza e decisione
Il personaggio shakespiriano è stato studiato da Freud e da Lacan
Entrambi hanno indagato i motivi che lo trattengono dal compiere la sua vendetta per l’omicidio del padre
Il primo li mette in relazione con le sue pulsioni incestuose. Il secondo sposta l’accento sul desiderio della madre
di Massimo Recalcati


Se l’Antigone di Sofocle è il modello più puro e più estremo della forza della decisione — l’eroina tragica preferisce morire piuttosto di cedere sul suo desiderio di dare sepoltura al proprio fratello morto — , l’Amleto di Shakespeare è quello, altrettanto puro ed estremo, della difficoltà ad assumere con la determinazione necessaria del proprio desiderio. Diversamente da Antigone, infatti, Amleto, di fronte al proprio desiderio, tentenna, esita, non riesce, se non alla fine del dramma, a realizzare il suo atto. Conosciamo la sua storia: lo spettro del padre — ucciso nel sonno dal fratello Claudio che, con questo atto spietato, si impossesserà del trono e della sua sposa — ritorna per comunicare la sua orribile verità al figlio Amleto chiedendogli di fare giustizia. Ma il figlio, anziché agire, sprofonda nel dubbio differendo il tempo della decisione che solo alla fine del dramma, in modi rocamboleschi, potrà realizzarsi togliendo la vita a sua madre, all’amico-rivale Laerte, allo zio usurpatore e a se stesso.
Freud ne L’interpretazione dei sogni si è soffermato sulla figura del figlio Amleto presentandola come il rovescio di quella di Edipo sebbene animato, per così dire, dallo stesso complesso. Perché Amleto non agisce? Che cosa lo trattiene, che cosa lo inibisce rendendogli impossibile l’atto? Risposta di Freud: Amleto non compie l’atto che vendicherebbe suo padre perché inconsciamente vede in Claudio la realizzazione dei propri desideri incestuosi (eliminare il padre, diventare Re e possedere sua madre). Colui che dovrebbe compiere giustizia «non è, dunque, migliore del peccatore che dovrebbe punire», conclude Freud.
Lacan si è interessato ad Amleto — come altri psicoanalisti dopo Freud e prima di lui — in una parte centrale del Seminario VI titolato Il desiderio e la sua interpretazione, appena tradotto in italiano per Einaudi. Si tratta di una straordinaria lettura di Amleto che ha come punto di partenza la constatazione che il giovane principe di Danimarca — come accade, in realtà, ad ogni comune nevrotico — non è in grado di far convergere il sapere e l’azione. Amleto sa la verità — che invece sfugge a Edipo — , ma la sua azione è paralizzata; l’essere e il fare si disgiungono; l‘accesso all’atto gli è interdetto dalla ruminazione dubbiosa che lo getta in uno stato di impotenza depressiva. Edipo ricerca affannosamente la verità che riguarda la propria identità e quella di suo padre («di chi sono figlio?») senza sapere quello che fa — la sua tragedia è una tragedia della conoscenza — , mentre Amleto sa già tutto — è lo spettro del padre che gli rivela una verità che in realtà lui stesso sospettava — , ma resta bloccato e paralizzato nell’azione. Mentre Edipo agisce senza sapere, Amleto sa senza agire.
È lo spostamento sensibile d’accento che caratterizza il passaggio dalla tragedia antica che confronta il soggetto con il suo destino al dramma della modernità che mostra invece quanto il sapere possa essere d’intralcio alla decisione. Più precisamente, Lacan sposta l’accento dal desiderio edipico (incestuoso) del figlio rivolto verso la madre che incontra il padre come ostacolo (Edipo), al desiderio della madre, della regina, che si rivela, al figlio, al di là della Legge del padre, come insaziabile e osceno (Amleto). Questo desiderio — il desiderio di Gertrude — non si esaurisce nella fedeltà al marito morto, ma si mostra abitato da un eccesso che disturba il figlio. La donna eccede la madre esibendo un desiderio che reclama oscenamente il suo diritto. È il tabù del sesso della madre che esiste anche come donna che viene qui in primo piano. Amleto non sopporta l’incontro con questo eccesso perché vorrebbe essere lui il solo oggetto della madre in grado di colmarne la mancanza. Solo se egli si impegnerà a fare il lutto della sua condizione di figlio che colma il desiderio della madre potrà accedere al proprio desiderio e, di conseguenza, compiere l’atto al quale il padre lo ha contradittoriamente chiamato: «Lo spettro reclama la decisione pura, ma che decisione sarebbe mai una decisione imposta?», ha precisato giustamente Massimo Cacciari in Hamletica (Adelphi, 2009). Di qui l’importanza che Lacan assegna alla scena dove Amleto scende nella fossa nella quale Laerte si dispera per la povera sorella Ofelia morta suicida. Solo questa discesa di Amleto nella fossa può liberarlo dalla sua indecisione, dunque anche dallo spettro paterno che esige la vendetta. È solo attraverso il lutto che Amleto può ritrovarsi uomo e non più figlio, ovvero può, spiega Lacan, smettere di sintonizzare il suo desiderio su quello dell’Altro. È il punto veramente cruciale della sua lettura: solo se il figlio rinuncia ad essere il fallo della madre e a “dimenticare” il padre può diventare davvero un uomo. La discesa nella fossa — per Lacan il “lutto del fallo” e il “lutto del padre” — è un’esperienza che l’essere umano deve fare per assumere la verità singolare e incomparabile del proprio desiderio. Heidegger aveva chiamato questa discesa “essere- per-la-morte”: solo attraverso la rinuncia al fantasma di essere padroni del nostro desiderio ci si può rendere soggetti attivi di desiderio. Solo se l’immagine del figlio viene liberata dall’illusione narcisistica di “essere il fallo” che colma la mancanza della madre e dallo spettro del padre che esige una fedeltà senza libertà al passato, egli può accedere all’atto. È un insegnamento che trascende il dramma di Amleto per toccare nel più intimo la vita di ciascuno.

La Stampa 20.3.16
La testimone riapre il caso Macchi: “Un prete conosce la verità” 
Patrizia Bianchi ha appuntato nei diari un dialogo con Stefano Binda, l’uomo arrestato a gennaio per l’omicidio della studentessa a Varese nel 1987. Gli inquirenti a caccia del sacerdote che ha ricevuto la confessione del delitto. Fra le carte sequestrate al sospettato, spunta la lettera di un arcivescovo
di Giacomo Galeazzi Marco Grasso Ilario Lombardo

qui

La Stampa 20.3.16
Don Giuseppe Sotgiu
“Non ho coperto l’assassino di Lidia”
“Patrizia non ha riconosciuto la grafia di Stefano”


È sulle scale della parrocchia di San Benedetto Abate, a Torino, che con poca voglia don Giuseppe Sotgiu, amico dell’uomo in carcere per l’omicidio di Lidia e lui stesso tra gli indagati 29 anni fa, accetta di parlare.
Perché i magistrati la accusano di essere reticente?
«Perché forse pensano che voglio coprirlo. Ma è stata fatta confusione. Fanno processi in tv, sproloquiano, azzardano profili psicologici. Spero che scarcerino Stefano, come fanno a dire che è lui l’assassino? Chi lo riabilita quando esce?»
Lei non si ricorda molte cose ma davanti ai pm ha notato che quella sulla lettera anonima che ha inchiodato Stefano non è la sua scrittura.
«La sua grafia era più arzigogolata, lui era un po’ vanitoso: non avrebbe usato una scrittura così semplice, lineare».
Però la testimone Patrizia Bianchi l’ha riconosciuta come sua.
«Secondo me non ha riconosciuto nulla. Hanno usato Patrizia per avere le lettere. Non sapevano con quale grafia confrontarla. Il nome di Patrizia alla polizia l’ho fatto io, come giro di amicizia dell’epoca. Patrizia era l’unica ragazza con cui sapevo che Stefano aveva un rapporto di amicizia».
Anche la perizia conferma che la grafia è di Binda.
«Per me non è sua. Nei contenuti religiosi, quella lettera può averla scritta qualsiasi ciellino. Tutti possono essere indiziati. Voglio vedere sinceramente su cosa costruiranno il processo. Hanno puntato subito su Cl e non si sono mossi».
Cl ha collaborato poco alle indagini?
«Non frequento più di tanto Cl, sono uno abbastanza libero e non mi faccio etichettare».
Che rapporti aveva Binda con Lidia?
«Non è vero che Stefano conoscesse così bene Lidia, anche perché Stefano come me è di Brebbia. Sono più di venti chilometri da Varese, non è così vicino. Noi siamo ragazzi di provincia. E poi Stefano non l’ho mai visto con una ragazza, né me ne ha mai parlato».
I suoi rapporti con Binda?
«Il mio legame con Stefano si è un po’ incrinato al liceo perché era oppressivo, era diventato uno di quei rapporti in cui l’altro ti sta troppo sopra».
Sospettano che lo abbia aiutato o coperto...
«Non avrei mai coperto un assassino. E così non lo coprirebbe nessun prete. Se io avessi saputo chi fosse, lo avrei portato a calci in culo in questura».
Però nel 1987 lei è stato indagato dopo aver cambiato versione sull’alibi fornito proprio a Binda.
«È una storia strana sin dal principio. Non è vero che ho cambiato versione, è un’ipotesi nata negli ultimi due anni. Dopo un mese dalla morte di Lidia non ricordavo cosa avessi fatto quella sera del 5 gennaio. Era un periodo di vacanza e stavamo sempre insieme io, Binda e Piergiorgio Bertoldi. Formulai un’ipotesi sulla base di quello che facevamo abitualmente».
Lei come Binda viveva vicino all’ospedale di Cittiglio, dove è stata vista l’ultima volta Lidia .
«È così, anche io quel pomeriggio, ma prima di Lidia, andai a trovare Paola in ospedale. Nel 1987 fui interrogato, all’inizio come teste. Da giovane sei incosciente, non ci pensi. Mi sono spaventato quando ho capito di essere indagato. Non basta non aver fatto una cosa: ci possono essere coincidenze o altro e allora ti viene paura. Quanta gente finisce dentro innocente? Mi dà fastidio che non hanno alcun rispetto per un prete».

LE TAPPE DEL CASO DELL’OMICIDIO DI GIULIA MACCHI QUI

Repubblica 20.3.16
“Abusata dal prete”

L’accusa di una suora con l’ok del Vaticano
Le violenze subite all’oratorio in un libro choc “Ero ragazzina, ora la Chiesa mi ha aiutato a dire tutto”
“Solo anni dopo ho capito che lui era il carnefice e io la vittima: non potevo perdonarlo” “Era la mia guida spirituale, io mi vergognavo ma pensavo che dovevo fidarmi”
di Zita Dazzi


MILANO. La prima volta, lei aveva 14 anni. Lui, il prete dell’oratorio, 30 di più. «Mi ha fatto sdraiare sul suo grande letto. Io mi ci perdevo, ero magrissima ed esile. Lui aveva modi gentili e paterni. Mi ha invitato a slacciarmi i pantaloni e poi mi ha aiutato a sfilarli, ha fatto lo stesso con le mutandine. Io mi vergognavo, ero tesa e non sapevo come comportarmi. Mi ha aperto le gambe lentamente e mi ha detto: “Sei fatta bene”». Inizia così, un racconto choc di una donna oggi diventata suora, dopo esser stata da bambina abusata per anni dal prete della sua chiesa, un sacerdote ormai morto che operava fino a poco tempo fa nella Diocesi ambrosiana.
La cruda testimonianza delle violenze subite per sette anni dalla ragazzina è in un libro, “Giulia e il Lupo”, curato da Luisa Bove e pubblicato da l’Ancora, casa editrice legata all’ordine dei pavoniani, con la spinta della Curia di Milano e la prefazione di padre Hans Zollner, membro della Pontificia commissione per la tutela dei minori, istituita da Papa Francesco per far luce sugli scandali sessuali e la pedofilia dentro alla chiesa. Il “Lupo” del titolo viene appunto dal nome usato da Bergoglio nei suoi discorsi contro i preti pedofili.
La donna, oggi 40enne, vive in convento e non aveva mai rivelato le violenze subite a casa del sacerdote prima di questo libro che mette alla prova anche il lettore scafato. «Ogni volta le carezze aumentavano e le sue grandi mani raggiungevano i miei piccoli seni — si legge nei primi capitoli — Un pomeriggio, dopo le prime carezze, mi ha detto che voleva vedermi tutta perché ero bella. Ha iniziato a spogliarmi, un minuto dopo ero completamente nuda, mentre il Lupo mi divorava con gli occhi e non smetteva di accarezzarmi e di baciarmi ovunque. Aveva ottenuto quello che voleva, mentre io ero inerme».
Un racconto feroce che la vittima ha trovato la forza di tirar fuori l’anno scorso, a 15 anni di distanza dai fatti, dopo aver ascoltato in Duomo a Milano, l’invito a denunciare gli abusi fatto dal vescovo di Boston O’Malley, chiamato a Milano dall’arcivescovo Angelo Scola perché raccontasse la sua battaglia contro i preti pedofili.
Come tutte le ragazze abusate da adulti, si sentiva «sporca », incapace di opporsi al “don” dell’oratorio, il suo confessore: «Era la mia guida spirituale. Dovevo fidarmi. Mi aveva chiesto di più, avevo concesso di più. Di fronte a ogni sua richiesta non sapevo dire di no. Subito dopo, mi pentivo. Il Lupo no. Mi trovavo bloccata da quella confusione mortale. Percepivo che qualcosa di me era come morto, perché riusciva a fare di me e con me tutto quello che voleva». Dopo anni, finalmente, il prete maniaco si allontana. Ma rimane un dolore sordo nella testa della ragazza, la fatica di vivere, la paura di ogni uomo, l’orrore per il proprio corpo. La decisione di prendere i voti, spiegata in mezzo a pagine che documentano il tormento psicologico, la difficoltà di trovare qualcuno disposto ad ascoltarla e a crederle.
«Ora si trattava di pronunciare, una volta per tutte, il nome del mio carnefice, rivelare la sua identità. Non lo avevo mai detto, illudendomi così di proteggere me stessa, invece proteggevo lui. Non lo pronunciavo perché mi vergognavo di me stessa», spiega la suora che, da adulta, ha avuto modo di incontrare ancora altre volte il suo persecutore. «Mi ha detto: “Io non ho mai dimenticato. Spero che tu mi abbia perdonato”. Ho risposto d’impulso: “Certo, tanti anni fa”. E lui: “Questo per me è un grande sollievo”».
I ragionamenti nel libro si accavallano, ma le conclusioni sono chiare: «Ho scoperto che il perdono non c’era mai stato, perché c’era la consapevolezza che non eravamo stati due amanti, bensì vittima e carnefice. E la nostra relazione era un abuso e una violenza. Com’era possibile allora perdonare? Non l’ho fatto allora, e neppure oggi».

La Stampa TuttoLibri 20.3.16
La scuola cattolica cova il delitto del Circeo
Un monumentale viaggio (1300 pagine) nella palude degli Anni 70 tra l’omicidio di Rosaria Lopez e i fallimenti del mondo borghese
di Andrea Cortellessa


È un doppio legame collettivo quello che induce a tentare, ogni volta, Il Libro Degli Anni Settanta: questo tempo che proprio non si riesce a passare alla storia. Anche il libro-monstre
di Edoardo Albinati si confronta con questo nodo, ma anziché pretendere di tagliarlo si sforza di dipanarlo in tutte le sue laocoontiche volute: a rischio di restarne, lui per primo, soffocato. Della matassa la sorte gli ha messo in mano un bandolo, e non tra i minori. A lungo il delitto del Circeo è stato infatti un paradigma dell’intreccio fra violenza individuale e collettiva (sulle sue interpretazioni c’è un’intera monografia di Fabio Pierangeli: «
È finita l’età della pietà», Sinestesie 2015); e si consumò a un solo grado di separazione da lui, Albinati, allievo della scuola che intitola il libro, il San Leone Magno nel borghesissimo quartiere Trieste: la stessa degli estremisti di destra Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, come lui di ottima famiglia, che una notte di settembre del ’75 rimorchiarono due ragazze invece di umile estrazione – Rosaria Lopez e Donatella Colasanti – e ne fecero scempio (la seconda, fortunosamente, sopravvisse).
Non si pensi però alla Scuola cattolica come a un libro-inchiesta, che risponda magari alla riapertura delle indagini (lo scorso gennaio) sulla sorte dell’irreperibile Ghira. Quasi provocatoriamente, anzi, Albinati capovolge la vulgata stucchevole del noir-che-fa-finalmente-chiarezza-sui-misteri-d’Italia. La «storia centrale» è talmente correlata con Tutto Il Resto da perdersi, da subito, come una cifra nel tappeto. Del Fattaccio non manca di dare spiegazioni, Albinati: il clima di violenza (il leit-motiv dei film di Peckinpah); la fallita pedagogia dei preti cogli adolescenti rinchiusi in una scuola tutta maschile; la «rappresaglia» simbolica dei maschi sull’universo femminile; l’inversione del decoro borghese (quello per cui quegli spostati – gli altri ex compagni si riveleranno maniaci suicidi, nazimaoisti piromani, anarchici scoppiati col loro ordigno sul tetto del manicomio – tutte le sere «tornano a cena dai genitori»). Più vicino a Calvino che a Pasolini, dunque.
Ma più s’inoltra nella palude, il narratore, più vi affonda con tutto se stesso. Finendo per specchiarvi le proprie ambivalenze nei rapporti col femminile, coll’estrazione borghese, colla sua storia religiosa e ideologica, con lo stesso vampirismo letterario: l’accostamento al Truman Capote di A sangue freddo regge, nel bene come nel male (quel «disturbo del comportamento» che è l’hoarding, di cui Albinati ha parlato nel notevole Oro colato, Fandango 2014: «ovvero il fare man bassa, accaparrarsi, saccheggiare»), mentre un altro possibile modello, Massa e potere di Elias Canetti (la volontà di trascendere gli eventi in un saggio filosofico sul proprio tempo, le cui digressioni costituirebbero invece «un diretto e immediato proseguimento del discorso»), resta lontano per l’incapacità di rinunciare a tornare sugli stessi scogli ossessivi, persino sulle stesse «filastrocche sciocche e oscene, cavolate e calembour scolastici» (le dodici pagine di chat cogli ex compagni di classe, per esempio, ce le saremmo risparmiate volentieri).
Il fatto è che questo di Albinati non è un romanzo né un saggio, ma neppure un misto dei due (come quello che resta il suo capolavoro, Maggio selvaggio). È invece il tentativo più coraggioso possibile (dopo il recupero della memoria con Vita e morte dell’ingegnere, quattro anni fa) di fare una buona volta i conti, non tanto cogli Anni Settanta e i loro mostri, ma col mostro che incontra tutte le mattine allo specchio. La condizione carceraria che scopre accomunarlo ai reduci di quelle guerre lontane (dopo tredici anni di reclusione al San Leone Magno, da più di vent’anni insegna a Rebibbia) si rivela così l’oscura sanzione di una colpa ancora più oscura. Davvero «questo libro non è in grado di rispondere a molte domande»; ma in compenso forse ha fatto del suo autore, finalmente, un uomo libero.

Repubblica 20.3.16
I valori di Francesco e il socialismo dell'Europa unificataI valori di Francesco e il socialismo dell'Europa unificata
Parlare di problemi è ormai un esercizio quotidiano. Necessario come notizie e analisi delle medesime. Ma non parlerò di problemi, piuttosto di personaggi, quelli che oggi contano di più per un europeo e italiano, per noi che viviamo e apparteniamo alla civiltà occidentale, per noi cittadini del mondo in una società sempre più globale che ormai riguarda l’intero pianeta
di Eugenio Scalfari

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Il Fatto 20.3.16
Tre anni in Vaticano
Bergoglio, geniale leader pigliatutto
Francesco, il Giano bifronte della misericordia universale
Il Papa è riuscito a essere sia un coraggioso riformatore che un prudente conservatore
di Marco Marzano

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Il Fatto 20.3.16
Vatileaks
Chaouqui: “Balda era a Dubai per beneficenza”

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Il Sole 20.3.16
Verso la Pasqua
La perfezione di Dio nell’imperfezione dell’uomo
di Bruno Forte

arcivescovo di Vasto e Chieti

Nell’approssimarsi della Pasqua vorrei provare a presentare il significato che essa ha agli occhi della fede, per l’interesse o anche la semplice curiosità di tutti, credenti e non credenti. Le Scritture Sacre della tradizione ebraico-cristiana attestano che il Creatore e Signore dell’universo ha parlato agli uomini in diversi modi, dalla silenziosa scrittura dei cieli alla ricchezza e complessità delle forme viventi, fino all’immagine e somiglianza divina, che è l’uomo stesso, creatura culmine di tutto il creato.
La forma per eccellenza dell’auto-comunicazione dell’Eterno, però, è secondo la Bibbia la Parola, indicata dall’ebraico col termine “dabar”, capace di evocare inseparabilmente il contenuto noetico e l’evento vitale che essa stessa produce. Per la fede cristiana, la Parola dell’Eterno si è fatta carne: il Verbo ha messo la sua tenda in mezzo a noi! Eppure, al vertice della Sua missione, questa stessa Parola tace: sulla croce Dio parla nel silenzio della finitudine umana, che è diventata Sua per amore nostro, esperienza dell’Amato consegnato per noi alla morte, perché potessimo saperci amati per sempre.
L’eloquenza silenziosa della Croce rimanda così al mistero nascosto nelle tenebre del Venerdì Santo: il dolore di Dio e l’amore infinito che lo motiva. Il Dio cristiano soffre perché ama e ama in quanto soffre. È il Dio “compassionato”, il Dio per noi, che si dona fino al punto di uscire totalmente da sé nell’alienazione della morte, per accoglierci in sé nel dono della vita. Sulla croce il Figlio è entrato nella “fine” dell’uomo, nell’abisso della sua povertà, della sua tristezza, della sua solitudine, della sua oscurità. E lì, bevendo l’amaro calice, ha fatto fino in fondo l’esperienza della nostra condizione umana: alla scuola del dolore è diventato uomo fino in fondo, affinché nessuna creatura umana potesse più sentirsi abbandonata da Lui nell’abisso della fragilità, della povertà, del peso del peccato, dell’ora della morte. Il Figlio di Dio ha abitato la nostra morte perché noi sapessimo che sarà la forza del Suo amore a superarne la vittoria e a donarci la vita, e il nostro dolore, fatto proprio da Lui Crocifisso, potrà convertirsi in via di purificazione, cammino di liberazione dal male, anticipo e promessa di gloria futura.
Per la fede dei cristiani il frutto dell’albero amaro della croce è, dunque, la gioiosa notizia di Pasqua: il giorno in cui Dio è morto cede il posto al giorno del Dio che vive in eterno. Il Consolatore del Crocifisso viene effuso su ogni carne per essere il Consolatore di tutti i crocefissi della storia e per rivelare nell’umiltà e nell’ignominia della croce, di tutte le croci della storia, la presenza corroborante e trasformante del Dio vivente. La “parola della croce” (1Cor 1,18) mostra che è nella povertà, nella debolezza, nel dolore e nella riprovazione del mondo che troveremo Dio: non gli splendori delle perfezioni terrene, ma proprio il loro contrario, la piccolezza e l’ignominia, diventano il luogo della Sua presenza fra noi, lì dove Egli parla al cuore umile che voglia accoglierlo. La perfezione del Dio cristiano si manifesta nelle imperfezioni, che per amore nostro egli assume: la finitudine del patire, la lacerazione del morire, la debolezza della povertà, la fatica e l’oscurità del domani, sono i luoghi dove egli mostra il suo amore, perfetto fino alla consumazione totale del dono.
È in queste “imperfezioni”, in questa “umiltà” divina - di cui parla San Francesco nelle Lodi del Dio altissimo - che risuona l’esclamazione che sigilla l’evento della croce: “Tutto è compiuto!” (Gv 19,30). Essa sta a dire che ormai nella vita di ogni uomo diventa possibile aprirsi al Dio presente, che si offre con noi e per noi, per trasformare il dolore in amore, il soffrire in offrire, il giorno che passa in anticipo d’eterno. È questa la Pasqua che chi crede sa di doversi augurare e di augurare agli altri: la scoperta dell’essere amati da un amore antico, fedele e sempre nuovo, capace di dare luce e senso all’umiltà dei giorni, nella verità del cuore che si apra all’azione del Dio tre volte Santo.
Testimonia l’esperienza di questo amore una preghiera anonima proveniente dalla Spagna del XVI secolo, da alcuni attribuita a San Juan de Avila: «Non mi spinge ad amarTi, mio Dio, / il cielo che mi hai promesso, / né mi muove l’inferno sì temuto / a cessare d’offenderTi. / Sei Tu ad attrarmi, Signore: / mi muovono il vederTi inchiodato alla croce, / il Tuo corpo ferito, / le offese che patisci e la Tua morte. / Mi muove infine il Tuo amore / sì che, se non ci fosse il cielo, io T’amerei / e se non ci fosse l’inferno, Ti temerei ugualmente. / Non devi darmi nulla perché T’ami, / poiché se anche non sperassi quel che spero /lo stesso T’amerei come Ti amo». Pasqua è la storia di questo amore crocifisso e risorto e la possibilità offerta a chiunque lo voglia di farne esperienza nel tempo e per l’eternità. L’augurio pasquale, nel suo senso teologico più profondo, non è allora altro che l’augurio di questa esperienza. Buon cammino pasquale, a tutti e a ciascuno!
Arcivescovo di Chieti-Vasto

Il Sole Domenica 20.3.16
Personaggi del Vangelo
Misericordia per chi sbaglia
La figura dell’adultera colta in flagrante, che Gesù difende davanti all’ipocrisia dei benpensanti ma che invita a redimersi
di Gianfranco Ravasi s.j.


Noi occidentali la chiamiamo “Santa”, le Chiese orientali la definiscono come la “Grande Settimana”, mentre il rito ambrosiano la considera la “Settimana autentica”: sono i giorni che – a partire da oggi – costituiscono il cuore della fede cristiana nel quale s’intrecciano passione e gloria di Cristo, morte e risurrezione, umanità e divinità. Per impedire che tutta la mirabile eredità artistica, musicale, letteraria, filosofico-teologica e spirituale-tradizionale della Pasqua si dissolva in un’anodina e secolarizzata “festa di primavera”, vogliamo ora proporre una libera riflessione attorno a una potente pagina evangelica che mette in scena una particolare risurrezione, quella che fiorisce dalla morte interiore della colpa e sboccia nel perdono. È, questo, anche un modo per riproporre il fluire di quest’anno giubilare straordinario che, come noto, ha il suo filo tematico spirituale proprio nella misericordia.
Apriamo il Vangelo di Giovanni nei primi undici versetti del capitolo 8. La scena è ambientata sulla vasta spianata del tempio di Gerusalemme. Su di essa svettano ora le due cupole, la dorata della cosiddetta moschea di Omar e quella argentea della moschea al-Aqsa, “la remota”, cioè la più lontana (allora) dalla Mecca. Nel I secolo, però, qui si ergeva l’imponente architettura del tempio ebraico edificato da Erode il Grande del quale restano ormai soltanto i grossi massi squadrati del basamento che compongono il noto “Muro del pianto”. Il racconto evangelico ci porta idealmente lassù, in una mattina attorno all’anno 30. In un settore di quell’enorme piazzale si è costituito un assembramento di persone vocianti che circondano una donna, trascinata lì a forza e gettata a terra.
Nel cerchio che si è creato attorno a lei c’è, a lato, anche un uomo che sembra indifferente, tant’è vero che sta tracciando segni nella polvere. È Gesù di Nazaret, ed è anche l’unica volta nei Vangeli in cui si dice che egli scrive: nessuno, però, saprà mai che cosa segnasse in quello spazio, se alcune parole o semplici tratti casuali, come accade a molti quando ascoltano un discorso o assistono a un evento. L’ostinazione di certi studiosi ha, invece, pensato di essere in grado di sbirciare cosa Cristo stesse scrivendo. Forse una citazione del profeta Geremia: «Quanti si allontanano dal Signore saranno scritti nella polvere» (17,13)? Oppure quest’altra frase del libro dell’Esodo: «Non prestare mano al colpevole per essere testimone in favore di un’ingiustizia» (23,1)? Lasciamo da parte queste elucubrazioni fantasiose e ritorniamo all’evento in azione su quel piazzale.
La ragione del rumoreggiare che circonda Gesù è subito spiegata: quella donna era stata sorpresa in flagrante adulterio e il reato, stando alla legislazione biblica, supponeva la condanna esemplare alla lapidazione (Levitico 20,10; Deuteronomio 22,22). Puntualmente gli scribi e i farisei si fanno portavoce dell’esigenza dell’osservanza rigorosa della norma legale: «Mosè nella Legge ci ha comandato di lapidare donne come questa!». E, quando la folla è stimolata, il brivido della violenza di gruppo, apparentemente giustificata a livello giuridico, comincia a percorrere la mente e le mani delle persone. Gesù continua a conservare un sorprendente distacco, nonostante sia stuzzicato dai circostanti che vorrebbero coinvolgerlo in modo diretto.
Alla fine, però, Cristo si alza in piedi. Si fa silenzio e le sue parole cadono come una doccia fredda sui bollori di quell’assemblea tumultuosa: «Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei!». La frase è memorabile ed è un vero e proprio atto d’accusa, una sorta di indice puntato contro tutti gli ipocriti. È facile, a questo punto, notare l’esito di questa provocazione. Le voci si quietano e lentamente il capannello di persone si dissolve e rimangono solo loro due, l’adultera e Gesù, in un silenzio surreale dopo tanto clamore. S. Agostino commentava in modo folgorante questo quadretto finale: Relicti sunt duo: misera et Misericordia, sono rimasti solo in due: la (donna) misera e la Misericordia personificata in Cristo.
Una misericordia che non ignora la realtà della colpa e la necessità di una conversione: «Va’ e d’ora in poi non peccare più», dice Gesù alla donna in quella solitudine quasi surreale. Ma il primato va al perdono che esclude ogni giudizio definitivo e impietoso: «Io non ti condanno». Tutto l’evento narrato da Giovanni – alcuni, però, pensano che questa pagina, assente in molti degli antichi codici che ci trasmettono i Vangeli, sia più adatta a Luca, l’evangelista della misericordia (c’è chi ha trovato persino il punto esatto nel cap. 21 di quel Vangelo dopo il versetto 38) – può trasformarsi in un monito anche per i nostri giorni. L’esperienza amara del tradimento coniugale tormenta spesso le coppie e la superficialità che oggi imperversa la rende quasi una componente scontata. È ciò che dipingeva in modo pittoresco già l’antico sapiente biblico del libro dei Proverbi quando raffigurava così una donna amorale: «Questa è la condotta di una donna adultera: mangia, si pulisce la bocca e dice: Non ho fatto nulla di male!» (30,20).
Bisogna, perciò, ribadire con Gesù la necessità di ritornare a un senso morale più vigile, lapidariamente espresso in quel «Non peccare più!». È, però, indispensabile avere anche la capacità di perdonare: facile è spezzare una famiglia, una vita in comune, un legame profondo per un colpo di passione. Più coraggioso è, invece, cercare di rimettere insieme i cocci e non disperdere il tesoro di amore che pure è posseduto dai due sposi. E come annotava il famoso scrittore cattolico François Mauriac nel suo Block-notes, «l’amore coniugale, che persiste attraverso mille vicissitudini, mi sembra il più bello dei miracoli, benché sia anche il più comune».
C’è un corollario a questa lezione sulla misericordia ed è la condanna di ogni altezzosa superiorità e di ogni ipocrisia giudicatrice nei confronti della persona colpevole. Il noto scrittore americano, Michael Connelly, in uno dei suoi romanzi polizieschi ricordava che ogni volta che puntiamo l’indice contro un altro accusandolo, altre tre dita della nostra mano rimangono puntate contro di noi. Risuonano, allora, idealmente le parole di Gesù: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati» (Luca 6,37).
In appendice alla nostra riflessione è quasi scontato rievocare un classico della letteratura anglosassone, La lettera scarlatta (1850), capolavoro di Nathaniel Hawthorne, ambientato proprio nella sua terra, la Boston puritana del Settecento, una vicenda così emozionante da aver generato ben tre film, tutti col titolo del romanzo: nel 1926 col regista Victor Sjöström negli Stati Uniti, ove Roland Joffé ha replicato il soggetto nel 1995 con Demi Moore, mentre in Germania nel 1972 era stato Wim Wenders a riproporlo con Senta Berger. Hester Prynne è la madre adultera della piccola Pearl, condannata dal perbenismo locale alla gogna di portare sul petto per tutta la vita la lettera A di “adultera” da lei stessa ricamata su un panno scarlatto bordato di ricami e ornato di arabeschi. E come nella scena evangelica, alla fine sarà l’ipocrita reverendo Dimmesdale a dover scagliare non contro di lei ma su di sé la prima pietra, in una tragica confessione pubblica finale.

Il Sole Domenica 20.3.16
Ordini religiosi / I domenicani
Gli ottocento anni dei «Domini canes»
di Armando Torno


Folchetto di Marsiglia, poeta provenzale (in occitanico Folquet de Marseilla), amò disperatamente una donna e quando costei, moglie di un visconte, lasciò le pene di questo mondo, si fece monaco. Nel 1201 fu eletto abate del monastero di Torronet, nel 1205 vescovo di Tolosa. Il suo nome, oltre che nelle vicende della lotta contro gli Albigesi, va posto accanto a Domenico di Guzmán per l’istituzione dell’ordine che poi diventerà quello dei Predicatori. Dopo averne approvato gli intenti nel 1215, nel 1216 accompagnò il futuro santo a Roma, dove papa Onorio III decise di confermarne la costituzione. Dante colloca Folchetto tra gli spiriti amanti del III cielo di Venere, facendone uno dei protagonisti del canto IX del Paradiso. Domenico, invece, è posto poco dopo, nell’XI, e Dante così lo presenta: «per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore»; ovvero, ebbe le qualità degli angeli Cherubini. Non è il caso di aggiungere chiose o altro, anche perché di questo santo si disse a suo tempo: o parlava con Dio, o parlava di Dio.
Gianni Festa, priore di Santa Maria delle Grazie a Milano, pubblicherà in novembre una storia dei Domenicani (scritta con Marco Rainini della Cattolica) presso Laterza e con lui abbiamo parlato dell’ottavo centenario della conferma dell’Ordine, che fu l’atto ufficiale della nascita. Ha notato che per le elezioni dei Domenicani si codificò una sorta di sistema bicamerale secoli prima di quello utilizzato dalle democrazie odierne; ci ha ricordato che è l’unico ordine che gode del privilegio di non aver bisogno del nulla osta del pontefice per la ratifica del maestro generale. Poi è inevitabile soffermarsi sui grandi personaggi che fecero parte di questa famiglia religiosa, da Alberto Magno a Tommaso d’Aquino a papa Pio V (legò il suo nome alla battaglia di Lepanto, ovvero alla salvezza della cristianità); né è possibile dimenticarsi delle vicende storiche che coinvolsero i discepoli di San Domenico, che vanno dall’Inquisizione alla teologia progressista presente al Concilio Vaticano II (da Chenu a Congar). E poi le iniziative che ricorderanno l’ottavo centenario. Molte, ovunque.
Per rimanere in Italia basterà ricordare che ve ne saranno a Bologna, dove è sepolto san Domenico (e dove le Edizioni Studio Domenicano stanno pubblicando tutto Tommaso d’Aquino tradotto), altre si terranno a Roma e, ovviamente, a Milano, città nella quale l’Ordine dei Predicatori custodisce una basilica quale Santa Maria delle Grazie, con il Cenacolo di Leonardo e l’architettura di Bramante (nel Medioevo la loro sede era in Sant’Eustorgio). Dopo la “Settimana domenicana” tenutasi in gennaio, si avrà una manifestazione la sera del 21 marzo per ricordare sia gli otto secoli della conferma, sia gli undici anni della scomparsa di Mario Luzi. Un appuntamento che vedrà l’esposizione nella Cappella Conti dell’opera di Venturino Venturi la Pietà di Micciano, in marmo statuario bianco di Carrara. Resterà nella basilica sino al 15 maggio, giorno di Pentecoste.
Si potrebbe aggiungere che questa scultura ha richiesto un notevole impegno per trasporto e sistemazione (le luci e scenografia sono di Marco Nereo Rotelli). Il tutto è stato possibile per l’interessamento di Paolo Andrea Mettel, presidente dell’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo; la serata avrà poi musiche d’organo (eseguite da Ermanno Codegoni) e Pino Tufillaro leggerà il commento di Mario Luzi a Donna de Paradiso di Iacopone da Todi. Infine l’attore interpreterà anche il testo di questa lauda drammatica, nota anche come Pianto della Madonna, la più celebre forse del lascito del letterato e religioso dalla voce “vigorosa e sconvolgente”. Un ideale abbraccio tra arte, letteratura e storia che apre la settimana di Pasqua in santa Maria delle Grazie.
In margine ci limitiamo a notare che la forza di Iacopone nasce dopo la Theologia Crucis di Bernardo di Chiaravalle (morto nel 1153), teologo e filosofo che aveva posto la croce come elemento ordinatore dell’intero creato, al cui centro c’era l’uomo. La pittura con Cimabue e Giotto stava mostrando il Cristo sofferente, il Figlio che subisce violenza. Intanto i flagellanti percorrevano le strade percuotendosi, gridando contro i peccati. In Donna de paradiso le parole diventano chiodi, i dialoghi liberano urla, gli sguardi si trasformano in angoscia. Scrive Iacopone: «Soccurre, donna, adiuta,/ cà ’l tuo figlio se sputa/ e la gente lo muta;/ òlo dato a Pilato» («Accorri, donna, porta aiuto! Perché tuo figlio viene coperto di sputi; e la gente lo porta da un luogo all’altro, lo hanno dato a Pilato». Venturino Venturi dice tutto questo con lo scalpello. E si vedrà alle Grazie, tra Leonardo e Bramante.

La Stampa 20.3.16
Bagnasco: “Soltanto uno Stato triste decide di legalizzare l’eutanasia”
Il presidente della Cei spiega perché la Chiesa rifiuta il concetto della “dolce morte”
di Andrea Tornielli

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La Stampa 20.3.16
Il messaggio di Papa Francesco ai vescovi: “Guardare i fedeli negli occhi non in obliquo”
di Domenico Agasso ir

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Corriere 20.1.16
Crisi della paternità o dell’ideale virile?
I padri nel mondo sono quasi assenti
di Lea Melandri

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Corriere 19.3.16
Ma i padri nel mondo sono ancora assenti
di Luigi Zoja

qui

Corriere La Lettura 20.3.16
L’Olanda non guarda in alto

È sempre più alto nei Paesi Bassi il numero di coloro che non vogliono saperne di Dio. Negli ultimi dieci anni, gli atei sono cresciuti dal 14% al 25%. Quelli che credono in qualche entità superiore sono scesi dal 36% al 28%. Il 70% non appartiene ad alcuna chiesa. Solo il 25% si dice cristiano e appena 13 cattolici su cento credono nel paradiso. Nella società olandese descritta dall’indagine della compagnia radiotelevisiva Kro, Dio è sempre più solo.

La Stampa 20.3.16
Inchiesta sul crac
Etruria, sotto accusa il papà della Boschi e gli altri consiglieri
Al vaglio degli inquirenti il dissesto da 1,1 miliardi. Nel mirino anche la buonuscita concessa all’ex dg
di Gianluca Paolucci

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Corriere 20.3.16
Sotto inchiesta il cda di Banca Etruria. C’è anche il padre del ministro Boschi
Indagine per bancarotta. L’accusa riguarda l’indennizzo all’ex direttore generale
di Fiorenza Sarzanini

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L’Huffington Post 20.3.16
Papà Boschi indagato
Indiscrezione del Corriere. L'accusa è di bancarotta fraudolenta
Banca Etruria: Pierluigi Boschi, padre del ministro per la Riforme, indagato per bancarotta fraudolenta

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Il Fatto 20.3.16
Anatocismo, così il governo ha aiutato le grandi banche
Renzi agli ordini delle banche
Rivolta dei consumatori contro l’ultimo regalo sugli interessi
di Carlo Di Foggia

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Il Fatto 20.3.16
ll “salva istituti” continuo dell’esecutivo
Il metodo Non può soccorrerli direttamente, e così aggira l’ostacolo: tasse, mutui, sofferenze, Bcc...

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Corriere 20.3.16
I renziani e il fastidio per Letta
Il premier: con noi l’economia va
«L’occupazione? Gli incentivi del precedente governo non hanno funzionato»
di Maria Teresa Meli

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Corriere 18.3.16
L’intervista di Enrico Letta
«Il Pd rischia una crisi insanabile. Un leader non caccia, unisce»
L’ex premier: «L’immigrazione? La guida toccava all’Italia, se l’è presa Merkel»
di Monica Guerzoni

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il manifesto 20.3.16
Referendum, un detonatore nel Pd
Trivelle. Domenica la direzione, minoranza contro la scelta astensionistica. Renzi: sono tutte bufale, Torna a farsi sentire Enrico Letta, che mercoledì interverrà in un dibattito alal camera davanti al capo dello stato: un leader dovrebbe includere, non cacciare
di Domenico Cirillo


ROMA Nel corso della direzione del Pd di domani «si parlerà di elezioni amministrative, del referendum sulle trivellazioni e non della questione Verdini perché alla direzione del partito democratico si parla del partito democratico». E Denis Verdini, deve a questo punto precisare la vice segretaria Debora Serracchiani, non ne fa parte: «La sua è un’altra forza politica». Che il condannato per corruzione sia un alleato stabile e necessario del governo è considerata questione irrilevante. Anzi una «bufala», come spiega direttamente Matteo Renzi, che nella sua enews settimanale inserisce il generico capitolo «i condannati» all’interno di un lungo elenco di «bufale» propagandate, sostiene, dai suoi avversari. Nell’elenco c’è anche il referendum sulle trivelle. All’inedita scelta di schierare il partito per il non voto si dedicherà il presidente del Consiglio nel suo intervento di domani al Nazareno. Con quali toni l’hanno già fatto capire i due vice Serracchiani e Guerini. «Vedremo chi ha i numeri e potrà utilizzare il simbolo del Pd», hanno detto per stroncare le proteste del presidente della regione Puglia Emiliano, dei tanti consiglieri regionali del partito che hanno promosso il referendum e dei dirigenti della minoranza contrarissimi alla scelta astensionistica comunicata in sordina mercoledì scorso all’Autorità di garanzia sulle comunicazioni.
Sul referendum Renzi dovrà tenere qualche cautela formale, non a caso stavolta la scelta astensionistica è stata presentata come un’iniziativa dei due vice e non del segretario: che il presidente del Consiglio inviti gli elettori ad andare al mare non si è visto neanche ai tempi di Craxi o Berlusconi. Non cambia la sostanza, che vede il governo preoccupatissimo di un’eventuale sconfitta in un referendum che pure giura essere «inutile». Dimostrazione di quanto a palazzo Chigi e al Nazareno ci si preoccupi di evitare un precedente scomodo in vista della «madre di tutte le battaglie», ancora su un referendum, ma quello costituzionale di ottobre.
Anche in occasione di altre direzioni Pd, però, i toni forti della vigilia sono stati dismessi nel corso della riunione, e la minoranza alla fine non è andata oltre la non partecipazione al voto. Stavolta si è fatto sentire Enrico Letta: «Mi aspetto che chi guida si assuma l’onere dell’inclusione e non quello di cacciare in pezzo del Pd». L’ex presidente del Consiglio, sostituito proprio da Renzi due anni fa e da allora osservatore assente della politica italiana, sta intensificando le sue uscite pubbliche e dopo l’intervista di ieri al Corriere della Sera avrà un’occasione importante per il rientro mercoledì prossimo. Quando, alla presenza del capo dello stato, presenterà alla camera un numero speciale della rivista Arel dedicato al suo maestro Beniamino Andreatta. Lo precedono gli attestati di stima della minoranza Pd. «Letta giustamente rivela che il Pd vive una crisi di valori, di comportamenti e di prospettive che bisogna contrastare dall’interno del partito», ha detto il senatore Gotor. «Un grande partito popolare come il Pd necessita di uno sforzo di sintesi a cui questa gestione ha assolutamente abdicato», ha aggiunto il senatore Fornaro. «Non ci sono rese dei conti, nessuno sta cacciando nessuno», ha invece replicato a Letta ancora la vice segretaria Serracchiani.
Ma la divergenza di opinioni tra il vertice e tanti amministratori locali del partito sulla posizione da assumere nel referendum del 17 aprile è destinata ad alimentare altri scontri. Al sindaco di napoli Luigi de Magistris che ieri ha twittato «A Napoli cozze e vongole, no trivelle» ha immediatamente risposto il presidente della Puglia Emiliano. «Grazie Luigi, ora è sempre Resistenza». Emiliano, iscritto Pd, interverrà alla direzione di domani, e ai suoi follower che ieri lo hanno criticato per i toni resistenziali un po’ eccessivi, ha risposto rincarando la dose a ogni passaggio. «Resistenza? Guarda che ormai siamo a questo punto», «siamo davanti a un pericolo per la democrazia se non utilizziamo i referendum», «questo atteggiamento del mio partito è preoccupante, almeno per me».

Il Sole 20.3.16
Le trivelle e l’Ulivo che non c’è
di Lina Palmerini


Si fa presto a dire Ulivo. La minoranza Pd lo ha rilanciato contro Renzi ma i fatti raccontano un’altra storia. In questo senso, il referendum sulle trivelle è un caso emblematico. Prodi è contrario, la sinistra è per il sì. Da che parte sta l’Ulivo?
Nel gennaio di dieci anni fa il centro-sinistra litigava sulla Torino Lione. Tant’è che il progetto della Tav improvvisamente sparì dal programma elettorale con cui Romano Prodi era candidato premier proprio per le divisioni all’interno della coalizione. Fu un caso. Dopo qualche giorno, il Professore in persona si preoccupò di rassicurare e impegnarsi su quella grande opera ma quel fatto fu emblematico di quanto fosse divisa l’alleanza.
Dieci anni dopo la minoranza Pd rievoca lo spirito dell’Ulivo, la bontà di quella prospettiva politica ma trascura di ricordarne gli aspetti più problematici che erano, appunto, i differenti - e talvolta opposti - punti di vista sulle cose concrete: lavoro, infrastrutture, ambiente, energia. Cose di cui vive un Paese. L'Unione – così si chiamava la coalizione che poi vinse le elezioni – non c’è più ma quel grumo di divisioni persiste dentro il Pd come dimostra il caso delle trivelle.
Domani se ne parlerà alla direzione del Pd e già ieri Renzi preannunciava battaglia contro la minoranza che gli contesta – soprattutto – di aver schierato il partito sull’astensione senza una discussione interna preventiva. Giusto. Ma il metodo sbagliato non cancella il merito delle divisioni. E allora alla sinistra Pd che la scorsa settimana – a Perugia – rilanciava lo spirito dell’Ulivo verrebbe da chiedere: dove sta l’Ulivo? Sta con Romano Prodi che parla del referendum sulle trivelle come di un «suicidio nazionale» o con la minoranza Pd di Cuperlo e Gotor che sembrano propensi a votare «sì»? Sta con quella parte della Cgil – i chimici – che non vogliono cancellare posti di lavoro o con la Fiom che non vuole le trivelle?
«Se dovessi votare, voterei certamente per mantenere gli investimenti fatti e per mantenere, nella massima sicurezza, una produzione nazionale, come hanno tutti i Paesi. Quindi se voto al referendum, voto no». Così parlava il padre dell’Ulivo Prodi mettendo a nudo un fatto: che tutte le discussioni sui metodi sbagliati di Renzi nascondono che c’è ancora una grande distanza su come affrontare i problemi. Con quali strumenti, con quale approccio, quali soluzioni. Non è questione di pensiero unico ma chi sta insieme in un partito almeno una sintonia di fondo la dovrebbe avere. Ci sono questioni dove è necessaria la libertà di coscienza ma sui grandi temi di rilancio del Paese – e uno di questi è la produzione di energia – un punto in comune si deve avere. Ed è qui che persiste l’immaturità del Pd.
La direzione di domani non scioglierà il nodo. E chiunque vincerà anche al prossimo congresso dovrà sempre fare i conti con la resistenza delle minoranze a collaborare sulla visione comune dei problemi non da una posizione di antagonismo. Dieci anni fa al Professor Prodi, che certo non si può accusare di arroganza renziana, toccò dire: «La Torino Lione si farà punto e basta» per spezzare il vortice di polemiche tra Rifondazione, Ds e Margherita nato alla vigilia del voto. Un vortice che si trascinò su molte altre questioni durante la breve legislatura. Da allora a oggi anche chi evoca l’Ulivo non ha ancora proposto e soprattutto accettato una regola di convivenza. Si vive in battaglia, in attesa del congresso e poi della stesura delle liste elettorali per avere più posti in Parlamento. E ogni occasione è buona per accendere un focolaio. Ma non si capisce se l’Ulivo è quello di Prodi per il no - o l’astensione - al referendum o quello di chi vuole la campagna per il sì.

Il Fatto 20.3.16
Proposte Mentre il Pd pensa a novità per le consultazioni, ecco le idee degli esperti per rianimarle
di Luca De Carolis

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Corriere 20.3.16
Il sondaggio
Solo un elettore di Pd su dieci crede che ci sarà la scissione
La sinistra radicale non sfonda: se nascesse una formazione si fermerebbe sotto al 9%
di Nando Pagnoncelli

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L’Huffington Post 20.3.16
A sinistra del Pd c’è poco o nulla
Sondaggio Ipsos impietoso con chi spera nella scissione
La sinistra radicale non convince gli elettori. Ipotetica formazione nata da scissione si fermerebbe sotto il 9%

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La Stampa 20.3.16
Burocrazia italiana sotto la media Ue, così perdiamo 30 miliardi all’anno
Le Regioni del Sud in fondo alla classifica. In ritardo i decreti attuativi della riforma
di Roberto Giovannini

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Corriere 20.3.16
Fratture culturali
I sommersi e i salvati nell’università senza passato
In un numero crescente di atenei ormai da tempo il gruppo di comando è nelle mani di un blocco formato perlopiù intorno a un nucleo ingegneristico-medico-giuridico il quale ha finito per monopolizzare di fatto il potere
di Ernesto Galli della Loggia
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il manifesto 20.3.16
Libertà di ricerca sulle staminali embrioniali: 600 scienziati firmano la petizione dell’Associazione Coscioni


Sono «già oltre 600 da 22 Paesi del mondo» gli scienziati che hanno firmato, insieme ad altre migliaia di persone, la petizione per la libertà di ricerca sulle staminali embrioniali, lanciata dall’Associazione Luca Coscioni in vista del pronunciamento della Corte Costituzionale che martedì prossimo dovrà decidere su uno degli ultimi divieti imposti dalla legge 40 (art. 13), già smontata pezzo per pezzo dalle precedenti sentenze, il divieto di   utilizzare a scopi di ricerca cellule  «pre-embrioni» per idonei per una gravidanza «altrimenti destinati a marcire nei congelatori». Nell’udienza pubblica della Consulta, denuncia Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni e presidente dei Radicali italiani, il governo Renzi, attraverso l’avvocatura dello Stato si oppone alla «testimonianza di scienziati e clinici esperti della materia, sostenendo che “il legislatore aveva già tenuto conto dei differenti interessi in gioco” in occasione del dibattito parlamentare».

Il Sole 20.3.16
Se dieci anni vi sembrano pochi
I tratti distintivi della crisi attuale sono assai diversi da quelli del ’29.
di Luca Ricolfi

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Corriere 20.3.16
Più partenze che arrivi
E l’Italia (a sorpresa) è un Paese di emigrati
di Federico Fubini

Da quando un secolo e mezzo fa l’Italia si è unificata, per due terzi del tempo le annate si sono infallibilmente chiuse con un saldo dello stesso segno: erano emigrate dal Paese più persone di quante non ne fossero arrivate da fuori. Dal 1861 a oggi la popolazione è più che raddoppiata quasi solo grazie alla sua fertilità. Ora però che le nascite sono ai livelli più bassi dall’Unità d’Italia, la popolazione rischia di diminuire in modo sostanziale se è vero che il 2015 è tornato a essere un po’ come il 1875, il 1912 o il 1960. E sembra proprio che sia andata così: probabilmente l’anno scorso è stato uno dei cento della storia unitaria durante i quali le donne e gli uomini partiti oltre confine sono risultati più numerosi rispetto ai nuovi immigrati arrivati fin qui.
Era dall’inizio degli anni 70 che non succedeva, non come evento di massa. In realtà i dati dell’Istat, l’Istituto statistico italiano, smentiscono che le uscite dal Paese abbiano superato gli arrivi: il «saldo migratorio» fra persone che si stabiliscono nel Paese e quelle che lo lasciano è sceso negli ultimi anni, però resta positivo. Ufficialmente, contando gli sbarcati di Lampedusa, l’anno scorso sono venute ad abitare in Italia 128 mila persone in più di quante non ne siano andate altrove.
Resta un dubbio: i dati ufficiali dei Paesi di destinazione dei migranti italiani raccontano una storia diversa. I deflussi potrebbero essere almeno due o tre volte più intensi di quanto non si creda: l’Istat non mente, solo che dispone di informazioni incomplete. Negli ultimi due anni l’emigrazione fuori dall’Italia potrebbe essere diventata così rapida da spiegare una buona parte del ritardo nella crescita economica sul resto d’Europa.
Questo bagaglio di storia e cifre non turbava Livia Rodà, 32 anni, laureata in Lettere, quando all’inizio dell’inverno si è seduta davanti a un funzionario del dipartimento del Lavoro a Londra. Dopo un decennio in un’agenzia pubblicitaria di Padova, doveva sostenere un colloquio per ottenere il National Insurance Number — il codice fiscale — e poter così iniziare a lavorare nel Regno Unito.
Durante soggiorni sempre più lunghi nell’ultimo anno, Rodà ha capito che a Londra le è più facile realizzarsi. Da mesi si è dichiarata alle autorità locali, vive in affitto con un contratto registrato, ha rapporti di lavoro regolari. Resta un passaggio che per ora ha rinviato: avvertire le autorità dell’Italia che non vive più lì. Non è obbligata a farlo e — spiega — alcuni dei suoi amici lavorano a Londra da cinque anni ma si sono iscritti all’Associazione italiana dei residenti all’estero solo da pochi mesi. La burocrazia dello Stato di destinazione sa da un pezzo che c’è una nuova persona, ma quella dello Stato d’origine non si è mai accorta che ne ha persa una.
Germania, Gran Bretagna e Svizzera sono le prime mete per gli italiani che vanno all’estero e, secondo l’Istat, negli ultimi anni hanno assorbito circa un terzo dei nostri migranti. Sono anche i Paesi con i dati di migliore qualità sugli afflussi di italiani. Anche se non cancella la sua vecchia residenza italiana, chi arriva in Germania, nel Regno Unito o in Svizzera deve registrarsi subito per poter ottenere il codice fiscale, l’assistenza sociale o il medico di famiglia. E i numeri sugli immigrati italiani in mano alle amministrazioni di Berlino, Londra e Berna sono in media tre volte e mezzo più alti di quelli che registra l’Italia (vedi grafico). La Germania è il caso più estremo: secondo l’Istat sono poco più di 17 mila le persone trasferitesi verso la Repubblica federale nel 2014, ma l’omologa agenzia tedesca ne conta oltre quattro volte di più. Se tutti i migranti italiani si comportassero come quelli che vanno in Germania, in Svizzera e nel Regno Unito, l’anno scorso ne sarebbero usciti dal nostro Paese 435 mila. E se anche fossero stati più disciplinati nel segnalare il cambio di residenza, potrebbero facilmente essere stati il triplo dei 145 mila segnalati dall’Istat e dunque ben più dei 273 mila stranieri arrivati.
Ciò significa che l’Italia già oggi sta perdendo forse anche 300 mila residenti l’anno, se si conta anche il crollo della natalità rispetto ai decessi. Sarebbe una perdita di circa lo 0,3% del Prodotto interno lordo solo in consumi, in una sorta di spirale: la crisi spinge i lavoratori fuori dall’Italia, ma la loro uscita aggrava la crisi e ne spinge ancora altri verso la porta d’uscita. Non sono migranti con la valigia di cartone, la loro non è un’epopea di pane e cioccolato e la si avverte appena come un rumore di fondo in un Paese segnato dal dibattito sull’«invasione straniera». Intanto Livia Rodà resta con un dubbio che la logora: dovrebbe cancellare la sua residenza di Padova. «Ma mi sono data un altro anno di tempo», confessa. «Recidere i legami è delicato».

La Stampa 20.3.16
“Voglio i profughi a Barcellona ma Madrid lo impedisce”
La sindaca Colau: serve più solidarietà


«Vorremo accogliere i rifugiati, ma lo Stato spagnolo non ce lo consente». Ada Colau, sindaco di Barcellona da meno di un anno, è abituata a essere diretta, che si tratti di sfratti o di immigrazione, così «davanti alle scene inaccettabili dei profughi in fuga dalla guerra che rischiano la vita» ha scelto di aprire la propria città, sfidando il governo (in funzione) di Mariano Rajoy. Lo schema opposto a quello a cui siamo abituati: il governo che si impegna con l’Europa e gli enti locali che si tirano indietro per paura della reazione dei cittadini.
Gli abitanti di Barcellona approvano questa sua disponibilità?
«Non solo capiscono, ma mi chiedono sforzi ulteriori. Vedere i bambini morire in mare, mentre le mafie si arricchiscono, non è sopportabile per i nostri concittadini. Tanta gente qui spende le ferie per aiutare le Ong che operano in Grecia. Se la gente non capisse, non avrebbe votato una come me».
Sindaco, lei parla di «città rifugio», cosa vuol dire nella pratica?
«Che a Barcellona, come in altre città spagnole, siamo pronti ad accogliere in maniera ordinata le persone che scappano dalla guerra. Gli Stati sono lenti e pavidi, le città, al contrario, sono i luoghi dove le cose si risolvono in maniera concreta».
Misure concrete?
«Abbiamo ultimato un progetto pilota per ricevere cento persone che ora si trovano ad Atene in attesa di partire. Ovviamente non basta, ma anche questa piccolo gesto ci viene ostacolato dal governo spagnolo».
In che senso?
«Noi possiamo allestire tutte le strutture del caso, e lo abbiamo fatto. Dando più risorse per l’accoglienza e trovando un alloggio ai richiedenti asilo, ma nessuno può stabilirsi senza lo status giuridico, e quello lo deve dare lo Stato».
Gli Stati devono rispettare delle quote.
«Ecco, appunto. L’Europa ha stabilito che alla Spagna spettano oltre 17 mila persone. Sa quante ne sono state sistemate? Diciotto, a Bilbao».
Il tema però è complesso, come si accolgono i rifugiati?
«Ci sono tre fasi diverse. La prima assistenza, una collocazione equa, per non creare problemi nelle comunità che ospitano e per ultimo una politica di integrazione».
Ha fiducia nell’Europa?
«Noto che sta rinnegando i propri valori, l’Europa nasce come reazione alle atrocità della guerra e del nazismo, e ora scappa davanti al proprio compito. Qui non c’è solo un enorme problema etico, ma ce n’è anche uno giuridico: noi abbiamo degli obblighi in questo senso e non li stiamo rispettando».
L’accordo con la Turchia è sbagliato?
«È giusto avere un rapporto con la Turchia, ma la relazione deve essere onesta, non ipocrita. Il vero problema è la crisi di legittimità dell’Europa».
L’Italia si sta comportando bene?
«Non posso giudicare l’opera del vostro governo, dico solo che sono stata a Milano, la città dove tanti anni fa ho fatto l’Erasmus, e ho visto il mio stesso atteggiamento nel sindaco Pisapia. E ho conosciuto tanti milanesi disponibili ad aiutare».

La Stampa 20.3.16
Cinquanta studiosi al lavoro
In libreria il primo volume
Coordinati dal Miur e dal Cnr, curano l’inedita traduzione italiana
Uno dei monumenti religiosi dell’Ebraismo, 5422 pagine di testo
di Ariela Piattelli


Per la prima volta il Talmud Babilonese, opera fondamentale della tradizione ebraica, viene tradotto in italiano. Il 5 aprile all’Accademia dei Lincei a Roma, il primo volume sarà consegnato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla presenza del Ministro Giannini e del Rabbino israeliano Adin Steinsaltz, che ha tradotto il Talmud in ebraico moderno.
Dal 2011
Nel 2011 con la firma del protocollo d’intesa da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Miur, il Cnr, e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, prendeva il via il «Progetto di Traduzione del Talmud Babilonese», di cui il Rabbino Shmuel Riccardo Di Segni e Clelia Piperno (Direttore del Progetto) sono stati gli ideatori e i motori. Ci sono voluti cinque anni per dare alla luce il primo trattato in italiano, perché si tratta di un lavoro molto complesso: attualmente il team di 50 studiosi sta traducendo 13 trattati in contemporanea, e la road map prevede la traduzione di 2 o 3 volumi all’anno.
Il Talmud consiste in 5422 pagine di insegnamenti dei Maestri, a partire da oltre 2000 anni fa. Il testo, suddiviso in ordini e trattati, è diventato la fonte del diritto ebraico, ma anche di scienza, esegesi e storia. Il primo volume in italiano (pubblicato da La Giuntina) contiene il trattato di Rosh haShanà (Capodanno ebraico), ed è diviso in quattro capitoli. Ogni capitolo inizia con una Mishnà (Torà orale) alla quale segue la Ghemarà (commento). I temi centrali sono il calendario e il capodanno.
I capodanni
Nella tradizione ebraica ci sono quattro capodanni, e ognuno ha la sua funzione. Il trattato inizia con la descrizione e la discussione rabbinica sui capodanni, dedicando una parte significativa al più importante, quello di fine estate-autunnale, Rosh haShanà. Il calendario ebraico si basa principalmente sul ciclo lunare: l’anno solare è più lungo di quello lunare, e per evitare lo sfasamento di alcune festività, come Pesach (la Pasqua ebraica, legata alla primavera) dopo alcuni anni si aggiunge un mese, Adar Rishon (Primo Adar). Anticamente il Sinedrio, l’autorità centrale di Gerusalemme, raccoglieva e verificava le testimonianze di coloro che avvistavano la luna, per determinare l’inizio del mese.
Dio sovrano
Il Capodanno cade nel calendario il primo del mese di Tishrì, giorno al quale la tradizione attribuisce la creazione dell’uomo. La ricorrenza celebra la sovranità di Dio sul creato, e l’unità del genere umano. Rosh haShana è anche il Giorno del Giudizio, perché lo si celebra dedicandosi all’esame e alla riflessione sui comportamenti tenuti durante l’anno, pentendosi, invocando il perdono di Dio, e la Teshuvà (ritorno o risposta), atto di coscienza, di consapevolezza, volto a migliorare il futuro.
Così come Dio ha il potere di cominciare, l’uomo con la Teshuvà può ricominciare. Nel Talmud si legge «Disse rabbi Yochanan: Grande è l’efficacia della Teshuvà che annulla la sentenza negativa sull’uomo…».
Tra ricordo e futuro
Il trattato si concentra sul precetto principale di Rosh haShanà, il suono dello Shofar (corno di ariete) e se ne discutono le caratteristiche e i dettagli. Il suono del corno, che ricorda il sacrificio di Isacco, ripercorre la storia dell’uomo, gli errori e le azioni meritevoli. Il suono non si rivolge soltanto al passato, ma serve anche per ricordare come deve essere il futuro. A rappresentare le due dimensioni sono il suono iniziale e quello finale: entrambi diretti, lineari e continui, senza inflessioni, che simboleggiano la perfezione dell’atto della creazione e della redenzione messianica.

La Stampa 20.3.16
“La summa del pensiero ebraico finalmente disponibile a tutti”
Il rabbino Riccardo Di Segni: “Un progetto culturale grandioso reso possibile anche grazie all’intervento delle istituzioni dello Stato”
di Elena Loewenthal


In ebraico si chiama Torah she beal peh, «Torah che sta sulla bocca». Ma la tradizione orale dei figli d’Israele è un immenso corpus scritto, redatto lungo una catena di secoli. Il suo cuore è il Talmud, parola ricavata da una radice che significa «imparare» e «insegnare»: «ho imparato molto dai miei maestri», dice un rabbino, ma ho imparato di più dai miei allievi».
Di Talmud ne esistono due, uno di Gerusalemme e uno di Babilonia, che è quello per antonomasia, arrivato intorno al V-VI secolo nella sua forma attuale: 5422 pagine fitte. Summa di fede scritta in due lingue, ebraico e aramaico, il Talmud contiene prima di tutto materiale legale, ma non è estraneo a nessun campo dell’antico sapere, dall’astronomia alla medicina. La sua forma è quella del verbale di discussione, di un «domanda e risposta» che parte dal versetto biblico e procede all’infinito. Testo aperto per eccellenza, il Talmud si legge con un metodo non dissimile da quello della pagina web con i suoi rimandi, cioè i link, in un continuo cammino di interpretazione.
Il progetto della prima traduzione in italiano del Talmud è siglato in un protocollo di intesa fra Presidenza del Consiglio dei Ministri, Miur, Cnr e Unione delle Comunità Ebraiche Italiane il 20 gennaio del 2011.
Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità di Roma, medico e studioso, è il presidente del consiglio di Amministrazione nonché del comitato di coordinamento di questa opera davvero immensa.
Come è nato questo progetto, rav Di Segni?
«Quasi per caso. Mi sono detto: proviamo a proporre la traduzione del Talmud in italiano. Sotto sotto ero convinto che si trattasse di una missione impossibile. Ho avviato sondaggi informali, e mi sono reso conto che c’era un reale interesse da parte delle istituzioni dello stato. Questo sostegno è stato fondamentale. Così ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo messo su uno staff capace. Ora abbiamo una squadra di circa cinquanta studiosi fra traduttori esperti, traduttori in formazione, istruttori, redattori. E’ davvero una operazione enorme, ma anche innovativa. Abbiamo costruito un apparato di note e di schede illustrative fatto apposta per entrare in questo universo religioso, culturale, intellettuale».
Quale è stata la maggiore sfida traduttiva di un testo così antico, complesso?
«Malgrado la sua mole il Talmud è un testo terribilmente sintetico, ricco di termini tecnici, senza interpunzione. E’ tutto fatto di domande formulate in modo lapidario e di risposte altrettanto brevi: ogni frase va sciolta. Quasi una stenografia. Abbiamo fornito una traduzione parola per parola con una serie di inserimenti in neretto che danno corpo alla prosa. La traduzione è insomma una continua parafrasi, un commento al testo originario. Queste sono le difficoltà intrinseche del Talmud. Che si riflettono anche nella lingua di destinazione, ovviamente. Abbiamo anche dovuto “reinventare” l’italiano. Come ad esempio nell’espressione “uscire d’obbligo”, che ricorre frequentemente nel Talmud e che così abbiamo lasciato perché il suo senso è chiaro. Ma è una sorta di neologismo fraseologico, a ben guardare. E poi c’è naturalmente un ricco apparato di commento, approfondimenti, spiegazioni».
Questa traduzione del Talmud si avvale non soltanto della competenza di un folto gruppo di esperti – quasi un’evocazione di quei Settanta Saggi confinati ciascuno in un’isoletta diversa del delta del Nilo e impegnati alla traduzione in greco della Torah… E’ anche il frutto di una tecnologia al servizio di un mestiere molto antico, non è vero?
«Il finanziamento pubblico stanziato per quest’opera ha implicato il coinvolgimento di grandi strutture di ricerca, prime fra tutte il Cnr e l’Istituto di linguistica. Così è stato elaborato un software apposito. In parole povere, il traduttore non usa Word ma un sistema centralizzato che sulla base dei dati ricevuti suggerisce la traduzione, la resa in italiano di espressioni, frasi, modelli espressivi. Una resa che è naturalmente non casuale ma frutto di lavoro, di grande approfondimento. Dunque i nostri traduttori non sono affatto ognuno su un’isola deserta… c’è una comunicazione continua, un passaggio di esperienze di lavoro e scelte traduttive che diventa bagaglio lessicale. E’ davvero un metodo nuovo di lavoro, che posso immaginare verrà esportato in altri campi».
I rabbini, gli studiosi, i talmudisti conoscono e frequentano il Talmud nella sua versione originale? Qual è il destinatario di questa traduzione italiana, la prima a circa millecinquecento anni dalla redazione di questo testo?
«Il Talmud è un testo fondamentale per la cultura universale. È la summa del pensiero e della parola del popolo ebraico. Direi che questa traduzione si offre a diversi livelli di pubblico. Lo studente, il curioso, lo studioso. Se ho bisogno di leggere o consultare un passo della Patristica greca dispongo di traduzioni “storiche”, del corpus completo di questo patrimonio, vuoi in italiano vuoi in un’altra lingua moderna. Ho studiato il greco al liceo, ma non sono più in grado di affrontare questi testi nella loro lingua originale… Questo discorso vale non meno per il Talmud, che è un patrimonio universale di cui tutti devono poter disporre. E noi stiamo offrendo con questo testo non solo una traduzione accurata e moderna, ma anche un immenso thesaurus di sapere, di conoscenze ed esperienza intellettuale».

La Stampa 20.3.16
La stele di Rosetta elettronica che aiuta gli specialisti
Un software rivoluzionario potenzia l’analisi del testo e apre nuovi scenari sulla comprensione delle lingue ignote
di Gabriele Beccaria


Gli algoritmi del XXI secolo e di fronte un insieme di saperi che si sono sedimentati nei 20 secoli precedenti. Così Andrea Bozzi sintetizza la sfida, che Clelia Piperno descrive come una «navicella spaziale». Che, partita alla scoperta del Talmud, è diretta verso altri obiettivi futuri. Forse anche alla scoperta della lingua perduta di Gesù.
Bozzi è il responsabile scientifico del Progetto Talmud, Piperno il direttore. Hanno lavorato insieme a lungo e con loro un team di un centinaio di specialisti, dai traduttori agli informatici. Il risultato - spiegano adesso - è molto di più della traduzione in italiano degli antichi trattati contenuti nel Talmud Babilonese. «Siamo, infatti, davanti a un progetto di ricerca che ha al centro un nuovo sofware, chiamato “Traduco”», dice Bozzi, ex direttore dell’Istituto di Linguistica Computazionale «Antonio Zampolli» del Cnr. Quelli tradizionali non potevano funzionare con i termini e i contenuti di un corpus tanto labirintico. E allora i nuovi algoritmi hanno fatto la differenza. Modellati sulla linguistica e sulla filologia computazionali, hanno dato vita a uno strumento che si è rivelato «modulare, flessibile e incrementale».
Tutto questo significa molte cose: per esempio la possibilità di «creare indici di forme e lemmi che uniformano e velocizzano la traduzione». E poi la chance di riutilizzare l’applicazione per altre lingue e, ancora, quella di «agganciare altri moduli»: dai commenti alle immagini. Un work in progress, che «mette a disposizione degli studiosi una serie di potenzialità per indagini altrimenti impossibili».
«Già oggi, d’altra parte, è possibile inserire commenti a lemmi attestati in contesti specifici, soprattutto nei casi in cui compare una terminologia tecnica, dalla medicina alla farmacopea, fino alla giustizia. È una funzione - aggiunge Bozzi - che può essere espansa e codificata: così, in momenti successivi, arriveremo anche a tecniche di organizzazione semantica dei dati». Risultato: trasformare in realtà il sogno di esplorazioni concettuali. Esempio: «Sarà più facile individuare e confrontare i passi che trattano la cura di una determinata malattia, anche se le parole nei singoli contesti non sono le stesse».
Intanto, mentre procedeva la traduzione, si è accumulato un prezioso database, capace di consigliare gli specialisti. Ogni volta il sistema prevedeva diverse ipotesi di traduzione, con livelli crescenti di accuratezza, da zero a cinque stelle. Gli algoritmi che alimentano la «macchina» spalancano quindi scenari sempre più sofisticati, fino a forme di Intelligenza Artificiale per ricerche che vengono definite «navigazioni ontologiche».
Le navigazioni - sottolinea Piperno - riserveranno molte sorprese. Come quelle che scaturiranno dal software: simile a un’«opera aperta», potrebbe diventare uno strumento ideale per aiutare chi aggredisce i misteri di tante lingue antiche. Dall’etrusco a quella degli esseni. «È noto che Gesù apparteneva a questa setta, ma non sappiamo se l’esseno fosse un idioma vero e proprio o una forma di comunicazione criptica, per pochi eletti». Di certo, «Traduco» si trasforma in una nuova Stele di Rosetta digitale, l’equivalente della serie di iscrizioni che guidò Champollion nella decifrazione dei geroglifici. «Oggi Google non riesce a leggere le epigrafi latine, perché i suoi algoritmi non distinguono la u dalla v. Presto, invece, potremo leggerle in tempo reale: con l’app dello smartphone».

La Stampa 20.3.16
“C’è un drago che soffoca i musei italiani”
Direttore della Pinacoteca di Brera
intervista di Alain Elkann


James Bradburne, lei è direttore generale della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca nazionale Braidense a Milano ed è tra i 20 nuovi direttori per i 20 maggiori musei italiani nominati dal ministro della Cultura, Dario Franceschini.
«Sì. Il ministro ha nominato sette direttori di primo livello per i musei di Brera a Milano, gli Uffizi di Firenze, l’Accademia a Venezia, la Galleria Borghese a Roma, Capodimonte a Napoli, la Reggia di Caserta e la Galleria d’Arte Moderna a Roma. E anche altri 13 di secondo livello. I direttori di primo livello rispondono direttamente al segretario generale e quindi al ministro».
Lei arriva da Palazzo Strozzi a Firenze?
«Sì. C’è stato un concorso internazionale nel 2015. Si sono iscritti in 1200, tra cui 86 non-italiani, e tra questi il ministro ha creato una lista di 10 candidati per ogni museo. Abbiamo avuto un colloquio. Io sono stato scelto per Brera».
Come mai?
«Quando arrivai a Firenze nel 2006 da Francoforte, dopo anni di lavoro con colleghi italiani, mi dissero: è facile fare quello che hai fatto tu ad Amsterdam o in Germania, ma in Italia non c’è speranza».
E così?
«Dopo aver vinto la competizione per dirigere Palazzo Strozzi fui fortunato, perché era una delle prime fondazioni autonome a capitale misto dove era possibile creare mostre innovative del più alto livello. E così fu fatto. Nel 2014 “Pontormo e Rosso Fiorentino” fu dichiarata la migliore mostra dell’anno nel mondo dall’Apollo Magazine e nel 2015 “Potere e Pathos” vinse al Global Fine Arts Awards».
Perché Brera?
«I miei colleghi dicevano che non sarei riuscito a realizzare in un museo di Stato quello che avevo fatto a Venezia e che era inutile provarci».
E così?
«Voglio dimostrare che i musei italiani valgono quanto qualsiasi altro al mondo. Non solo per le collezioni ma anche nell’esperienza del visitatore».
Qual è la realtà di Brera e perché è così poco nota?
«In parte perché Milano non è nota come una città d’arte. È una città contemporanea, conosciuta per le fiere, il design, l’arredamento, la moda, la finanza. A parte “L’ultima cena” di Leonardo da Vinci non è famosa per l’arte. Brera, un tempo, era la sede dei Gesuiti e all’epoca di Maria Teresa d’Austria fu creata la Libreria Braidense con una straordinaria collezione a partire dal XII secolo. Proprio accanto ci sono l’Orto Botanico e l’Osservatorio Astronomico, che fu allestito tra il 1770 e il 1790, e abbiamo anche una delle più importanti accademie artistiche in Italia, dove ha studiato, ad esempio, Vanessa Beecroft».
E la Pinacoteca?
«Quando Napoleone era a Milano, nel 1808, ribattezzò Brera Palazzo Reale delle Scienze e delle Arti e voleva fare della Pinacoteca il Louvre italiano».
Cos’ha di particolare la raccolta?
«La Pinacoteca nasce per le esigenze dell’accademia d’arte e diventa un’istruzione indipendente solo a fine Ottocento».
Quali sono i capolavori di Brera?
«Ce ne sono tantissimi. Ad esempio lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, acquisito nel 1806. Nel 1837 lo vide Franz Liszt e gli ispirò i famosi Anni di Pellegrinaggio. E poi il Cristo Morto di Mantegna, Caravaggio con La Cena di Emmaus. E, ancora, opere di Tintoretto, Bellini, Tiziano, Veronese. L’ex sovrintendente di Brera, Franco Russoli, che morì nel 1977 a soli 54 anni, era un grande estimatore dell’arte moderna italiana e unì due importanti collezioni: Jesi e Vitali. Fu lui a organizzare la prima mostra italiana di Picasso in Italia nel 1953. Russoli era un po’ come Brera: rivoluzionario, ma non abbastanza noto nel mondo».
Quanti visitatori ha Brera?
«Circa 300 mila l’anno, ma mi aspetto di raddoppiarli».
Ha in mente nuovi allestimenti?
«Per i primi tre anni intendiamo reinstallare progressivamente tutte le 38 stanze del museo a gruppi di cinque e stiamo allestendo il nostro primo “Dialogo” tra Perugino e lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, mai visti insieme prima d’ora. Il secondo “Dialogo” sarà tra il Cristo morto di Mantegna e l’opera omonima di Annibale Carracci».
A distanza di pochi mesi dall’inizio che bilancio fa di questa esperienza?
«Non sono scoraggiato. Ma è molto più difficile di quanto immaginassi. È davvero molto arduo cambiare i musei statali in Italia».
Perché?
«Perché anche con la nuova autonomia rimane forte una burocrazia sovietica di tipo verticistico che tende a stroncare ogni iniziativa. Se una cosa semplice, come prestare un oggetto a un altro museo, richiede 20 firme di 20 diverse persone, beh questo, chiaramente, è un disincentivo. Per fortuna le riforme del ministro Franceschini stanno sfoltendo la burocrazia».
Cosa ha impedito all’Italia di esprimere il potenziale dei suoi musei?
«La burocrazia superflua, appunto, e la mancanza di piena autonomia. Russoli scrisse un saggio, intitolato “In trecento contro i draghi”. Ma credo che possiamo sconfiggere il drago».
Cosa intende cambiare?
«Abbiamo due missioni. La prima è riportare Brera nel cuore di Milano e la seconda riportare i visitatori nel cuore del museo».
Traduzione di Carla Reschia

Corriere 20. 3.16
Quando i califfi appoggiavano i cristiani del Medio Oriente
Il contributo dei cristiani arabi a scienze e cultura è possibile solo in presenza di regimi aperti all’alterità. Ma oggi viviamo i frutti della decennale propaganda dei fanatici
di Samir Khalil Samir

qui

Corriere La Lettura 20.3.16
Un solo cervello ma sguardi infiniti
Umanisti L’ultimo libro di Oliver Sacks, scomparso il 30 agosto dell’anno scorso, passa in rassegna una serie di disfunzioni e malattie neurologiche che, insieme, restituiscono una riflessione articolata sulla realtà e la percezione. Ogni sensazione sta in rapporto con altre sensazioni
di Pietro Citati


Oliver Sacks, di cui la casa editrice Adelphi pubblica un bellissimo libro, L’occhio della mente, è una delle persone più curiose che siano mai esistite. La realtà lo incanta, lo affascina, lo diverte: quanto più è diversa, strana, contraddittoria, multiforme. Nel cuore della realtà esiste qualcosa di vertiginoso: il cervello. In tutti i suoi ricchissimi libri, e specialmente negli ultimi, Sacks ha studiato le molteplici connessioni e interazioni di una parte del cervello con tutte le altre, e la loro adattabilità. Esso si può paragonare a un’orchestra enormemente complicata, formata da migliaia o decine di migliaia di strumenti: inutile cercare un direttore; l’orchestra si dirige da sola, seguendo un repertorio e una partitura in continuo cambiamento.
La vita del cervello dipende da malattie interdipendenti, che Sacks (1933-2015), nei suoi primi libri, studiava dal punto di vista di un uomo sano. Ora, ne L’ occhio della mente , egli è invece un malato che studia altri malati, rivalutando la malattia e le sue risorse. Dopo aver letto il libro, il mondo diventa immensamente più ricco e più vario: la malattia ha un fortissimo aspetto creativo. Sacks aveva sempre avuto difficoltà a riconoscere i volti e gli oggetti.
Quando era adolescente, non riusciva a individuare i suoi compagni di scuola. Se faceva una passeggiata, doveva ripetere sempre lo stesso percorso, sapendo che se se ne fosse distaccato anche di poco, si sarebbe irrimediabilmente perduto. Anche a settantasei anni, ha lo stesso problema: a volte, non sa riconoscere un uomo col quale aveva parlato pochi minuti prima. La malattia di Sacks ha un nome scientifico: prosopagnosia. I malati di questa malattia sono spesso incapaci di individuare il marito o la moglie o i figli. Uno studioso descrive un uomo «che non riesce nemmeno a ricordare la propria faccia». Oppure un uomo che vede benissimo gli occhi, il naso e la bocca di un altro uomo, ma non sa metterli insieme ed accordarli: vede le singole parti degli oggetti, senza riconoscerli.
Chi guarda possiede di solito un dono: la stereoscopia: i due occhi permettono di vedere il mondo in rilievo e in profondità; ma il dieci per cento degli esseri umani manca del tutto o in parte di questo dono. Qualche volta, un malato acquista la visione stereoscopica che non possedeva: all’improvviso, possiede un senso in più; è una specie di assoluta rivelazione. O, al contrario, egli perde la stereoscopia: allora il suo mondo visivo si appiattisce; non scorge i gradini di una scala, tanto che scenderla diventa per lui una esperienza quasi terrificante. La stereoscopia resta viva nei sogni, dove il mondo torna ad avere profondità e rilievo.
Questa incapacità di riconoscere trasforma il mondo in una selva mostruosa. Una pianista, Lillian Kallir, doveva eseguire il Concerto n. 22 di Mozart, che aveva suonato decine di volte. Quando esaminò la partitura, un giorno del 1991, la trovò totalmente inintelligibile. Sebbene vedesse, chiari e ben definiti, pentagramma, linee e singole note, nulla le pareva coerente o dotato di una minima logica. Col tempo le cose peggiorarono. Quando compiva tournée in giro per il mondo, doveva far sempre più affidamento sulla memoria, giacché ormai le era impossibile imparare nuovi brani leggendo le partiture. Cominciò ad avere difficoltà con le parole. C’erano giorni buoni e meno buoni: sulle prime, una frase poteva sembrarle strana e inintelligibile; e poi, all’improvviso, tutto si schiariva, e non aveva difficoltà a leggere. La capacità di scrivere era rimasta invece assolutamente integra. Era divisa: sapeva scrivere ma non leggere.
Lo stesso capitò a uno scrittore di gialli, Howard Engel. Una mattina del gennaio 2002, si alzò dal letto. Si sentiva benissimo: si vestì, fece colazione, ritirò il giornale davanti alla porta di casa. Ma non riuscì a leggerlo. Le lettere erano le solite ventisei: solo che, quando le metteva a fuoco, sembrava ora cirillico, ora coreano.
Nel dicembre 2005, un esame scoprì che Sacks aveva un tumore maligno all’occhio destro. L’oculista, David Abramson, lo sottopose a radiazioni. Sacks si svegliò come da un incubo. Nel momento in cui aprì l’occhio destro, scoprì che il mondo era trasformato. L’Oscurità aveva guadagnato terreno — adesso, a sinistra, intravide a malapena qualcosa. Sapeva che l’oculista era eccellente: era nelle migliori mani possibili; ma, dentro di sé, si sentiva un bambino terrorizzato, un bambino che chiedeva aiuto gridando: «Morirò di melanoma?».
Questo pensiero stava sempre fisso nella sua mente. Qualche giorno dopo, l’Oscurità era ancora avanzata, circondando la sua piccola isola visiva. Con il solo occhio destro non riusciva a leggere: le righe erano indistinte, sfuggenti, grossolanamente distorte; oscillavano da un momento all’altro. Poi non poté più leggere nemmeno i titoli cubitali del «New York Times». A malapena vedeva il cielo: guardando il centro del ventilatore nel soffitto della sua stanza, scoprì che tre delle cinque pale erano invisibili al suo occhio destro. L’idea della cecità completa lo terrorizzava.
Durante l’operazione all’occhio, Sacks scivolò in un’incoscienza più profonda del sonno più profondo. Quando si svegliò, era loquace, leggermente euforico, insolitamente gioviale e socievole, e continuava a chiacchierare con tutte le infermiere. A distanza di sei ore, disteso a letto, vedeva di tanto in tanto piccole luci, scintillii dell’occhio destro. Se guardava solo con l’occhio sinistro, non aveva alcuna percezione della profondità e della distanza delle cose: era un assaggio di quello che sarebbe accaduto se avesse perso la visione centrale dell’occhio destro. Poi subì un improvviso, violentissimo dolore all’occhio: scorse un tumulto di forme violacee raggianti — stelle marine, margherite, che si espandevano verso l’esterno da una moltitudine di punti separati. Tutto era instabile: egli guardava attraverso una moltitudine fluida in movimento. Ogni forma era mobile e distorta. Sentiva che sul suo occhio destro era calata, molto più velocemente di quanto attendesse, qualcosa di molto simile alla cecità. Ma non poteva sopportare di diventare cieco. Viveva in un mondo di parole. Aveva bisogno di leggere: gran parte della sua vita era fatta di lettura. Ora, questo mondo gli sarebbe stato interdetto quasi completamente.
Nell’aprile 2007, le distorsioni all’occhio sinistro erano divenute estreme: ciò comprometteva la visione anche quando aveva entrambi gli occhi aperti. Gli esseri umani si trasformavano davanti a lui in bizzarre figure allungate: personaggi di El Greco, tutti inclinati a sinistra. L’acume visivo dell’occhio destro precipitò a tre decimi. Non riusciva a leggere nemmeno le lettere più grandi sullo schermo. La vista era talmente diminuita, ed era così distorta, che Sacks cominciò a chiedersi se non avrebbe vissuto meglio senza residui di visione centrale all’occhio destro.
Fu di nuovo operato. Quando tolse la fasciatura, un’enorme opacità nera gli oscurava in parte la visione centrale. Quando andò davanti allo specchio del bagno, con l’occhio destro non vedeva la propria testa, ma soltanto le spalle e la parte inferiore del busto. Se scriveva, non vedeva la parte inferiore della penna. Quando uscì di casa, scorgeva soltanto le gambe dei passanti. Perse la stereoscopia. Il suo mondo visivo si appiattì: era una sensazione detestabile. Attraversare le strade, salire e scendere le scale — tutte operazioni che prima non richiedevano alcuna attenzione consapevole — gli imposero di essere previdente ogni minuto. La mattina si svegliava in un mondo caotico, dove tutto era sottosopra, ridotto a una piatta confusione.
L’ultimo saggio del libro è il più bello. Sacks racconta le avventure di un individuo privato di una singola forma di percezione: egli si riplasma completamente attorno a un nuovo centro, conquistando una nuova identità. In coloro, per esempio, che sono nati ciechi, le parti visive del cervello non degenerano: rimangono attive, elaborando funzioni visive, olfattive, uditive o tattili. Esiste una categoria di ciechi visualizzatori, che posseggono una prodigiosa capacità di immaginazione legata ad altri sensi; e diventano addirittura molto più sensibili alle emozioni degli altri. Dunque non possiamo affermare la natura esclusivamente visiva, uditiva, tattile od olfattiva di nessuna nostra percezione. Le diverse aree di quella meravigliosa orchestra di sensazioni che è il cervello, sono interconnesse. Ogni minima sensazione sta in rapporto con tutte le altre sensazioni. La nostra mente è un Uno.

Corriere La Lettura 20.3.16
Come suona la matematica di Bach
L’autore dell’«Arte della fuga» inseguiva nelle sue opere la «perfezione per compiutezza» e un’armonia che fosse specchio dell’ordine divino
di Gian Mario Benzing


Il 14, il 158, il 213. Numeri «magici» nella musica di Johann Sebastian Bach. Se alle lettere dell’alfabeto si fanno corrispondere cifre in sequenza (A=1, B=2 e così via), dal nome «Bach» risulta 2-1-3-8, cifre che addizionate danno 14. Da «Johannsebastianbach» si ottiene 158, sommando ancora si ha di nuovo 14. Non stiamo scoprendo nulla: un recente saggio, Bach’s Numbers. Compositional proportion and significance di Ruth Tatlow, già autrice di Bach and the riddle of the number alphabet , riapre però la via numerologica alla comprensione dei meandri bachiani con un compendio teorico e pratico, nuovi dati, aggregati e disaggregati, chiare tabelle, buoni indici; e un’utile antologia di passi desunti dalla trattatistica filosofica, teologica e musicale dell’epoca, con testo tedesco a fronte.
Tatlow ci mostra come, in molte opere di Bach, il numero delle battute complessive (o per blocchi) rispecchi o proporzioni fisse o quei numeri «significativi». Per esempio: la Passione secondo Matteo , considerati anche i «da capo», consta di 2.800 battute, multiplo di 14. A 2.130 battute assommano le tre Messe luterane BWV 236, 235 e 233. Di 3.120 battute (inversione di 213) sono, sommate, la I e la II parte della Clavier-Übung (Partite BWV 825-830 più il Concerto italiano e l’ Ouverture francese BWV 831). E così via: il grafico di questa pagina illustra vari casi.
Matematica e bellezza. Davanti alla musica di Bach è facile avvertire, con l’immensità, con l’emozione, anche il mistero di una costruzione logica di straordinaria profondità, dove si fondono fede e danza, algebra e potenza comunicativa. Viene voglia sempre di scoprire come «funzioni» questa musica, da quali meccanismi sia generata. Il 21 marzo è il compleanno di Johann Sebastian: il vecchio Kantor compie 331 eterne primavere ed è più vivo che mai. Per chi ha voglia di avventurarsi nei circuiti logici del suo genio, l’analisi della Tatlow, pur riguardando solo un aspetto quantitativo «esteriore» (di ben più ardua formulazione sarebbero gli algoritmi armonici e contrappuntistici tipici del compositore), tocca nel vivo i presupposti estetici, teologici e pitagorici della concezione bachiana: la Vollkommenheit , perfezione per compiutezza; e l’ Harmonie , quella che la retorica chiamerebbe concinnitas , armonia delle proporzioni, qui specchio dell’ordine divino.
Simmetrie, architetture simboliche. Nell’uso tedesco, le note musicali sono indicate da lettere dell’alfabeto: dal nome Bach nasce quindi già un tema musicale — si bemolle, la, do e si naturale — che, come il Kantor , molti poi useranno, in suo omaggio. Se le osservate sul pentagramma, unendo i due si e poi il la con il do, queste note compongono come una croce di sant’Andrea. Fra loro, le note poi sono a distanza di uno, tre, e ancora un semitono, cioè 1-3-1: sequenza pregnante, poiché l’1 rinvia all’Unico Dio, il 3 alla Trinità. Nella sequenza 2-1-3 e relative permutazioni, appaiono il nome Bac e la sua data di nascita (21.3). Se all’interno delle Sonate e Partite per violino solo si selezionano quelle nelle tonalità di B, A e C (si bemolle, la e do), si contano 1.328 battute totali (dove la serie 1-3-2-8 corrisponde alle lettere A-C-B-H, permutazione di Bach). Oltre alla scansione ternaria (trinitaria?), ogni brano delle Variazioni Goldberg (sequenza di 2 Variazioni e un Canone) è multiplo di 16 battute. Beninteso: nei suoi calcoli, Tatlow giostra agilmente tra autografi e stampe, congetture (per l’ Arte della Fuga ) e vari stadi di avanzamento lavori. La seconda parte della Messa in si minore , ad esempio, consta di 1.400 battute esatte solo se viene considerato il Crucifixus di 49 battute, prima, cioè, dell’aggiunta dell’ Et incarnatus , che per noi oggi porta la somma a 1.453.
«Il fatto di isolare uno o due schemi strutturali evidenti corre il rischio di dare a ognuno un significato sproporzionato, come se fosse questo l’aspetto più importante della musica»: così scrive John Eliot Gardiner, direttore d’orchestra e bachiano di lungo corso, nel suo La musica nel castello del cielo, recente «ritratto» di Johann Sebastian, parlando di certe simmetrie nella Passione secondo Giovanni. L’abbiamo estrapolata, ma la sua sembra un po’ una risposta a tutto il vasto filone delle speculazioni numerologiche. «Muoviamo piccoli passi, tentando di svelare ciò che per sua natura è un processo misterioso, imperscrutabile», continua Gardiner. Il suo saggio (con qualche svista di tedesco e analisi armoniche non proprio trasparenti) delinea il contesto culturale, la tradizione familiare, il milieu culturale, gli antagonisti, le controversie, il carattere dell’uomo Bach. E quando ci parla di singole opere unisce la dottrina all’esperienza viva, all’ardore dell’interprete. Gardiner indaga anche il metodo di lavoro di Bach, il rapporto tra l’ inventio («la capacità di trovare il germe o la scintilla creativa che avrebbero determinato il contenuto di un brano») e l’ elaboratio , trionfo di sapienza. E qui le due visioni, numerica e storico-musicale, trovano forse un punto di contatto. Scrive Gardiner: «La sua conoscenza dell’armonia era così profonda da essere praticamente matematica a tutti gli effetti».

Corriere La Lettura 20.3.16
I diritti calpestati
La notte delle spose fanciulle non vede la luce del giorno
di Farian Sabahi

«Quando i sauditi hanno iniziato a bombardare Sana’a stavamo lavorando a un progetto di legge per vietare il matrimonio delle bambine ma, giorno dopo giorno, la guerra ha preso il sopravvento mettendo in secondo piano i diritti delle donne e dei minori». Cinquant’anni, la regista yemenita Khadija al-Salami vive a Parigi. Nel 2014 era rientrata in Yemen per girare il film Mi chiamo Nojoom, ho 10 anni e voglio il divorzio . Racconta la storia (vera) di una sposa bambina che nel 2008 riesce a convincere il giudice a sciogliere il matrimonio, avvenuto tre settimane prima, con un uomo di trent’anni che aveva pagato una somma di denaro per averla. Per tutti si tratta di un accordo legittimo e soddisfacente, tranne che per Nojoom che vedrà presto la sua vita volgere al peggio.
«In un Paese in cui il 65 per cento degli uomini e il 75 per cento delle donne non sa leggere né scrivere, le immagini hanno il potere di rompere le barriere dell’analfabetismo: per questo il mio lungometraggio avrebbe potuto convincere a promulgare la legge per vietare il matrimonio prima dei diciotto anni, un fenomeno che — nel mondo — colpisce 13 bambine ogni 30 secondi», aggiunge la regista. Previste per marzo 2015 in diverse città yemenite, le proiezioni del suo film sono state però annullate a causa dei bombardamenti.
Già lo sapete, il 26 marzo ricorre il primo anniversario della guerra che in Yemen ha causato oltre seimila morti (la metà sono civili) e 2,4 milioni di sfollati. Nove Paesi guidati dall’Arabia Saudita bombardano lo Yemen con la complicità di un certo Occidente (tra i primi gli Stati Uniti) che continua a vendere armi alle monarchie arabe del Golfo in cambio di petrodollari. Non esitano a colpire i quartieri residenziali, gli ospedali, le scuole. Compreso l’asilo al-Shaila della Yemeni Women Association finanziata dall’Abi (l’Associazione bancaria italiana), fatto esplodere causando la morte di venti bambini. Bombardamenti che prendono di mira i civili. Crimini di guerra.
In Yemen il 52 per cento delle ragazze viene fatta sposare prima dei 18 anni e il 14 per cento prima dei quindici. Soltanto il 27 per cento delle donne in età fertile ha accesso a contraccettivi, solo il 35 per cento partorisce con l’aiuto di un’ostetrica e in media ognuna ha quattro figli. La storia di Nojoom, protagonista del film mostrato alle Nazioni Unite e presto anche nelle sale italiane (a fine aprile), è anche quella di Khadija: «La mia famiglia mi ha dato sposa quando avevo otto anni, autorizzando quello che si rivelò uno stupro. Mia madre aveva vissuto lo stesso trauma, ma non aveva gli strumenti culturali per impedire che quell’orrore fosse rivissuto dalla figlia. Tentai di chiedere aiuto alla nonna ma, per quanto mi amasse, fu irremovibile: il destino di una donna è sposarsi, oppure finire sottoterra!».
A undici anni Khadija al-Salami divorzia, si iscrive a scuola e intanto lavora in una televisione yemenita, dove conduce un programma per bambini. Con lo stipendio mantiene la madre (divorziata). Dopo qualche anno vince una borsa di studio e si trasferisce negli Stati Uniti per frequentare il liceo. I diritti delle bambine sono diventati la sua battaglia ma, affinché sia promulgata la legge per vietare i matrimoni precoci, bisognerà aspettare la fine della guerra. Intanto il film è andato in onda su un canale satellitare in arabo, lo avranno visto in tanti.
Ad avanzare la proposta di legge che avrebbe vietato il matrimonio al di sotto dei diciotto anni era stato il governo transitorio nell’aprile 2014, dopo la primavera yemenita che aveva portato al passaggio di poteri dal presidente Ali Abdullah Saleh (accusato di corruzione, a quell’epoca sostenuto dai sauditi mentre oggi è alleato degli houthi) al suo vice Hadi Mansour (oggi è quest’ultimo a godere del sostegno di Riad). Le altre proposte, in linea con le convenzioni internazionali ma in stand-by a causa del conflitto, riguardavano il diritto della divorziata a mantenere l’abitazione dove vive con i figli, l’istruzione e le cure sanitarie, il diritto delle donne a occupare il 30 per cento delle cariche istituzionali e la norma che considera reato la violenza domestica. Proposte di cui si era fatta portavoce anche l’attivista Tawakkol Karman, vincitrice nel 2011 del premio Nobel per la pace.
Trentasette anni, membro del partito al-Islah (declinazione yemenita dei Fratelli musulmani), alla domanda se avessero previsto di abolire la poligamia risponde: «Le priorità sono altre». Perché in un Paese povero come lo Yemen a permettersi una seconda moglie sono pochi benestanti, laureati a Londra e Manchester. Alla povertà si è aggiunta la guerra: bisognerà aspettare la fine dei bombardamenti prima di riparlare dei diritti delle bambine che muoiono dissanguate per le ferite interne dopo la prima notte di nozze.

Repubblica Cult 20.3.16
Il carteggio.
Il fisico Wolfgang Pauli fu in cura da Carl Gustav Jung. Con il quale scambiò lunghe lettere. Tema: trovare una base scientifica dell’attività psichica
Un premio Nobel sul lettino dell’analista
di Moreno Montanari


Il carteggio tra il premio Nobel per la fisica Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung testimonia l’originale e pregevole sforzo di ricercare «una base concettuale unitaria per la comprensione scientifica dello psichico come del fisico». L’incontro tra i due, tuttavia, non avvenne per questioni scientifiche: nel 1930 il padre di Pauli, collega universitario di Jung, gli chiese di prendere in cura il figlio che a soli trent’anni era già un’autorità nel campo della fisica quantistica ma era anche una persona depressa e con scatti d’ira che l’avevano ripetutamente portato ad offrire un pessimo spettacolo di sé nei bar di Zurigo, la città dove insegnava fisica teorica. Jung accettò e fu subito colpito dai sogni del suo paziente che mostrano un inconscio «stracolmo di materiale arcaico» che sembrava confermare la sua teoria degli archetipi collettivi alla quale stava lavorando proprio in quegli anni.
Fu un caso fortunato o una sincronicità? Jung era smanioso di sapere se quest’ultimo concetto, l’ipotesi di una relazione acausale, sul piano fisico e psichico, tra eventi apparentemente fortuiti e indipendenti che tuttavia l’individuo avverte come connessi e fortemente significativi sul piano esistenziale, avesse riscontro nella fisica quantistica e trovò in Puali la conferma. C’era una significativa somiglianza «ai diversi tipi di forme acausali olistiche presenti in natura e alle condizioni che accompagnano il loro attuarsi», disvelate proprio da questa nuova frontiera della fisica. Per non rischiare di influenzare il giudizio e l’attività onirica del suo paziente, Jung decise di inviarlo a una collega donna alla quale chiese di trascrivere e consegnargli i sogni del paziente che utilizzerà poi per il suo libro
Alchimia e psicologia. Fu solo quando l’analista di Pauli si trasferì a Berlino che questi chiese e ottenne di proseguire, per due anni, l’analisi con Jung dalla quale nascerà un carteggio certo difficile (curato da Antonio Sparzani per Moretti & Vitali), ma fecondo per entrambi. Lo psicoanalista ne ricavò intuizioni capaci di dare al suo pensiero «un cuore nuovo » — la metafora del Sé come un «nucleo raddiattivo ». L’idea dell’archetipo come «probabilità dell’accadere psichico» favorita dalla spiegazione che «nella fisica quantistica l’archetipo va ricercato nel concetto di probabilità (matematica), cioè nella concordanza di fatto tra il risultato atteso, calcolato con l’aiuto di questo concetto, e le frequenze misurate empiricamente». L’invito a estendere la psicoanalisi ben oltre la sfera clinica. Pauli, da parte sua, beneficiò enormemente di una rinnovata attività onirica costellata anche da «sogni di Fisica» - riportati nel testo - che contenevano importanti intuizioni la cui elaborazione si rivelerà decisiva per la formulazione delle sue teorie successive che gli valsero, nel 1945, il Nobel per la fisica.
ILLUSTRAZIONE DI ANNA GODEASSI JUNG E PAULI a cura di Antonio Sparzani
MORETTI&VITALI TRAD. DI G. DRAGO PAGG. 408 EURO 30

Il Sole Domenica 20.3.16
Tremila anni di Mare Nostrum
La storia delle città mediterranee come «hub» politici, commerciali e culturali. Un intreccio millenario per farci capire come sarà il nostro avvenire

di David Abulafia 

Gli storici hanno cercato di definire il Mediterraneo in svariati modi e il punto di partenza solitamente è l’opera di Fernand Braudel. Il grande storico francese pensava non solo a un mare ma al mondo che si stendeva ben oltre le sue rive e comprendeva tutte le aree che in un modo o nell’altro interagivano con il Mar Mediterraneo. Il Mediterraneo è infatti chiaramente un’entità fisica, uno spazio per ovvie ragioni disabitato (se si eccettuano le molte isole che possono fungere da ponte fra una costa e l’altra), che tuttavia per secoli è stato attraversato di continuo dagli esseri umani, e lo è tutt’ora.
Il Mediterraneo rappresenta meno dell’1% della superficie marina del globo ma la sua importanza storica è sproporzionata rispetto alle sue dimensioni fisiche. D’altra parte, il fatto di essere uno spazio relativamente esiguo (almeno su scala mondiale) ha reso agevole mantenere i contatti fra una sponda e altra, e la navigazione è stata possibile per tutto l’anno già nell’antichità. Così, nonostante le numerose storie di naufragi tramandate dal periodo classico, dall’epoca medievale ma anche in epoca moderna, le località che sorgono lungo le rive del Mediterraneo hanno sempre potuto intrattenere fra loro relazioni molto intense e regolari.
Le città sulle sue sponde sono sempre state i cruciali punti di contatto di un andirivieni incessante iniziato sin dall’Età del Bronzo, quantomeno nella sua regione orientale. All’incirca dal 1.000 a.C. possiamo considerare quest’area uno spazio integrato che si espande gradualmente fino ad abbracciare l’intero bacino, le cui acque vengono solcate non solo da mercanti, ma da profughi, da schiavi e da persone di ogni genere.
Un’altra peculiarità evidente dall’epoca dei primi navigatori (i fenici, i greci, gli etruschi) è l’enorme varietà di condizioni fisiche e di risorse naturali presenti lungo le coste mediterranee. Abbiamo così il ferro nell’Isola d’Elba, il rame a Cipro, il grano nel Nord Africa (dove Cartagine governava su terreni coltivati che si estendevano fino all’attuale Tunisia, e dove era cruciale il controllo del Delta del Nilo), come anche la fertilità della Sicilia. Fin dal passato più remoto tutte queste microeconomie interagivano le une con le altre a mano a mano che sorgevano non solo città sempre più grandi e bisognose di cibo, ma anche imperi presso le cui corti abbondavano i beni di lusso. Ad esempio, durante la guerra fra le città-stato greche e l’Impero Persiano nel 5° e 6° secolo a.C., i mercanti fenici vendevano merci di ogni genere alla maggior parte dei popoli coinvolti in quel vasto conflitto. Le testimonianze di questa interazione – soprattutto commerciale, anche nelle fasi di conflitto o tensione – sono numerose anche nei periodi successivi; per esempio nel 13° secolo si formò un importante insediamento dei Genovesi nel centro di Tunisi, dove gli italiani vivevano protetti da privilegi e garanzie speciali.
Fin dall’Alto Medio Evo, poi, emerge un’ulteriore caratteristica del Mediterraneo che ci è ben nota: è la regione dove convivono fin dai loro inizi le tre religioni abramitiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islam), plasmando la storia dell’intera area. Nel corso dei secoli i confini delle rispettive aree di influenza sono stati tracciati e spostati diverse volte. E ciò ha avuto effetti anche politici, per cui il Mediterraneo è diventato un mare “diviso” e non è stato più possibile ricreare ciò che avevano creato i Romani: un Mediterraneo politicamente unificato. Nonostante le molte fratture, l’interazione fra le diverse sponde del mare non ha quasi mai perso intensità: i musulmani non amavano mandare le loro navi a commerciare nei paesi cristiani, ma gli ebrei viaggiavano avanti e indietro, molti di loro parlavano arabo ed erano capaci di vivere in maniera molto pacifica in città come Barcellona o Algeri, proprio come facevano i mercanti cristiani (soprattutto genovesi, pisani e veneziani, ma anche catalani). Per tutto il Medio Evo, fino agli albori dell’Era Moderna, nonostante la proibizione papale al commercio con i musulmani, capitava spesso che i mercanti cristiani vendessero loro armi e al tempo stesso rifornissero gli eserciti europei o addirittura contribuissero in prima persona all’assedio delle città costiere. Ad esempio, nel 12° secolo diverse città nordafricane come Ceuta erano importantissime fonti per il commercio dell’oro che le carovane portavano attraverso il Sahara, ragione per cui esisteva un forte interesse reciproco a mantenere sempre aperte le vie commerciali.
Nel corso dei secoli è sempre esistito uno stretto rapporto fra l’Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo, legato soprattutto al commercio delle spezie. I mercanti potevano arrivare al Mar Rosso e poi, raggiunto il Nilo, risalirlo fino al Cairo e ad Alessandria; altrimenti potevano risalire il Golfo Persico per poi raggiungere, via terra, città come Damasco e Aleppo. A Ostia (il porto di Roma) c’erano magazzini grandi come interi caseggiati pieni solo di pepe, un prodotto che arrivava grazie a un viaggio lunghissimo. I carichi di zenzero provenivano dall’India o da luoghi ancora più remoti come l’Indonesia e la Malesia. Ecco perché non possiamo pensare al Mediterraneo senza considerare il suo rapporto con altri mari e in particolare con l’Oceano Indiano, almeno fino al 15° secolo quando il mondo cambiò a seguito delle grandi scoperte e dall’ascesa del commercio atlantico.
La grande trasformazione che si realizzò dal 16° secolo, con l’apertura delle rotte transoceaniche per raggiungere l’America e la circumnavigazione dell’Africa per raggiungere l’India, ebbe un impatto enorme non solo sul Mediterraneo, ma sul mondo intero. Si può dire che fra il 16° e il 17° secolo il Mediterraneo tornò sostanzialmente a essere qualcosa di più simile a quell’1% della superficie marina del globo, perché poteva essere aggirato e (fino all’apertura del Canale di Suez nel 1869) cessò di essere una via per raggiungere l’Oceano Indiano. Mentre i vascelli spagnoli, e poi olandesi e inglesi, solcavano gli oceani, nel Mediterraneo orientale e meridionale le economie islamiche perdevano dinamismo, mentre i grandi poli manifatturieri si spostavano sempre più verso nord. Tuttavia le interazioni fra le sponde del Mediterraneo, persino quando l’Europa diventò il centro di un mondo commerciale ben più ampio, continuarono a essere significative: ad esempio le élites in Egitto e in Siria indossavano abiti fiamminghi o inglesi, mentre i tre punti di accesso al Mediterraneo (il Bosforo, lo Stretto di Gibilterra e poi Suez) giocavano comunque un ruolo cruciale. Buona parte del traffico commerciale fra l’Inghilterra (soprattutto Liverpool) e l’India, su cui si resse l’Impero Britannico nell’ultima parte del 19° secolo, passava dal Mediterraneo: Port Said costituiva l’accesso al Mar Rosso e all’Oceano Indiano, ma anche Alessandria e il Cairo diventarono centri commerciali di primaria importanza. Alessandria, in particolare, diventò una città molto internazionalizzata dove vivevano ampie comunità italiane, greche, turche ed ebraiche. Gibilterra diventò il posto ideale per provvedere al rifornimento o alla riparazione delle navi. Così, benché il Mediterraneo fosse in un certo senso marginalizzato nel complesso del commercio mondiale transoceanico, alcune delle sue città prosperarono e conservarono un ruolo rilevante soprattutto grazie alla loro apertura.
Anche da queste esperienze nasce l’idea quasi romantica di una felice coesistenza fra comunità diverse sotto il profilo etnico e religioso. È una rappresentazione che non va esagerata, poiché nel corso della storia vi sono stati numerosi episodi di tensione, di conflitto e spesso di violenza. Ciò nonostante città come Salonicco e Alessandria o, più a occidente, come Livorno o Trieste, sono luoghi dove gruppi etnici e religiosi differenti riuscirono a vivere sostanzialmente in armonia. Vi fu spesso un’interazione vantaggiosa, non solo in termini di profitti commerciali, ma nel senso che le persone che vivevano in quelle città, o che ne facevano una meta frequente di viaggio, impararono a rispettarsi a vicenda, arrivando persino a sentire di appartenere a una comunità più ampia. Per esempio gli ebrei o gli italiani ad Alessandria avevano un’identità culturale molteplice ed erano orgogliosi di ciò che la loro città rappresentava in quanto ultima città europea e margine estremo dell’Europa, appollaiata sul confine stesso dell’Africa di cui comunque non faceva parte. Oppure possiamo guardare alla Spagna musulmana (”al-Andalus”) e a città come Cordova, dove per lunghi periodi le tre religioni monoteistiche e i diversi gruppi etnici riuscirono a coesistere. Di conseguenza possiamo affermare che quell’ideale romantico di coabitazione non è privo di una base reale. Ed è importantissimo tenerlo vivo, poiché oggi nella maggior parte delle città da una parte all’altra del Mediterraneo la coesistenza pacifica certo non è certo la norma.
Quel filo rosso che lega Roma e Parigi

Il Sole Domenica 20.3.16
Hilary Putnam (1926-2016)
Il realismo non ammette miracoli
È morto il più grande filosofo della scienza del nostro tempo. Matematico, logico, un analitico che amava la storia della filosofia
di Mario De Caro


Ho incontrato Hilary Putnam per l’ultima volta lo scorso febbraio. A differenza di quando l’avevo visto alla fine dello scorso anno, camminava con grande difficoltà e il suo stato fisico era molto deteriorato; ma la mente era ancora lucidissima e lo spirito niente affatto rassegnato. In quell’occasione Putnam mi ha ribadito quanto fosse in disaccordo con i filosofi che si disinteressano di scienza, o peggio la denigrano, ma anche con quelli che pensano che la scienza possa risolvere da sola i problemi filosofici.
Soprattutto, però, abbiamo discusso della scoperta delle onde gravitazionali, le curvature dello spazio-tempo previste un secolo fa dalla teoria della relatività generale di Einstein. Putnam era entusiasta di questa scoperta e, con lo sguardo felice di un bambino, mi ha raccontato di quando a Princeton fece visita a Einstein e discusse con lui a lungo di quel tema. Ma la scoperta delle onde gravitazionali lo rallegrava anche perché offre una spettacolare conferma del suo famoso No-miracles argument. Con questo argomento Putman aveva difeso l’interpretazione realistica delle teorie che fanno riferimento a entità inosservabili (come gli elettroni o i buchi neri) contro i suoi molti detrattori, secondo i quali queste teorie sono meri strumenti di calcolo e nulla ci dicono sulla realtà del mondo inosservabile. Secondo l’argomento di Putnam, le migliori teorie scientifiche sono in grado di offrire predizioni sorprendentemente precise (per esempio, appunto, rispetto all’esistenza delle onde gravitazionali) perché si basano su una descrizione vera, o almeno approssimativamente vera, del mondo degli inosservabili. Per chi invece pensa che la scienza sia un mero strumento di calcolo, e che non descriva correttamente il mondo degli inosservabili, l’accuratezza delle predizioni di queste teorie diventa un inesplicabile miracolo; e questa, notava Putnam, è una conclusione razionalmente insostenibile.
Il No-miracles argument è però soltanto uno degli innumerevoli contributi che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, Putnam ha offerto alla maggior parte dei campi filosofici. In filosofia della mente è stato uno dei fondatori del “funzionalismo”, la fortunatissima concezione basata sull’analogia tra mente-cervello, da una parte, e software-hardware, dall’altra (una concezione di cui, in seguito, Putnam è divenuto parzialmente critico). In filosofia del linguaggio ha utilizzato il famoso esperimento mentale della “Terra gemella” per difendere, insieme a Saul Kripke, il cosiddetto “esternismo semantico”: la concezione secondo cui il significato delle nostre espressioni linguistiche e il contenuto dei nostri pensieri non è “solo nelle nostre teste”, ma è determinato anche dai nostri rapporti causali con il mondo. Putnam ha inoltre elaborato proposte ormai classiche in filosofia della matematica e della fisica; ha scritto lavori fondamentali sul pragmatismo, di cui è stato forse il massimo esperto contemporaneo; ha offerto acute e influenti ricostruzioni del pensiero di Aristotele, dei neopositivisti e di Wittgenstein; ha brillantemente difeso l’idea che tra fatti e valori non esista una rigida dicotomia, come invece sostenuto da gran parte della tradizione filosofica. Infine ha superato barriere che per decenni si sono pensate invalicabili: filosofo analitico di prima grandezza, conosceva però bene anche la storia della filosofia e amava riflettere sulle proposte di filosofi continentali come Habermas, di cui era amico personale, Buber e Lévinas. Dell’ampiezza e della profondità delle conoscenze filosofiche di Putnam è testimonianza il suo ultimo libro, appena uscito, Naturalism, Realism, and Normativity, da me curato per Harvard University Press.
In generale, Putnam aveva capacità intellettuali straordinarie. Dopo essersi laureato in filosofia, linguistica e letteratura tedesca, prese a studiare matematica da autodidatta, raggiungendo un livello tale che il suo nome figura ora nelle storie di questa disciplina (contribuì, tra l’altro, a risolvere il decimo dei famosi “23 problemi di Hilbert”, quello relativo alle equazioni diofantee). A proposito della rilevanza dei risultati matematici di Putnam ho un’esperienza personale da raccontare. Qualche anno fa, tra gli studenti di un corso che insegnavo alla Tufts University, c’era un dottorando in computer science del MIT: seguiva il corso perché era incuriosito dalla filosofia, ma la considerava un semplice divertissement, come gli scacchi o i manga giapponesi (parole sue). A suo giudizio, infatti, nessun filosofo era in grado di produrre nulla di veramente rilevante dal punto di vista intellettuale. Un giorno, però, durante una lezione dedicata allo scetticismo, menzionai un famoso esperimento mentale di Putnam: quello in cui argomentava l’impossibilità di uno scenario scettico neocartesiano secondo cui noi potremmo essere cervelli in una vasca, collegati a un computer che ci induce a credere di avere un corpo e di vivere in un mondo molto diverso da quello vero (un po’ come accade nel film Matrix che, d’altra parte, all’esperimento mentale di Putnam direttamente si ispira). Il dottorando del MIT era divertito dal tema, ma manteneva il suo programmatico atteggiamento di sufficienza, finché en passant non menzionai il fatto che Putnam aveva sviluppato, insieme a Martin Davis, l’algoritmo detto appunto “Davis-Putnam”. A quella notizia il dottorando ebbe un moto di incredulità che quasi lo fece cadere dalla sedia e tutto concitato gridò: «Hilary Putnam è QUEL Putnam?! Santo cielo, al mio laboratorio utilizziamo il suo algoritmo tutti i giorni: è uno dei miei eroi!». Nel resto del corso, il dottorando del MIT si gettò a capofitto nello studio della questione dei cervelli nella vasca, di cui in breve tempo divenne il massimo esperto galattico. E quando, poche settimane dopo, ebbe modo di incontrare Putnam, era così eccitato che temetti svenisse dall’emozione.
Le conoscenze di Putnam non si limitavano però alla filosofia e alle scienze naturali. Aveva una conoscenza profonda della letteratura (suo padre era stato un famoso traduttore), della storia, dell’arte, delle scienze sociali e della politica (nelle ultime settimane era molto preoccupato dall’ascesa di Trump). Inoltre leggeva e studiava l’ebraico, si interessava di sport (era molto tifoso dei Red Sox, la squadra bostoniana di baseball) e cucinava in modo spettacoloso.
Hilary Putnam avrebbe potuto riferire a sé le celebri parole del Cremete di Terenzio: Homo sum. Humani nihil a me alienum puto. Quanti altri oggi potrebbero fare altrettanto?

Il Sole Domenica 2o.3.16
L’oggettività di fatti e valori
Contro la presunta neutralità dei giudizi morali, basata su una visione unitaria e assoluta, sostenne l’idea di basare l’etica su processi pubblici e condivisi
di Carla Bagnoli


Della straordinaria attività filosofica di Hilary Putnam non colpisce solo la varietà, ma anche la grande forza innovativa. Alla metà degli anni Novanta ho partecipato a due seminari tenuti da Putnam a Harvard University. Uno riguardava il realismo e l’altro il pensiero ebraico: iniziava con Maimonide, toccava Wittgenstein, e si concludeva proprio con lui, Putnam. Non si trattava di lezioni fatte per essere “seguite”; piuttosto, si aveva l’impressione di partecipare a una conversazione senza tempo. A ripensarci, quelle lezioni mi sembrano motivate da una stessa preoccupazione, direi di tipo etico.
Secondo Putnam, l’ebraismo ha dato un contribuito fondamentale alla cultura occidentale, offrendo una prima formulazione del principio di eguaglianza. Attraverso un percorso dai forti accenti kantiani, Putnam conclude che l’eguaglianza si fonda sulla capacità di pensare autonomamente a come si debba vivere. L’eguaglianza è un valore fondamentale per Putnam, fin dagli anni giovanili della militanza politica nella sinistra radicale.
Sensibile ai temi di giustizia sociale, Putnam è sempre stato molto interessato all’etica, che non considerava una scienza minore, né un ambito speciale in cui si applicano argomenti elaborati dai filosofi del linguaggio. In etica si avverte più che altrove «il peso soffocante delle dicotomie», come quella tra oggettivo e soggettivo. L’intenzione di liberare il pensiero da queste strettoie, senza per questo rinunciare al rigore dell’argomentazione e al dialogo con la scienza, è un filo rosso che attraversa tutta la produzione filosofica di Putnam.
Forse, la giusta misura della rilevanza che Putnam riconosceva alle questioni etiche si ricava dalle sue riflessioni sulla presunta dicotomia fatti/valori. La tesi empirista della separazione tra questioni di fatto e questioni di valore domina incontrastata fino agli anni Cinquanta, condizionando pesantemente il dibattito sui criteri di oggettività della seconda metà del secolo. L’oggettività è generalmente associata alla neutralità rispetto al valore e all’indipendenza rispetto agli interessi e atteggiamenti del soggetto. Putnam fa sua la posizione di minoranza di una filosofa pressoché ignorata, Iris Murdoch, ma sulla base di argomenti ben più solidi. Il realista che propone una realtà neutra e non contaminata dalla soggettività, è il “perfido seduttore” che conferma le aspettative di un interlocutore ingenuo, il portavoce del senso comune. Sebbene attraente, il realismo è ingannevole perché si basa su un falso presupposto, quello della neutralità del ragionamento e del metodo scientifico. Il ragionamento, sia pratico che teoretico, è guidato da valori ma è anche orientato all’oggettività. Il vero motivo per credere che il metodo scientifico non poggi su presupposizioni etiche è che si suppone che sia un metodo formale. Crollando l’ideale di neutralità, crolla anche la tesi secondo la quale l’oggettività è garantita dal metodo formale.
Si tratta di considerazioni che hanno avuto un impatto decisivo non solo in etica ma anche nella filosofia dell’economia, nell’argomentazione giuridica e, in generale, nell’epistemologia e metodologia delle scienze sociali. Ci costringono a sondare i limiti del ragionamento, a farci domande nuove sulla sua natura e sulla possibilità di trattare in modo formale i problemi che sorgono a proposito della decisione razionale. Per fare un esempio, secondo Putnam, la trasformazione dell’economia classica è una conseguenza diretta del collasso della distinzione tra fatti e valori.
Sotto questo aspetto, la proposta di Putnam è in sintonia con quelle di altri filosofi di Harvard, da Nelson Goodman a John Rawls. La convinzione di questi filosofi è che il marchio di garanzia della conoscenza e dell’oggettività etica consista nella giustificazione razionale. Si tratta di giustificare sulla base di ragioni condivisibili dagli altri in quanto nostri pari. È la pratica della giustificazione che ci restituisce una visione oggettiva del mondo, piuttosto che la fiducia in valori ultimi e assoluti. L’oggettività è dunque il risultato di un processo pubblico e condiviso, ma che non conduce alla convergenza su una visione morale unitaria e assoluta. Anzi, arriva sempre il momento in cui si deve dire «qui è dove la mia vanga si piega».

Il Sole Domenica 20.3.16
L’appello degli scienziati italiani all’estero
Separare scienza e politica
I finanziamenti «top down» per il progetto milanese Human Technopole non rispecchiano le procedure seguite a livello internazionale


La decisione del governo italiano di affidare il coordinamento del progetto Human Technopole (Ht) all’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) di Genova è stata definita un’operazione top-down anche dallo stesso direttore dell’Iit, Roberto Cingolani, per il quale è del tutto legittimo che sia così, perché nello stesso modo si procederebbe nel resto del mondo. Abbiamo ascoltato alcuni autorevolissimi scienziati italiani, coinvolti nel progetto, affermare che un’operazione come quella di Ht non si può fare se non utilizzando la modalità top-down. Proviamo a esaminare la natura del fatto e della correlata convinzione, e a riportare entrambi a un ambito internazionale.
La procedura top-down cui si fa riferimento non riguarda la legittima decisione del governo di creare un polo scientifico-tecnologico sull’area ex Expo, ma l’assegnazione diretta di un finanziamento decennale di 1,5 miliardi di euro a un unico soggetto, Iit-Ht, senza nessuna competizione o procedura di peer review. Il governo, per vie non chiare né pubbliche, ha scelto un unico interlocutore (Iit) per approntare un piano scientifico per Ht, e lo stesso interlocutore è stato designato come beneficiario del relativo finanziamento decennale.
Viene spontaneo confrontare questa iniziativa, considerate anche le ambizioni e la scala dei finanziamenti, a quella statunitense, conosciuta come Nni (National Nanotechnology Initiative) consultabile sul sito www.nano.gov. Varata nel febbraio del 2000 dal governo federale americano e finanziata inizialmente per una cifra pari a 500 milioni di dollari per tutti gli Stati Uniti, la creazione di Nni seguì ben altre procedure. Apparve come “report” (piano) pubblico firmato dall’Interagency Working Group on Nanoscience, Engineering and Technology Committee on Technology National Science and Technology Council, cui seguirono bandi pubblici per la presentazione e messa in opera di progetti che prevedevano la creazione di nuovi laboratori, network, centri di ricerca eccetera.
L’iniziativa Nni, a oggi ancora finanziata, non conteneva in sé nessun elemento top-down come inteso dal direttore di Iit-Ht. Nessuno dei membri dei vari comitati e agenzie che avevano stilato il report presentava conflitto di interesse con Nni e nessuno dei membri era responsabile di laboratori o gruppi di ricerca che avrebbero partecipato alla competizione nella fase successiva alla pubblicazione dei bandi. Se si confrontano quindi le modalità seguite dal governo americano con quelle fin qui seguite in Italia per varare e finanziare l’iniziativa Iit-Ht, immediatamente appare chiaro come quest’ultima abbia seguito procedure inaccettabili in qualsiasi Paese moderno.
L’entità del finanziamento erogato richiederebbe un ampio coinvolgimento della comunità scientifica nella discussione preventiva dei temi e degli obiettivi a medio e lungo termine, e procedure a bando pubblico che comportino una selezione terza, indipendente e competente dei contenuti e dei progetti migliori per Ht, nonché dei profili professionali necessari, a ogni livello, per realizzare l’iniziativa.
In tutti i Paesi moderni e per qualsiasi iniziativa che riguardi la ricerca finanziata con risorse pubbliche si fa ricorso a metodi improntati al cosiddetto «Principio di Haldane». Proposto all’inizio del secolo scorso da sir John Burdon Sanderson Haldane, il principio raccomanda la «separazione assoluta fra politica e scienza, perché la corruzione si previene in questo modo. […] Mischiare politica e scienza è la ricetta del disastro». In altre parole, i processi di selezione della scienza pubblica non possono essere invasi dalla politica né essere decisi da un singolo ente. Pensiamo che gli sforzi fatti dagli scienziati italiani per adeguarsi e competere con successo sulla scena internazionale rischino di essere vanificati dal metodo con cui viene gestita l’iniziativa Iit-Ht per l’impossibilità, attuale e futura, che investirà tutti gli scienziati non coinvolti di competere adeguatamente con “i prescelti”, ovvero coloro che saranno invitati a partecipare, con progetti decisi senza alcuna competizione pubblica, al piano Iit-Ht.
L’iniziativa Iit-Ht per come è oggi gestita è in pieno e completo conflitto con il Principio di Haldane, e riecheggia i disastrosi effetti causati dal connubio diretto tra politica e top management della Nasa, che ignorò le valutazioni della comunità scientifica sui rischi all’origine del disastro dello shuttle Challenger.  In questi giorni cade il trentesimo anniversario di quel tragico evento e ripensare quella vicenda sarebbe istruttivo per i politici e i manager che vorrebbero ridurre la dialettica scientifica condivisa internazionalmente a una procedura top-down, che ha il sapore di “cartello” e di rendita di posizione, il cui effetto è quello di cancellare volutamente un’aperta competizione e una selezione meritocratica su base internazionale. Il premio Nobel Richard Feynman, che faceva parte della Commissione Rogers istituita per indagare le cause del disastro del Challenger, dovette battersi per far accettare alla Commissione stessa le prove che l’incidente fu causato dall’indifferenza del top management della Nasa agli avvertimenti che da anni gli studiosi del programma lanciavano circa l’inaffidabilità di alcuni materiali utilizzati. Feynman, che rimane uno degli scienziati più esemplari nell’interpretare i valori di integrità nella scienza, chiese e ottenne che fosse pubblicata in appendice al rapporto ufficiale della Commissione una sua relazione, nella quale si può leggere quanto segue: «Sembrerebbe che, qualsiasi ne fosse lo scopo, per obiettivi interni o esterni, il management della Nasa abbia esagerato l’affidabilità del suo prodotto elevandolo a un punto di pura fantasia». Ancora: «La Nasa deve ai cittadini, ai quali chiede il sostegno, di essere franca, onesta e informativa, in modo che questi cittadini possano prendere le decisioni più sagge per l’utilizzo delle loro risorse limitate. Per una tecnologia di successo, la realtà deve avere la precedenza sulle pubbliche relazioni, perché la Natura non può essere ingannata».
Iit-Ht non manda uomini nello spazio ma promuove se stesso, di fatto svolgendo ruolo attivo di agenzia di finanziamento sui generis, dato che distribuisce arbitrariamente ingenti risorse pubbliche, negandone l’accesso su base competitiva a tutto il resto della comunità scientifica. Risorse che provengono dalle tasse dei cittadini italiani, i quali hanno diritto a franchezza e onestà di informazione da parte della comunità scientifica italiana e delle istituzioni di ricerca che, grazie ai loro contributi, esistono e operano. Il governo e una parte della comunità scientifica nazionale sembrano avere invece intrapreso una strada che nega i più basilari principi su cui la scienza moderna è ovunque fondata e finanziata, e grazie ai quali produce conoscenza verificabile. Noi non conosciamo altri criteri per avere successo, se non coltivando l’integrità degli scienziati attraverso la libera competizione delle loro idee, così da ottenere i migliori risultati e un rapporto onesto e trasparente con i cittadini finanziatori.
– Paola Arlotta,
Harvard University, Stati Uniti
– Ennio Carbone,
Karolinska Institute Stockholm, Svezia
– Francesco Colucci,
Cambridge University, Regno Unito
– Daniele Daffonchio,
Kaust, Arabia Saudita
– Enzo Di Fabrizio,
Kaust, Arabia Saudita
– Antonio Giordano,
Temple University, Stati Uniti
– Daniela Pappalardo,
Royal Institute of Technology, Svezia

Il Sole Domenica 20.3.16
Richard Dedekind (1831-1916)
Matematico infinito
di Umberto Bottazzini


«C’è già tutto in Dedekind», era solita dire Emmy Noether, la grande algebrista di Gottinga, a chi si complimentava per i suoi risultati. Così si schermiva “la mamma dell’algebra moderna”, che esortava i suoi allievi a leggere e rileggere le opere di Dedekind, di cui lei stessa aveva curato l’edizione, perché a suo dire erano una sorgente inesauribile di idee e una fonte continua di ispirazione. In effetti, anche se non ha avuto allievi diretti, Richard Dedekind è stato una delle figure che ha esercitato una maggiore influenza sullo sviluppo della matematica moderna. Come Gauss, che già all’epoca era considerato il princeps mathematicorum, anche Dedekind era nato a Braunschweig, e nella cittadina della Bassa Sassonia aveva compiuto gli studi prima di iscriversi all’università a Gottinga nella primavera del 1850. A Gottinga brilla la stella di Gauss, che dirige l’Osservatorio astronomico ma non ama far lezione e solo raramente tiene dei corsi. Dedekind ha tuttavia la fortuna di seguire un corso di Gauss sul metodo del minimi quadrati, il metodo che il grande matematico ha elaborato mezzo secolo prima per ritrovare Cerere, il pianetino scoperto da Piazzi il primo gennaio 1801 e ben presto scomparso dalla sua vista. Un corso “piuttosto arido” a dire di Gauss, e tuttavia “indimenticabile” per Dedekind, che a cinquant’anni di distanza lo ricordava come “uno dei più belli” che avesse mai seguito. Ancora sotto la guida di Gauss nel 1852 scrive la tesi di dottorato e, due anni più tardi, supera la prova di abilitazione a libero docente a poche settimane di distanza da Bernhard Riemann, il timido e geniale collega col quale Dedekind ha stretto una grande amicizia.
«Senza dubbio» – scrive Dedekind nel 1856 alla sorella – l’ “eccellente” Riemann è «dopo, o addirittura con, Dirichlet il più profondo matematico vivente e presto sarà riconosciuto come tale, quando la sua modestia gli permetterà di pubblicare certe cose, che tuttavia al momento saranno comprensibili solo a pochi». È infatti Lejeune-Dirichlet, chiamato da Berlino nel 1855 per succedere a Gauss, colui che farà di Dedekind “un uomo nuovo”. Il giovane Dedekind ne segue i corsi, discute delle proprie ricerche in incontri quotidiani ed è ospite abituale di casa Dirichlet. Suona il violoncello e il piano nelle serate musicali animate da Rebecka – moglie del professore e sorella di Felix Mendelsohn-Bartoldy – dove capita di incontrare Brahms e la pianista Clara Schumann, moglie del compositore Robert. All’università come libero docente Dedekind tiene nel 1856 un pionieristico corso sulla teoria dei gruppi di Galois, ma la sua carriera vera e propria di professore comincia due anni dopo quando viene chiamato ad insegnare calcolo infinitesimale al Politecnico di Zurigo.
Costretto a ricorrere all’intuizione geometrica per introdurre i concetti fondamentali di quel calcolo «ho sentito più che mai la mancanza di una base veramente scientifica dell’aritmetica», scriverà Dedekind anni dopo in Continuità e numeri irrazionali (1872), un opuscolo destinato a far epoca. Da qui «la ferma decisione di riflettere» per trovare una base rigorosa del calcolo. «Sono riuscito in questo compito il 24 novembre 1858», ci informa sorprendente precisione. Ma solo nel 1872 egli rende pubblico il frutto delle sue riflessioni: un assioma che caratterizza la continuità della retta reale e la definizione dei numeri irrazionali come coppie di classi contigue di numeri razionali – le cosiddette sezioni di Dedekind che si imparano (o forse si imparavano) a scuola, e la conseguente costruzione dei numeri reali. Mentre scrive la prefazione a quell’opuscolo (il 20 marzo 1872), riceve un articolo di Georg Cantor che contiene una teoria sostanzialmente equivalente alla propria.È l’inizio di un’intensa e duratura corrispondenza che accompagna Cantor nell’indagine sull’infinito e la creazione della teoria degli insiemi e dei numeri transfiniti, indagine che sullo sfondo ha in Dedekind un protagonista discreto ma decisivo. E a Cantor egli comunica la propria definizione di insieme infinito, e per converso di insieme finito: infinito è un insieme che si può porre in corrispondenza biunivoca con una sua parte propria (come ad esempio l’insieme di tutti i numeri naturali e la sua parte propria costituita dall’insieme dei quadrati perfetti); è finito in caso contrario. E per dimostrare che esistono insiemi infiniti afferma che «il sistema di tutte le cose che possono essere oggetto del mio pensiero è infinito». Questa caratterizzazione dell’infinito «costituisce il punto fondamentale di tutta la mia ricerca», scrive Dedekind nell’opuscolo Che cosa sono e cosa debbono essere i numeri? (1888). È la base su cui «erigere, con metodo rigorosamente logico, la scienza dei numeri», concepita come parte della logica. Così, alla domanda del titolo egli risponde che «i numeri sono libere creazioni dello spirito umano», che soddisfano a certe condizioni (nella sostanza equivalenti agli assiomi pubblicati da Peano l’anno dopo) e sono indipendenti dalle rappresentazioni dello spazio e del tempo. Anzi, sulla «capacità dello spirito di riferire oggetti a oggetti, di far corrispondere un oggetto a un altro» si basa l’acquisizione fin dall’infanzia di un insieme di verità aritmetiche, che suggeriscono a Dedekind di modificare il platonico «Dio geometrizza» in «l’uomo aritmetizza». «Chiunque possegga il cosiddetto buon senso può comprendere questo scritto» afferma Dedekind con un certo ottimismo. Ma il cosiddetto buon senso non basta per comprendere le Lezioni sulla teoria dei numeri di Dirichlet, che Dedekind pubblica nel 1863 né tantomeno i supplementi di cui egli le arricchisce nelle successive tre edizioni. Supplementi che contengono alcuni concetti fondamentali dell’algebra moderna e giustificano l’affermazione di Emmy Noether. Dal 1862 Dedekind è ritornato a Braunschweig per insegnare nel locale istituto tecnico, e nella citta natale trascorre il resto della vita fino alla morte, nel febbraio di cento anni fa.

Il Sole Domenica 20.3.16
Folk da Esportazione
La Taranta suonata a Pechino
di Riccardo Piaggio


Il gruppo barese «Fabryca» ad aprile sarà in Cina, il deejay e compositore Nicola Conte è una star in Germania, Matteo Bortone è il miglior nuovo contrabbassista 2015
Puglia sounds good. Dagli storici Cantori di Carpino ai Sud Sound System, la Regione più lunga d’Italia, culla della pizzica ed altre delizie, comincia ad esprimere qualcosa di radicalmente nuovo, che porta in dote nuove possibilità al nostro frastagliato paesaggio culturale. I tesori musicali pugliesi arrivano da lontano, almeno dai primi anni ’50, quando Ernesto De Martino e Diego Carpitella ridiedero vita e respiro al secolare fenomeno del tarantismo, ma negli ultimi cinque anni la musica pugliese ha finalmente preso la consistenza di un brand internazionale. Merito anche di “Puglia Sounds”, programma di produzione, sostegno e valorizzazione della musica pugliese, che gli Assessorati al Mediterraneo e al Turismo, nell’ambito del Programma Operativo FESR (Fondo Europeo Sviluppo Regionale) hanno affidato al Teatro Pubblico Pugliese, che ha prodotto e promosso, dal 2010, qualcosa come 860 concerti all’estero, 175 nuove produzioni discografiche, oltre al sostegno a 260 artisti attraverso bandi e la creazione di una rete di 106 festival.
Come nasce una rivoluzione culturale? Da un progetto, prima che dal fuoco sacro delle passioni. Il filosofo Tomás Maldonado, nella sua Speranza progettuale, sosteneva con incrollabile fede come esistano al mondo «il tipico fare senza progetto: il gioco. Vi è anche il tipico progettare senza fare, un progettare il cui scopo fondamentale non è la realizzazione immediata: l’utopia». Le rivoluzioni non si fanno né per gioco, né con le utopie. Si fanno, più semplicemente, con i business models. Cose lontane dalla sensibilità e dalla creatività italiche, dove tutto s’aggiusta ma, alla fine, se qualcosa si muove è perché poco, o nulla, cambi davvero. Poi, ci sono fenomeni come “Puglia Sounds”, uno dei più innovativi esperimenti territoriali di produzione e promozione di conoscenza pubblica degli ultimi anni, con un modello integrato, che per una volta sembra funzionare, tra pubblico e privato, non profit e commerciale, top-down e bottom-up. Tra tutti i patrimoni immateriali, la musica è quello più flessibile e che probabilmente consente l’esplorazione più libera e aperta a scoperte insolite e senza tempo. Perché, come diceva “zio” Andrea Sacco, cantatore di Carpino, «chi suona e canta non muore mai».
Così, dal 2010, esiste un laboratorio permanente della musica pugliese nel mondo. Da qui è partito un progetto che ha messo insieme centinaia di giovani artisti pugliesi, espressione della tradizione e del rinnovamento musicale di questa Svizzera del Sud che è da sempre laboratorio culturale, linguistico e sociale. Jazz, musica popolare (dal folk revival alla world music), rock e musica elettronica, musica colta contemporanea. Musiche attuali, viventi, ciascuna parte di una complessa rete di funi che sostengono, a fatica, il necessario ponte tra memoria e futuro di questa terra. Che poi, allargando lo sguardo, non è che una metafora dell’immenso patrimonio culturale del nostro Paese, sovente vittima del folklore sbagliato. Al cuore di tutto, naturalmente, la pizzica e il tarantismo coltivati nel paniere della world music, arcaico patrimonio che però “Puglia Sounds” ha prima coltivato e poi cominciato a raccogliere, con i frutti maturi di realtà come il Canzoniere Grecanico Salentino, ensemble di campioni del folk revival dal lontano 1975, i semi più recenti di fenomeni come i Nidi D’Arac, Mascarimirì, Officina Zoè, presenti nei principali Festival europei e i grandi eventi popolari come La Notte della Taranta, recentemente approdata in prestigiose sedi internazionali (dal«Barbican» di Londra al «Boston Common»). Ma la nuova rete musicale pugliese, nell’ultimo quinquennio, ha accolto anche fenomeni diversi dal miglior folklore (sia di tradizione che di rinnovamento), esprimendo eccellenze nell’ambito del jazz e delle musiche improvvisate, come il dj e compositore di acid jazz e bossa nova Nicola Conte (una star in Germania), la giovane gloria internazionale Gianluca Petrella, tra i migliori trombonisti al mondo, il giovane contrabbassista Matteo Bortone, miglior Nuovo Talento 2015 per il magazine «Musica Jazz». E ancora la canzone d’autore e le musiche attuali con la voce di Erica Mou, le performance dei Sud Sound System e la ricerca sonora dei Radiodervish. La missione di “Puglia Sounds” (con i suoi segmenti Live, Record e Export) è quella di creare reti e sostenere le nuove scoperte, alimentate da fenomeni come il dj Populous, tra i nuovi riferimenti dell’elettronica italiana (lo scorso gennaio è stato portato ad «Eurosonic» in Olanda) e il gruppo barese Fabryka (a fine aprile saranno impegnati in uno showcase al «Sound of the City» di Pechino). Nella recente indagine sulla musica e sull’attività concertistica in Puglia e in Italia dell’Istituto Piepoli, saltano all’occhio valori quantitativi importanti, una sorta di effetto “Puglia Sounds”: nel confronto tra il 2010 (nascita del progetto) e il 2014, oltre il 120% in più di presenze in eventi gratuiti pugliesi (il dato nazionale è a meno 59%) e una media del 20% circa in più su spese al botteghino, sui servizi aggiuntivi e valori complessivi degli introiti - ossia le cosiddette ”esternalità positive” del settore culturale - a fronte di un incremento, nella media nazionale e sugli stessi parametri, di circa il 5% complessivo. Dalla Notte della Taranta, tra i più popolosi eventi internazionali dedicati alle musiche popolari, fino all’alba delle sperimentazioni contemporanee realizzate in collaborazione con l’IRCAM parigino, centro di eccellenza mondiale sulle musiche di ricerca, la Puglia fa cantare nel mondo i suoi monumenti, irrorando i suoi germogli. Perché, anche quando sono immateriali, «bisogna che i monumenti cantino», così almeno ci suggeriva il poeta Paul Valéry; «è necessario che essi generino un vocabolario, creino una relazione, contribuiscano a creare una società civile. La memoria storica, infatti, non è un fondo immobile in grado di comunicare comunque, bisogna sapere come farla riaffiorare, va continuamente riparata».
r.piaggio@me.com

Il Sole Domenica 20.3.16
Russia
Kasparov contro Putin
Il campione di scacchi non ha dubbi: l’ascesa del «dittatore» russo coincide con l’ignavia delle democrazie. Che devono riscuotersi
di Serena Vitale


Per pochissimi, nel cosiddetto mondo libero, è un segreto che la Russia di oggi non è un Rechtsstaat: i diritti umani vengono sistematicamente violati, un Procuratore generale può lanciare l’idea di modificare la Costituzione per privilegiare il diritto nazionale a danno di quello internazionale «sfruttato dagli oppositori occidentali», la massiccia propaganda di regime fortifica giorno dopo giorno un già solido culto della personalità. Quella di Vladimir Putin, il carneade - ex tenente colonnello del Kgb passato all’amministrazione pubblica - che subito dopo l’8 agosto 1999, quando venne nominato da Boris El’cin premier della Federazione Russa, sconcertò il mondo proprio per la sua personalità scialba: un taciturno e schivo “uomo senza volto” che sembrava impacciato, addirittura a disagio, parlando in pubblico…
Ormai pochissimi, nel cosiddetto mondo libero, giustificano quanto accade oggi in Russia con stolidi cliché antropologico-geografici: «i russi sono geneticamente predisposti ad accettare regimi autocratici», «per governare l’immensa Russia, la più grande nazione del mondo, è indispensabile il pugno di ferro».
Eppure - ammonisce con toni lucidamente catastrofistici Garry Kasparov dal suo ultimo libro - è proprio l’Occidente a chiudere uno o entrambi gli occhi sulle malefatte di Putin (più volte paragonato a Hitler prima del ’38), così legittimando implicitamente il suo strapotere. E dunque the winter is coming, come nella serie televisiva Il trono di spade, dove dalle lande dell’Eterno Inverno incombe una terribile minaccia.
Nativo di Baku, sangue armeno ed ebreo (il vero cognome è Vajnštejn, come fanno notare sempre più spesso i sempre più fanatici ultrapatrioti russi), enfant prodige degli scacchi, campione del mondo per molti anni di seguito, Garry Kasparov - «il più grande scacchista di tutti i tempi» - nel 2005 si è ritirato dallo «sport più violento che esista» per dedicarsi quasi esclusivamente all’impegno politico, all’opposizione. È stato leader e fondatore del Comitato 2008: libera scelta, poi del Fronte Civile Unito, di Solidarnost’. Nella sua nuova carriera di dissidente - sì, ne esistono ancora in Russia, e il loro destino è purtroppo facile da prevedere: prigione (come Chodorkovskij), incontri ravvicinati con sicari dalla mira infallibile (come Anna Politkovskaja, Boris Nemcov), emigrazione ( come lo stesso Kasparov, che dal 2013 vive in esilio volontario negli stati Uniti) - ha conservato lo stile che caratterizza il suo gioco: rapido, irruente, implacabile. Dall’altra parte della scacchiera c’è ora Putin, di cui ripercorre la breve marcia verso il potere autocratico, fino al trono di Capo dei capi, Boss della lobby cleptocratica. Le fasi dell’avanzata sono scandite da “operazioni militari”: le atrocità che durante la seconda guerra cecena trasformarono Groznyj nella «città più devastata della terra», l’intervento armato in Georgia (2008), l’invasione dell’Ucraina nel 2014, in violazione del memorandum di Budapest e delle più elementari norme del diritto internazionale.
E tuttavia, sostiene Kasparov, Putin non è un abile stratega; non ha la stoffa del condottiero né smania di diventarlo - «è soltanto un giocatore di poker d’attacco, che trova davanti a sé una debole resistenza da parte di un mondo occidentale diventato così allergico al rischio da preferire passare la mano invece che scoprire il bluff». Col tempo, invece, ha elaborato un’astuta strategia per manipolare la popolazione che inizialmente aveva visto in lui il leader capace di liberare il Paese dagli odiati oligarchi, per guarirla dal complesso di inferiorità nei confronti dell’Ovest (che avrebbe umiliato la Russia dopo il disfacimento dell’Urss) tramite una martellante campagna nazionalista: «Noi abbiamo salvato l’Europa dal fascismo ed è fascista chiunque sia contro di noi», con la conseguente rivalutazione di Stalin, Generalissimo dell’Unione Sovietica.
Simile a ogni piccolo o grande dittatore, continua Kasparov, Putin sente la perversa necessità di celebrare riti democratici come elezioni, referendum, processi - dagli esiti, sappiamo, ampiamente scontati. Ai propri sudditi concede dosi omeopatiche di dissenso tollerato, un’illusoria libertà di parola (del resto perché censurare quando si possono acquisire, con le buone o le cattive maniere, tutti i media?), un simulacro di stabilità economica ( ma il 15,9% della popolazione, ossia 22,9 milioni di russi, vive sotto la soglia di povertà, e non solo nella sterminata provincia).
Della rabbia e del dolore di Kasparov fa le spese anche l’Occidente (compreso il «principiante idealista» Obama ) che si limita, ogniqualvolta vengono trasgrediti i diritti di singoli individui o di interi paesi, ad auspicare «indagini rapide e trasparenti», a «fiacche dichiarazioni che escludono dai tavoli di negoziazione le minacce e il potere individuale, uniche cose di cui si preoccupa Putin…I gesti di pace sono per lui manifestazioni di debolezza». L’Occidente che intrattiene rapporti di affari con una classe politica vergognosamente corrotta… Realpolitik o ignoranza? Ottimismo immotivato circa la vera natura di Putin oppure cinismo, paura? «Sanzionare…è una presa in giro, e in effetti le élite del Cremlino hanno tutte le ragioni per sghignazzare», tuona Kasparov, sentendo soffiare dall’Est venti sempre più gelidi. E propone: «imponete sanzioni alle élite che appoggiano Putin, state dietro a tutti i familiari che usano per nascondere all’estero le loro fortune e fate le pulci alle loro società…». Ha in odio la «retorica della distensione» ma non è un guerrafondaio; unica via d’uscita gli appare quella indicata da un suo idolo (l’altro è Sacharov, la cui morte, nell’ ’89, ha inciso sui destini della Russia postsovietica molto più di quanto non si pensi comunemente), Vaclav Havel: «Fermezza, perseveranza e trattative da una posizione di forza sono l’unica cosa che Kim Jong-il e i suoi simili comprendono…».
L’inverno sta arrivando… C’è solo da augurarsi che Kasparov non sia un bravo meteorologo.
Garry Kasparov, L’inverno sta arrivando , trad. di Valentina Nicolì, Fandango, Roma, pagg. 400, € 22