Repubblica 16.3.16
Siria, i costi della Russia
di Bernardo Valli
GLI
ANNUNCI di Vladimir Putin suscitano spesso numerose scuole di pensiero.
Come interpretarli? La decisione di ritirare la maggior parte delle
forze russe dalla Siria si presta a una prima lettura. Significa che il
conflitto richiede meno impegno. Putin, come lui stesso ha spiegato,
considera tanto positivi i risultati dell’intervento in Medio Oriente,
cominciato il 30 settembre scorso, da poter ridimensionare la presenza
militare.
INSOMMA, pensa che la missione siriana sia quasi
compiuta, e che sia il momento di sottolinearlo con un gesto solenne. Il
cessate il fuoco deciso sotto il patrocinio russo-americano non è stato
troppo violato, anzi secondo gli osservatori ottimisti è stato
sostanzialmente rispettato; e a Ginevra dovrebbe cominciare la terza
edizione delle trattative mai decollate. L’ annuncio del Cremlino è una
spinta al dialogo.
Il segnale è distensivo. E tuttavia non troppo
vincolante. Si tratta di un ritiro parziale, e la permanenza delle due
basi russe, quella navale di Tartus e quella aerea di Latakia,
consentono un rapido ritorno degli uomini e dei mezzi che adesso stanno
partendo. Inoltre le parole di Putin non si traducono spesso in fatti
concreti. Lasciano sempre un dubbio. L’accordo da lui sottoscritto a
Minsk, tuttora in vigore e da lui più volte ribadito, non ha riportato
la quiete completa nell’Ucraina orientale, nelle province secessioniste
confinanti con la Russia.
In Siria egli ha comunque realizzato
quel che si proponeva: il rafforzamento del suo protetto Bashar el
Assad. Sei mesi fa il presidente siriano era dato per spacciato. La
ribellione, nelle sue varie versioni, occupava larga parte del
territorio; l’esercito governativo dava evidenti segni di debolezza; e
l’auspicato processo di transizione a Damasco era visto in molte
capitali, da Washington a Londra, ma anche a Riad, come una scontata
procedura per allontanare definitivamente dal potere il rais.
L’intervento russo di settembre ha rovesciato la situazione. Il regime
di Damasco si è rafforzato. Prima del cessate il fuoco era sul punto di
ottenere una vittoria decisiva: stava per riprendere il completo
controllo di Aleppo, assediata da cinque anni, con l’aiuto decisivo
dell’aviazione russa. La quale, nonostante gli impegni e le puntuali
assicurazioni, ha colpito soprattutto i gruppi ribelli moderati in parte
legati agli americani, e risparmiato spesso quelli di al Nusra e di
Daesh (lo Stato islamico) che dovevano essere i principali obiettivi. La
preoccupazione di non insabbiarsi troppo nella crisi mediorientale, ha
condotto gli Stati Uniti di Barack Obama a non dare un peso eccessivo al
disinvolto comportamento della Russia di Putin. Con la quale era ed è
indispensabile raggiungere un’intesa per tentare di chiudere il
conflitto. È quel che sta probabilmente accadendo tra le quinte non
tanto segrete della diplomazia.
L’annuncio del parziale ritiro
delle truppe russe non deve però avere rassicurato del tutto Assad. Su
questo punto essenziale le intenzioni di Putin restano oscure. Il
presidente siriano non rimane senza alleati sul terreno. Le unità
iraniane, mandate dagli Ayatollah amici di Teheran, e gli Hezbollah
libanesi non se ne vanno. E i russi possono ritornare in breve tempo.
Tuttavia il ridotto impegno militare russo, deciso proprio mentre a
Ginevra si tenta di avviare un negoziato, viene letto anche come un
avvertimento a Bashar el Assad. Rinfrancato dalla stabilità del regime
il rais di Damasco ha irritato il Cremlino. È stato imprudente o
arrogante. Ha colto di sorpresa il grande alleato, che l’ha salvato,
annunciando elezioni legislative al più presto ed escludendo, tramite il
ministro degli esteri, Walid al Muallem, una sua eventuale riconferma
attraverso elezioni presidenziali.
L’avvertimento è chiaro: la
permanenza di Assad alla testa dello Stato non può essere messa in
discussione. Ma è una “linea rossa”, un ostacolo al dialogo che le
Nazioni Unite, affiancate da russi e americani, tentano di avviare a
Ginevra. L’Alto Comitato dei negoziatori, in cui sono raccolti i gruppi
ribelli, ad eccezione di Daesh e di al Nusra esclusi dal dialogo,
pongono infatti come condizione la destituzione di Assad, o comunque un
processo di transizione a Damasco che preveda elezioni presidenziali. Il
cui esito sarebbe negativo per lui. Gli americani e i loro alleati sono
sulle stesse posizioni. Inoltre, se a Ginevra si accenderà infine un
vero dialogo, si porrà il problema di dividere il paese. E questo Assad
lo rifiuta.
La mossa di Putin può essere interpretata come una
forte sollecitazione all’alleato affinché diluisca le sue pretese. In
cambio dell’aiuto ricevuto non deve ostacolare la trattativa respingendo
ogni discussione sul suo personale potere. O sull’eventuale divisione
del territorio nazionale. Se questa lettura è esatta, un’intesa di fatto
si è creata tra russi e americani nel tentativo di risolvere il
conflitto siriano. La sorte di Assad è al centro di questo accordo non
dichiarato.
La crisi siriana ha riportato la Russia in Medio
Oriente, con la prima grande operazione militare fuori dai confini
nazionali, dopo l’implosione dell’impero sovietico. E il suo presidente,
impostosi nel conflitto, tratta adesso con il presidente della
superpotenza. Al colloquio tra Putin e Obama, dopo l’annuncio del
ritiro, è stato dato un significativo risalto. Quello che si dà a una
battaglia vinta sul campo. Proprio mentre le sanzioni occidentali
penalizzano la Russia, ferita economicamente anche dal ribasso brutale
del prezzo del petrolio. Un’altra lettura della mossa di Putin è che il
costo quotidiano della presenza militare in Siria è di tre milioni di
dollari. E che doveva essere ridotto. Se di risparmio si è trattato,
l’operazione contabile è stata ammantata di intenti più ambiziosi.