Repubblica 15.3.16
La prima santa globale
Oggi papa Bergoglio firma il decreto che eleva alla gloria degli altari Madre Teresa di Calcutta
di Marino Niola
L’APOSTOLA
degli ultimi diventa la prima santa globale. Oggi papa Bergoglio firma
il decreto che eleva alla gloria degli altari Madre Teresa di Calcutta.
La più grande icona umanitaria della società liquida.
Quando vinse
il Nobel per la Pace, nel 1979, i giornali scandinavi la definirono
“una star senza ciglia finte e senza trucco”. Da allora i media non le
hanno più staccato gli occhi di dosso. Facendone il simbolo
contemporaneo della comunione evangelica con i più poveri fra i poveri.
La grande consolatrice degli sconfitti della mondializzazione. La sua
beatificazione in mondovisione, avvenuta in Vaticano il 19 ottobre 2003
alla presenza di una folla oceanica, fu consacrata da uno share
planetario. Un’autentica apoteosi televisiva per quella che l’istituto
Gallup ha definita la persona più ammirata del Novecento. Più di Gandhi e
di Martin Luther King. Così l’immagine della suora in sari china su un
povero cristo morente è diventata l’ologramma contemporaneo della Pietà.
Alimentando un’infinita aneddotica dove la testimonianza edificante,
sempre alta e profonda, si mescola spesso a una straordinaria
estetizzazione del sacrificio di sé.
Si racconta che il dandissimo
e snobbissimo scrittore Bruce Chatwin, vedendo la Madre baciare un
lebbroso morente abbia detto: «Io non lo farei nemmeno per un milione di
dollari». E lei, trapassandolo con la lama scura del suo sguardo
avrebbe replicato: «Per un milione di dollari nemmeno io!». Un vero
colpo di teatro della carità. Sempre spiazzante nella sua apparente e
disarmante semplicità, Teresa amava ripetere che dio agisce sempre
attraverso le vie più semplici. E per questo lei era più luminosamente
eloquente di un libro di teologia. Perché riconduceva l’astrazione dei
dogmi alla materialità dei gesti. L’incontro dei corpi, la mano che
cura, la carezza che consola. Mostrando a tutti che in fondo, come
diceva la scrittrice Cristina Campo, la grazia con la minuscola è la
materia prima della Grazia con la maiuscola.
In questo senso
l’abilità della fondatrice delle Missionarie della Carità nell’usare i
media, la sua capacità di bucare lo schermo, il suo ascendente su vip e
potenti della terra, sono tra i fattori che hanno determinato la
crescita esponenziale della sua celebrità. Legata, oltre che all’impegno
radicale a favore dei poveri, dei malati e dei sofferenti, anche allo
slittamento del senso caritatevole della sua opera verso una dimensione
miracolistica. Culminata nella guarigione, scientificamente
inspiegabile, di un brasiliano avvenuta nel 2008 e riconosciuta ora
dalla Chiesa quale prova della sua santità.
E persino quando era
in vita la sua aura alimentava voci leggendarie come quella della luce
divina che avrebbe aleggiato sulla Casa dei moribondi di Calcutta.
Una
sorta di glitter soprannaturale di cui esistono anche delle immagini.
Va da sé che il talento mediatico di Madre Teresa, la sapiente
costruzione della sua figura e della sua santità, non mettono
minimamente in discussione il senso del suo apostolato.
Non
tolgono nulla a quella che Shakespeare chiamava la «qualità della
misericordia». Che indusse le autorità indiane a considerare la suora
cattolica come una santa vivente, al di là di ogni differenza e
contrapposizione religiosa. Che era un modo per rendere omaggio alla
grandezza della benefattrice e al tempo stesso alla millenaria eredità
spirituale dell’India. Perché se è vero che nella scelta e nella
valorizzazione delle virtù che fanno tale un santo ogni società riflette
e sacralizza l’immagine delle sue virtù, il Subcontinente fece della
carismatica di Skopje la figura in cui, proprio attraverso la lente
della carità cristiana, appariva ingrandito il filone più alto della
cultura indiana, quello compassionevole e tollerante, che va da Buddha a
Gandhi.
In un tempo come il nostro, dominato dall’immagine e dal
potere virale della comunicazione, è passato ai media il compito di
scrivere la storia dei santi, di globalizzarne il profilo e diffonderne
il culto ai quattro angoli del pianeta. Insomma televisione e Internet
fanno quello che una volta facevano gli agiografi, i missionari, i
predicatori, la pittura religiosa. Oggi al passaparola devoto si è
sostituito il mormorio della Rete.
D’altra parte ogni epoca ha i
suoi mezzi di produzione del sacro. I suoi codici dell’ethos e del
pathos. E nella civiltà digitale la costruzione sociale della santità,
la materia stessa del corpo santo, sono essenzialmente di natura
mediatica. Perché gli strumenti del comunicare riescono a
transustanziare la spiritualità in icona.
L’immortale in virtuale.
L’incorporeo in immateriale. E a tradurre l’esemplarità dei santi in
segni comprensibili da tutti, credenti e non. Trasformandoli in tag
universali. Come è accaduto alla piccola suora albanese, divenuta il
simbolo globale di un’umanissima cognizione del dolore. Che tocca il
cuore di tutti.