Repubblica 11.3.16
L’intervista.
Il 31 dicembre del 1991
l’Unione Sovietica cessò di esistere. “Fu una giornata terribile”,
racconta l’ex presidente ottantacinquenne “Mi aspettavo una reazione del
paese, ma non ci fu”
Il ricordo di Gorbaciov “Venticinque anni fa provai a salvare l’Urss ma Eltsin mi tradì”
di Fiammetta Cucurnia
MOSCA
PROVATO nel fisico, ma sempre lucido, Mikhail Gorbaciov appoggia sul
bastone il peso degli anni e delle sconfitte. Soltanto pochi giorni fa,
il primo e ultimo presidente dell’Unione Sovietica ha festeggiato il suo
85esimo compleanno. Evento non comune in questo Paese dove pochi
raggiungono una simile età. Ma tra i canti e i brindisi dei
festeggiamenti non si avvertiva davvero un clima di festa. Sullo sfondo,
ignorato, come un fantasma aleggiava il ricordo di un dramma mai
dimenticato. Venticinque anni fa crollava l’Urss. «Brutti ricordi» dice
Mikhail Gorbaciov, seduto nella poltrona del suo studio di Mosca, sul
Leningradskij Prospekt.
L’Unione Sovietica cessò di esistere il 31
dicembre del 1991. Ma il suo certificato di morte fu firmato in
Bielorussia l’8 dicembre di quell’anno dai presidenti di Russia, Ucraina
e Bielorussia, Boris Eltsin, Leonid Kravcjuk e Stanislav Shushkevic.
Come trascorse lei quelle ultime ore dell’Urss?
«Si riunirono in
totale segretezza nella dacia di Viskuli, nella foresta di Belovezh, con
pochi fidati consulenti, come Egor Gajdar, che poi divenne primo
ministro. Erano protetti dalle forze speciali. Fecero tutto in fretta e
furia, lontano dagli occhi del mondo. Da lì non giungevano notizie a
nessuno. Neanche a me. E chi avrebbe potuto informarmi, se il Kgb era
con loro? Fu una giornata terribile. Pur senza notizie di prima mano,
avvertivo l’enormità di quel che stava accadendo. La sera mi telefonò
Shushkevic per comunicarmi la fine dell’Urss e la nascita della Comunità
di Stati Indipendenti. Boris Eltsin aveva già informato il presidente
americano George Bush. Al telefono ebbi l’impressione che l’accordo non
fosse del tutto convincente neppure per i suoi stessi autori. Decisi che
non era ancora il momento di arrendersi. Del resto erano mesi che
lottavo».
Sapeva che l’epilogo sarebbe stata la dissoluzione?
«Come
potevo ignorare il rischio che incombeva su di noi? Dal giorno del mio
ritorno dalla Crimea dopo il golpe di agosto non avevo fatto altro che
tentare di ricucire uno straccio di Trattato per rifondare l’Unione. Con
le Repubbliche che ci volevano stare. Alle loro condizioni. Anche senza
di me. Almeno una parte. Certo non i Baltici, che avevano già deciso.
Trattative su trattative, bozze di accordo su bozze di accordo per
cercare di tenere insieme il Paese. L’Ucraina non partecipò, soprattutto
dopo il referendum sull’autonomia, rifiutava ogni incontro. Ma io mi
ostinavo caparbiamente a tentare ogni carta. Ero convinto che se la
Russia, la Bielorussia e gli altri avessero firmato, in qualche modo
anche Kiev avrebbe aderito. Eltsin continuava a dire “l’Unione ci sarà”.
Ma aveva ben altre intenzioni».
Com’era il suo rapporto con Eltsin?
«In
quell’ultimo mese ci vedevamo o almeno ci sentivamo ogni giorno. Si
parlava di tante cose, ma la questione principale restava sempre quella,
salvare il Paese. Ricevevo telefonate dai leader stranieri, Bush, Kohl,
John Major, dalle quali trapelava un’inquietudine crescente. Ero
assediato dalla stampa. Ma Eltsin prendeva tempo. Cominciai a rendermi
conto che era molto più furbo e infido di quanto avessi immaginato. Si
copriva dietro al rifiuto ucraino. Invece di assumersi la responsabilità
delle sue decisioni di fronte al Paese che — e lui lo sapeva — non
voleva assolutamente la dissoluzione dell’Urss, usava l’Ucraina come
scudo. “Senza l’Ucraina non c’è Unione” diceva. E poi: “Che si fa se
Kravcjuk non accetta?”. Alla vigilia dell’incontro bielorusso, lo
ricordo bene, gli dissi “Boris, sull’Urcaina non mollare. Ci sono
milioni di russi che vivono lì, c’è la Crimea, non sia mai”. “Ma con
Karvcjuk non può parlare..”, rispose. Strano che Eltsin sia ricordato
come un uomo coraggioso. Non lo era. Si faceva forte degli altri, della
folla che lo circondava... un demagogo. Quando tornò dalla Bielorussia
lo chiamai io, perché non veniva. “Non posso” mi disse “qui sotto ci
sono molte macchine, c’è gente. Non so se è sicuro muoversi”. Aveva
paura».
Alla fine del 1987, dopo una violenta critica contro il
partito e contro di lei, Eltsin fu allontanato dal Comitato Centrale del
Pcus e dalla guida del Partito di Mosca. Perché lei decise di nominarlo
ministro invece di renderlo inoffensivo, quando ancora poteva,
nominandolo, magari, ambasciatore in Mongolia, come avrebbero fatto i
suoi predecessori?
«Se ti guardi indietro, la vita è piena di
errori. Ho sbagliato. Non ho visto quello che poteva accadere. O,
almeno, questo ho pensato per molti anni. Oggi non lo so più, forse le
cose sono andate come dovevano andare ».
Lei si dimise solo il 25
dicembre del 1991 «Nei 17 giorni che seguirono gli accordi di Belovezh
mi aspettavo una reazione degli intellettuali, della gente. Certo, il
Paese era sotto choc. Nessuno comunque scese per strada. Sembrava quasi
che le sorti dell’Urss fossero un problema soltanto mio. Non ci fu un
ukaz per destituirmi. Lo decisi autonomamente. Salutai i leader
stranieri, parlai al Paese e me ne andai».
Che cosa pensa oggi di Putin?
«Rimprovero
a Putin la lentezza del processo democratico. Perché è vero che molte
delle libertà civili introdotte con la perestrojka resistono e che la
stragrande maggioranza dei russi ha votato per Vladimir Putin. Ma
nessuno sa quale sarebbe la loro scelta se l’intero processo elettorale,
dalla selezione dei candidati in poi, fosse davvero libero e
democratico ».
Dopo l’annessione della Crimea e l’intervento in Siria lei pensa che Putin abbia mire imperialiste?
«Questo
no. Innanzitutto in Crimea c’è stato un referendum che ha stabilito la
volontà dei cittadini. Inoltre la Crimea è Russia, e sfido chiunque a
dimostrare il contrario. In Siria, poi, contro il terrorismo, la Russia
ha fatto il suo dovere».