il manifesto 11.3.16
Amos Gitai L’omicidio che ha infranto il sogno del Medio Oriente
Amos
Gitai parla di politica e altro in occasione della presentazione della
sua mostra «Chronicle of an Assassination Foretold», la cronaca di un
omicidio annunciato: quello del primo ministro Itzhak Rabin.
di Giovanna Branca
ROMA
In Israele come in Europa stiamo vivendo dei tempi bui. «Da noi è più
una tragedia territoriale, mentre qui da voi si tratta della tragedia
dei profughi», dice Amos Gitai al Maxxi di Roma in occasione della
presentazione della sua mostra «Chronicle of an Assassination Foretold»,
la cronaca di un omicidio annunciato: quello del primo ministro Itzhak
Rabin.
Davanti a questi periodi di oscurità, dice il regista
israeliano, gli artisti devono interrogarsi su come parlare per e del
loro tempo. «Mi ha sempre interessato la presa di posizione degli
artisti quando i loro paesi vengono trascinati in simili crisi», osserva
Gitai che ha scelto la via del cinema proprio quando, racconta, si è
trovato suo malgrado coinvolto nella guerra dello Yom Kippur. «Da
ragazzo stavo per seguire le orme di mio padre, che è un architetto. Poi
a 23 anni sono stato mandato in guerra: lavoravo su un elicottero di
soccorso che è stato abbattuto da un razzo siriano. Così al mio ritorno
ho deciso di dedicarmi al cinema come mezzo per pormi le domande
necessarie e parlare di un paese che amo e con cui troppo spesso mi
trovo in disaccordo». L’arte è infatti anche un compito civile, rispetto
al quale secondo Gitai gli artisti europei si stanno rivelando un po’
«deboli, troppo assorbiti da problemi di forma».
La mostra e il
suo ultimo film Rabin, the Last Day si confrontano invece con un evento
che, a detta di Gitai, «ha decapitato tutte le nostre speranze e i
nostri sogni per un diverso Medio Oriente, un evento accaduto 20 anni fa
ma le cui conseguenze viviamo ancora oggi e che ha determinato
trasformazioni che influenzano le dinamiche del mondo intero». Il
progetto è nato circa tre anni fa, quando il regista e il suo gruppo di
collaboratori ricorrenti – «io li chiamo il mio Kibbutz privato», dice
Gitai – si interrogavano appunto su ciò che li rendeva particolarmente
«infelici» del loro paese: «i continui toni razzisti, i tentativi del
primo ministro di limitare la libertà di stampa, la chiusura ad Haifa,
la mia città, dell’unico teatro arabo. E la sola figura politica che si
sia mai veramente opposta a tutto questo ha perso la vita».
Così
Gitai decide di interpellare la memoria di quell’uomo – «se gli ebrei
non restassero ancorati alla memoria non esisterebbero», scherza – e
inizia una ricerca sull’omicidio di Rabin.
La prima persona a cui
si rivolge è il Presidente della Corte Suprema, a capo della commissione
che indagò sull’assassinio. «Gli ho detto che non aveva fatto un buon
lavoro – racconta Gitai – perchè si è occupato di smascherare le falle
operative che hanno condotto alla morte di Rabin ma non il violento
movimento di opinione che è la vera causa di quella morte. Così lui mi
ha chiesto cosa potesse fare, e io gli ho detto di metterci a
disposizione tutti i documenti di quella inchiesta».
Così,
all’Archivio di Stato di Gerusalemme il regista trova quella che sarebbe
stata la fonte principale del suo lavoro: il film come la mostra ma
anche una rappresentazione teatrale. «Già in passato ho realizzato delle
trilogie, ma questa è verticale – spiega Gitai – prima il film, poi la
mostra e infine un’opera teatrale che andrà in scena ad Avignone, con la
partecipazione dell’attrice palestinese Hiam Abbas, sul punto di vista
della vedova di Rabin».