Repubblica 11.3.16
Il Segretario prigioniero
di Guido Crainz
AFFONDA
molto all’indietro e ha molte ragioni la deriva del Partito
democratico, il suo logorarsi in dissoluzioni e frantumazioni, e talora
indecenze, sempre più incomprensibili. Sembra tramontare per questa via
la possibilità stessa di una forza riformatrice nel nostro Paese: di
questo si tratta e di questo occorre ragionare.
Era ambiziosa
l’idea che iniziò faticosamente a profilarsi dopo il trauma di
Tangentopoli, nello scomparire dei grandi partiti del Novecento: l’idea
di raccogliere i lasciti più fecondi delle principali correnti
riformatrici per costruire una realtà nuova, adeguata alle nuove sfide.
Non era più possibile guardare all’indietro: i funerali di Berlinguer,
nell’ormai lontanissimo 1984, avevano visto l’ultimo, commosso apparire
di un “popolo comunista” di cui erano crollati ormai i pilastri
fondativi (dalla “centralità operaia” ai riferimenti internazionali e ad
altro ancora). E Tangentopoli aveva reso solo più evidente quanto fosse
deperito e degradato il riformismo cattolico nel corso di una lunga
occupazione del potere. Non era solo italiana la crisi dei partiti
fondati sulla militanza e sull’appartenenza o l’affermarsi di una
“democrazia del pubblico”, per dirla con Bernard Manin: la
trasformazione cioè della comunità dei cittadini in una platea di
spettatori, con il subentrare della comunicazione mediatica alla
partecipazione sociale e all’organizzazione sul territorio. Da noi
questo processo si tinse però di accentuazioni ulteriori, rafforzate dal
crollo della “prima Repubblica” e dall’irrompere della stagione di
Berlusconi: per la ricostruzione di un’alternativa riformatrice
diventava fondamentale allora dare corpo a una proposta di buona
politica capace di coinvolgere le energie e le intelligenze migliori
della società italiana. Questo mancò, e la sinistra parve riproporre
tutti i vizi del vecchio sistema dei partiti: quasi irridendo, in alcuni
suoi leader, alle proposte di aprirsi alla società civile. E lasciando
colpevolmente deperire anche la “primavera dei sindaci”, inaugurata
dall’elezione diretta dei primi cittadini.
È su questa china che
il centrosinistra ha visto progressivamente isterilirsi il proprio ceto
politico, le proprie rappresentanze, le proprie dinamiche interne. Ha
visto moltiplicarsi burocrazie e piccoli potentati, e ha iniziato a
smarrire sin regole etiche. Un altro nodo è venuto poi alla luce
all’uscir di scena dei protagonisti formatisi all’alba della repubblica:
la grande inadeguatezza della generazione successiva della sinistra,
pur cresciuta negli anni di uno straordinario miracolo economico, di una
forte apertura culturale e di un diffuso protagonismo collettivo.
Qualunque sia stata la sua scelta iniziale nel partito comunista in
espansione degli anni Sessanta e Settanta o nelle effimere esperienze
all’esterno di esso - quella generazione mancava ora largamente alla
prova, e una sua parte era già affondata con il Psi craxiano. Veniva
anche da qui l’incapacità della sinistra di rivolgersi agli italiani nel
momento stesso in cui il ventennio berlusconiano franava lasciando
orfana, smarrita e inasprita quell’ampia parte del Paese che vi aveva
creduto. In quelle voragini è cresciuto vorticosamente l’astensionismo,
ha fatto irruzione il ciclone a 5 Stelle, pur incapace di proposte, ed è
progressivamente affondato quel che restava dei riti sempre più afasici
del centrosinistra. Sembrò aprire una stagione nuova l’ingresso in
campo di Matteo Renzi, con la proposta di “rottamare” le vecchie
modalità della politica (questo giornale sintetizzò così le sue
dichiarazioni dopo le primarie del 2013: Il trionfo di Renzi. “ Cambio
subito il Pd” e “ Oggi è il nostro punto di partenza, tagliamo un
miliardo alla politica”).
Venne soprattutto da qui il successo
alle elezioni europee del 2014, in cui il Pd riconquistava tutti i suoi
elettori - come non accadeva da tempo - e ne attraeva moltissimi altri.
Era un dato fondamentale in un Paese che stava smarrendo la fiducia
nella democrazia e due anni dopo non è facile comprendere perchè la
leadership di Renzi abbia in qualche modo tradito se stessa proprio su
questo nodo centrale, smarrendo l’iniziale “spinta propulsiva” e larga
parte della propria credibilità. Poteva avere buone ragioni, certo,
l’idea di rinnovare il Paese a partire soprattutto dall’azione di
governo ma va riconosciuto che non ha retto alla prova.
Il
segretario “rottamatore” è apparso sempre più prigioniero di feudatari
locali, soprattutto nel Mezzogiorno; sempre più sordo ai segnali che via
via venivano (si pensi almeno all’astensionismo esploso nella
roccaforte emiliana); condizionato in alcune realtà, e non solo a Roma,
da un partito «dannoso e pericoloso» (parole di Fabrizio Barca) che
aveva preso corpo prima di lui; in estrema difficoltà nel proporre nelle
più importanti città italiane una classe dirigente all’altezza del
compito, e certo non stimolato da una sinistra interna a lungo silente
proprio su questi aspetti. Questi nodi hanno progressivamente e
rovinosamente occupato la scena mentre diventavano sempre più nebulose
le riflessioni sul futuro, sempre più “mediatica” e confusa la proposta
di prospettive reali, adeguate agli scenari internazionali e alle
difficoltà del Paese. Eppure oggi più che mai contenuti e modi di essere
della politica vanno ripensati insieme: radicalmente, pena l’estinzione
di una speranza riformatrice. E non è in gioco solo la sorte del Pd.