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il sonno ha le sue ragioni che la ragione non conosce
di Nico Pitrelli
Visioni
 doppie, tremori, difficoltà di movimento, un bisogno irresistibile di 
dormire in qualsiasi momento e in quasi la metà dei casi paralisi e 
morte. Subito dopo la prima guerra mondiale un morbo inquietante, 
l’encefalite letargica, flagellò prima l’Europa e poi il resto del 
mondo. Decine di migliaia di persone, secondo alcune stime addirittura 
un milione, furono colpite da una sonnolenza persistente contro la quale
 all’epoca non esistevano rimedi. Durò circa dieci anni, poi 
praticamente più niente: la “malattia del sonno” misteriosamente tolse 
il disturbo così come quasi dal nulla era comparsa. Se si escludono 
alcuni casi sporadici è infatti dal 1924 che non ne viene segnalata la 
comparsa in forme epidemiche. Eppure, come descritto in un articolo 
apparso su Scientific American all’inizio di questo mese, l’encefalite 
letargica, provocata da un virus tuttora sconosciuto, ci ha insegnato 
molto di quello che sappiamo oggi sul sonno, attività che riguarda 
indistintamente tutto il regno animale ma su cui rimane aperta la 
questione centrale: perché dormiamo.
Fu soprattutto l’acume di un 
aristocratico neurologo di origine greca, Constantin von Economo, 
formatosi nella tradizione culturale asburgica, a fornire in una 
monumentale monografia la migliore descrizione dell’encefalite come 
un’infiammazione del cervello. «L’impatto dei suoi studi sulla nostra 
disciplina», commenta a pagina99 Ugo Faraguna, neurofisiologo del sonno 
all’Università di Pisa, «si può paragonare a quelli di Einstein nella 
fisica». Così come continuiamo a trovare conferme sperimentali della 
teoria della relatività – vedi ad esempio la recente rilevazione delle 
onde gravitazionali – «decenni di lavori istologici non hanno fatto 
altro che confermare quanto von Economo aveva ipotizzato analizzando la 
sede dell’encefalite letargica, in particolare l’esistenza di 
interruttori del sonno e della veglia».
Nonostante siano passati 
circa novant’anni dai lavori del neurologo viennese, sono ancora 
tutt’altro che chiare le ragioni per cui dormiamo. Di sicuro sappiamo 
che il sonno fa bene, ma al momento attuale disponiamo solo di ipotesi 
riguardanti i meccanismi con cui agisce, con non poco disagio da parte 
degli studiosi. Nicola Cellini, ricercatore all’Università di Padova 
esperto del rapporto tra sonno e memoria, afferma che «per alcuni dei 
maggiori esperti a livello internazionale la funzione del sonno è oggi 
la domanda più imbarazzante per le neuroscienze». Secondo Cellini, che 
interverrà la prossima settimana sia a Padova che a Trieste alla 
Settimana del Cervello, una ricorrenza annuale con eventi in tutto il 
mondo per aumentare la consapevolezza pubblica nei confronti della 
ricerca nel settore, «probabilmente il sonno svolge più funzioni 
contemporaneamente, dalla rimozione delle neurotossine accumulate nel 
cervello durante il giorno, alla ristrutturazione delle memorie. Questo 
approccio è differente rispetto al passato. Per diverso tempo si è 
pensato ad esempio che dormire servisse a conservare o recuperare le 
energie cerebrali spese durante il giorno. Nel sonno però il nostro 
cervello non è affatto meno impegnato. Anzi, consuma quasi le stesse 
risorse usate quando siamo svegli».
Negli anni il quadro della 
ricerca sul sonno è cambiato sensibilmente. Le ipotesi sono aumentate e 
diventate più complesse. Una delle possibilità accreditate più di 
recente è quella secondo cui il sonno funzionerebbe da “spazzino”, 
servirebbe cioè a liberare il cervello da scorie potenzialmente 
neurotossiche, in particolare certi residui di proteine, accumulate 
durante la veglia. La funzione di ripulitura del cervello è stata 
mostrata nei topi in uno studio pubblicato sulla rivista Science nel 
2013 a firma di un gruppo di ricercatori dell’Università di Rochester, 
negli Usa, guidati dalla neuroscienziata danese Maiken Nedergaard. Se un
 simile meccanismo dovesse agire anche nell’uomo si potrebbe capire 
meglio l’associazione tra i disturbi del sonno e malattie 
neuro-degenerative come il morbo d’Alzheimer, in cui l’accumulo di una 
proteina chiamata beta-amiloide sarebbe il principale sospettato del 
danneggiamento e della morte delle cellule nervose.
Una seconda 
tendenza molto considerata attualmente vede come protagonisti due 
ricercatori italiani, anche se da tempo trasferitisi negli Stati Uniti. 
Si tratta di Chiara Cirelli e Giulio Tononi, dell’Università del 
Wisconsin, che nel corso degli anni hanno messo a punto la cosiddetta 
ipotesi dell’ “omeostasi sinaptica”. In un importante lavoro di rassegna
 della letteratura presentato sul giornale specialistico Neuron nel 
2014, i due autori hanno prospettato che, diversamente da quanto 
affermato da teorie più tradizionali, il cervello dormiente non 
consolida le connessioni neurali utili ad esempio a fissare quanto di 
importante abbiamo imparato nella fase di veglia. Anzi, quando dormiamo 
le connessioni neurali si indebolirebbero, perché viceversa il cervello 
si affaticherebbe troppo. Come spiega Faraguna, per diversi anni 
collaboratore di Tononi negli Usa, «questa ipotesi postula la necessità 
del sonno come momento in cui le sinapsi, vale a dire i punti di 
contatto tra le cellule nervose, vengono potate. Se durante la veglia le
 sinapsi fioriscono, durante la notte vengono tagliate. Si eliminano 
così le informazioni che non servono più e si liberano spazio ed energie
 per l’apprendimento di nuove informazioni il giorno seguente». Il sonno
 sarebbe il dazio necessario per lo svolgimento di questo processo. 
Perché dormire non è privo di inconvenienti. Anzi. «Da un punto di vista
 evolutivo», continua Faraguna, «il sonno è pericolosissimo poiché 
espone le prede a rischi facilmente immaginabili. Ma tutti gli animali 
dormono, senza eccezioni. Come ha affermato Allan Rechtschaffen, uno dei
 pionieri della ricerca in questo campo, se il sonno non avesse alcuna 
funzione allora si tratterebbe del più grande errore dell’evoluzione. Ma
 non è così. Dormire è il prezzo da pagare per imparare. E questo è in 
fondo un punto che su cui diverse ipotesi possono concordare».
 
