La Stampa 4.3.16
La “guerra segreta” dell’Occidente
Gli alleati si spartiscono le zone d’intervento
Italia a Tripoli, inglesi e francesi in Cirenaica
Cinquanta incursori passano alle dipendenze dell’intelligence
di Francesco Grignetti
Sarà
una tipica «guerra segreta», quella che la Coalizione occidentale
condurrà contro l’Isis in Libia. Una guerra di corpi speciali, di raid
aerei, di satelliti e droni. E soprattutto sarà una guerra affidata alle
milizie armate libiche, chiamate a dimostrare sul campo se davvero,
come dicono, vogliono liberare il loro paese dai terroristi affiliati al
Califfato.
Come ogni «guerra segreta» che si rispetti, stavolta
non ci saranno contingenti che partono, né discorsi alle truppe
schierate per il canonico «peace keeping». Non ci saranno nemmeno mappe
della Libia con le bandierine nazionali, comandi centrali e regionali,
check-point e pattugliamenti. Ci saranno però, pur non dichiarate, le
aree di competenza. Agli italiani e agli americani dovrebbe spettare il
«mentoring» delle milizie della Tripolitania, ai francesi e agli inglesi
i nomadi tuareg del Fezzan e le milizie filoegiziane di Haftar in
Cirenaica.
Una «guerra segreta», per definizione, è affidata alle
ombre. Eppure se ne sa già molto. Sul campo è noto che sono già
sbarcati i reparti speciali statunitensi, britannici e francesi. Non
quelli italiani, però. Non ancora, almeno. Anche l’Italia, infatti, si
prepara a mandare i suoi commando - come hanno rivelato ieri il Sole 24
Ore e il Corriere della Sera - dato che Matteo Renzi il 10 febbraio ha
firmato segretamente un decreto di attivazione specifico per la sola
area libica finalizzato a disporre il passaggio di militari alle
dipendenze dei servizi segreti. È una «attivazione» prevista dalle
norme. Si prevede così il transito di un massimo di 50 incursori che
passano alle dipendenze funzionali dell’Aise, l'Agenzia di informazioni e
sicurezza per l’estero. Saranno gestiti come gli 007.
È dal
novembre scorso, infatti, con il decreto di rifinanziamento delle
missioni all’estero, che si prevede l’estensione ai reparti militari
impegnati «in situazioni di crisi o di emergenza all’estero», delle
stesse garanzie legali previste per gli operatori dell’intelligence. Una
norma propedeutica a quanto accaduto il 10 febbraio. Con quel decreto
si era stabilito che il presidente del Consiglio può «emanare
disposizioni per l’adozione di misure di intelligence di contrasto, in
situazioni di crisi o di emergenza all’estero che coinvolgano aspetti di
sicurezza nazionale o per la protezione di cittadini italiani
all’estero, con la cooperazione di assetti della Difesa».
Fuori
di gergo, significa che alcuni uomini dei reparti d’élite delle nostre
forze armate - il Comsubin della Marina militare, il 9° reggimento Col
Moschin dell’Esercito, il Gis dei carabinieri, il 17° stormo
dell’Aeronautica - passeranno quanto prima, ovviamente con l’assenso
dello Stato maggiore Difesa, alle dipendenze di palazzo Chigi per essere
dispiegati in Libia, assieme a operatori dell’intelligence, i quali non
hanno mai mollato la posizione nonostante la nostra ambasciata a
Tripoli sia stata chiusa un anno fa. Stanno cioè per passare dal «codice
blu» al «codice rosso», che significa, sia chiaro, combattimento.
Andranno
in territorio ostile, gli incursori, come sono addestrati e abituati a
fare: in piccolissimi gruppi, sentendosi con la base attraverso
trasmissioni radio criptate, armati fino ai denti, e mai allo sbaraglio
ma in stretto contatto con le milizie alleate. Dovranno indirizzare i
combattimenti dei libici, ma anche garantire, quando servirà, il
supporto aereo che soltanto gli occidentali possono garantire. Se un
drone deve colpire una postazione dell'Isis, serve qualcuno che lo guidi
sull’obiettivo, e facendo attenzione al fuoco amico.