La Stampa 29.3.16
Isis in Libia
È il momento delle scelte
di Stefano Stefanini
Le
vie del terrorismo non sono infinte. Le ramificazioni hanno penetrato
l’Europa. Ma la testa è fuori, nel califfato fra Siria e Iraq. Con la
testa, i cordoni della borsa, l’addestramento, l’organizzazione, il
cordone ombelicale che ha consentito a Salah Abdeslam, Naijim
Laachraoui, Abdelhamid Abaaoud e complici d’insediarsi e operare fra
noi. Senza quel polmone esterno i terroristi si troveranno strade
tagliate anche in Europa.
Sotto pressione militare
l’impero del male di Abu Bakr al-Baghdadi sta perdendo colpi, uomini
chiave e territorio. Lo Stato Islamico rimane però pressoché
indisturbato in Libia, nel vuoto di potere fra fazioni e due governi che
si ostinano a non mettersi d’accordo, malgrado gli sforzi delle Nazioni
Unite e della benintenzionata diplomazia internazionale, Italia in
testa. Il califfato funziona più come magnete d’attrazione jihadista che
non come baluardo. E’ una struttura agile, non sposta mezzi pesanti, si
ricolloca facilmente. Se spogliato dei possedimenti mediorientali,
l’alternativa è già pronta: sulle sponde del Mediterraneo con
l’autostrada sahariana che gli apre le porte del Maghreb e dell’Africa
occidentale.
L’attenzione di questi giorni va a quanto emerge dagli attentati di Bruxelles.
Più
che un cellula, una ragnatela terroristica che, a giudicare dalla
connessione turca e dagli arresti di Parigi, Salerno e Rotterdam, si
estende senza troppi intralci - e non diamo tutte le colpe solo ai
belgi. La sequela di attentati in Turchia, Tunisia, Africa, da ultimo la
strage di Lahore contro la comunità cristiana, rispecchia la tragica
normalità del terrorismo. Adesso in Europa.
La recrudescenza di
attacchi, in particolare di questi ultimi a Bruxelles, avviene in
concomitanza con l’indebolimento del califfato in Siria e col
consolidamento della filiale libica. Americani, francesi e altri
partecipanti alla coalizione proseguono metodicamente l’opera di degrado
di Isis ed eliminazione dei capi, ultimo il numero 2 Haji Imam. Curdi e
iracheni recuperano lentamente territorio, potrebbero presto riprendere
Mosul. L’esercito regolare siriano, sulla scia dei bombardamenti russi,
ha ripreso Palmira; Assad ha annunciato la marcia su Raqqa. Restano da
vedere gli effetti sul tenue processo di pace siriano, che
naufragherebbe se Damasco volesse riprendersi la Siria senza compromessi
con l’opposizione, ma certo è che il califfato è alle strette.
La
recrudescenza di attacchi può essere risposta strategica o colpo di
coda. O tutti e due. Capirlo è importante per la dimensione della
minaccia e per difendersi. Ancora più importante è impedire che si formi
una nuova maxi-condotta terroristica di sorgente libica. L’Italia ne
sarebbe lo sbocco primario. In Libia, la presenza di Isis comporta
rischi ancora maggiori che non in Siria: controllo diretto di migranti;
rubinetto petrolifero; collegamento con la galassia jihadista africana
(Mali, Nigeria); destabilizzazione di Stati limitrofi come Tunisia,
Egitto, Marocco.
Lo Stato Islamico ha poco di libico. I militanti
provengono da altri Paesi arabi e maghrebini e sempre più dall’Africa.
Fa colonialismo mascherato da fondamentalismo religioso. Non ha bisogno
d’impadronirsi di tutto il Paese. I governi di Tobruk e Tripoli possono
continuare nel loro impotente scontro fra debolezze. A Isis basta
controllare, come già fa, pezzi di costa da cui operare e esportare
terrorismo, traffici d’esseri umani e altro.
La prospettiva del
califfato in Libia chiama in causa l’Italia. Il governo ha sempre
dichiarato di essere pronto ad assumere una responsabilità primaria per
la Libia, ovviamente condivisa con alleati europei e americani, con la
fiducia di Mosca. L’ha subordinata alla formazione di un governo di
unità nazionale da sostenere. Non sta accadendo. Sul come rispondere
all’insediarsi dello Stato Islamico - che sta accadendo - Roma invece è
rimasta silente.
Parigi e Londra spingono per interventi mirati
che colpiscano Isis nella fase di transizione, prima che si consolidi.
Non per il petrolio; la preoccupazione è il terrorismo in Europa e,
specie per la Francia, la destabilizzazione regionale. Washington è
sulla stessa linea, forse con un tocco di maggior prudenza. E’ anche più
lontana. L’Italia non parla.
Gli interventisti vogliono evitare
lo scenario siriano; la coalizione è arrivata tardi, Isis si era
radicata e resiste ai bombardamenti da due anni. In Siria ha seminato
panico, barbarie e provocato l’esodo di milioni si rifugiati. L’Italia
può avere ottimi motivi per essere contraria a interventi militari in
Libia. Deve allora spiegarli e offrire alternative. Altrimenti non
resterà che accodarci a, o estraniarci da, decisioni altrui. Altro che
guida. Chi non dice la sua ha sempre torto.