La Stampa 29.3.16
“Con cinque giovani attori palestinesi sfido la sacra scrittura di Shakespeare”
Marco
Paolini porta in scena con lo Stabile di Torino (e Vacis) “Amleto a
Gerusalemme” Ultimo atto di un progetto nato nel 2008: “Per quei ragazzi
è come affrontare il Corano”
di Tiziana Platzer
Sta
fuori al sole, nel cortile delle Fonderie Limone, la
struttura-scuola-fabbrica teatrale del Teatro Stabile di Torino. Parla
con un ragazzo palestinese, che ha un copione in mano, e lo agita. Una
delle felici anomalie dello spettacolo è che gli interpreti discutono
continuamente di quello che portano in scena.
Pane per i denti di
Marco Paolini, da qualche settimana «residente» alle Fonderie per le
prove di Amleto a Gerusalemme, al debutto stasera. Un progetto di
Gabriele Vacis a cui l’artista veneto ha collaborato - il primo incontro
teatrale fra i due risale ai tempi di Vajont, nel 1994 - ed è
interprete, insieme a cinque giovani attori palestinesi e tre italiani.
Quando è andato per la prima volta a Gerusalemme?
«Quando Vacis mi ha chiamato, nel 2008. A lui d
iede
l’incarico l’Eti, con il sostegno del ministero degli Esteri e la
Cooperazione per lo Sviluppo: l’idea era creare una scuola di
recitazione teatrale. Quando chiese agli insegnanti palestinesi quale
attore italiano avrebbero voluto per un seminario, dissero Dario Fo. Ma
Fo non era disponibile».
Lei sostituto di un Nobel quindi...
«Praticamente
sì, un vice. Ho lavorato al Palestinian Theatre a Gerusalemme Est una
settimana, cercando di proporre una commedia veloce, una fisicità che
permettesse di togliersi rapidamente dalla scena. E alla costruzione di
un canovaccio con ciò che osservavamo attorno a noi».
Ma lo spettacolo narra storie autobiografiche o Shakespeare?
«A
quelle audizioni risposero in ottantasei, e trenta ragazzi furono
presi, dai 15 anni in su. Adolescenti che volevano essere come tutti gli
altri adolescenti del mondo, e Amleto era per loro quello che è per i
nostri ragazzi che desiderano fare teatro: una sfida vera. Lo chiesero
loro. In Palestina il teatro è per pochi, ma se per noi Shakespeare è
una “sacra scrittura”, per quei ragazzi è stato come affrontare il
Corano».
Temi delicati per i giorni che viviamo, lei è riuscito a essere un osservatore neutrale?
«Mi
sono trovato davanti giovani con un’energia incredibile, contagiosa e
più cercavo di assorbirla e più ne tiravano fuori. Loro certo non sono
mai stati neutrali rispetto al vissuto che portavano sul palco. Sono
tanti i ricordi di quei giorni, l’entrata in Gerusalemme, i controlli, i
soldati, i pellegrini, eppure l’immagine che ho è entrare al Teatro
Nazionale e vedere una fila di sessanta scarpe allineate al limite del
palco. Sentire quell’odore di chi prepara i propri piedi a entrare nel
teatro».
E la fotografia di oggi qual è?
«Dopo sette anni di
quei 30 ragazzi ne sono rimasti cinque, che rappresentano la nuova
generazione di attori palestinesi. Abbiamo perso tutte le ragazze, però,
perché al compimento dei 18 anni le famiglie non permettono di stare in
scena».
Impensabile per le donne una carriera nello spettacolo.
«Sì, ma penso lo possa essere anche per la famiglia di un ferroviere italiano».
E lei in mezzo a questa potenza generazionale, che spazio si è riservato? Voce narrante dell’«Amleto»?
«Ancora
volete che racconti storie? Faccio il capocomico, il più vecchio di
loro ha la metà dei miei anni. Ma sono un attore e vivo la competizione,
per cui ogni tanto esagero. Il mio stare in scena è cercare di cambiare
la misura di quello che il teatro produce, pensando soprattutto a chi
non ha mai comprato un biglietto per uno spettacolo nella sua vita. Ho
creduto che questa fosse l’unica occasione, per me, di cimentarmi con
l’Amleto».