giovedì 31 marzo 2016

il manifesto 31.3.16
Virgilio, se i carabinieri vanno a scuola
Al liceo romano di via Giulia si esclude chi osa dissentire dalla dirigenza, anche all’interno del consiglio di istituto, del quale lo studente arrestato per spaccio faceva parte
di Maurizio Cosentino
Docente titolare di filosofia nel Liceo Statale Virgilio

I fatti accaduti in questi giorni e in quella che, un tempo, tra i licei romani, era la scuola più intellettualmente vivace e aperta al confronto, sono un vulnus inflitto a tutto il sistema dell’istruzione e dell’educazione scolastica. Le modalità con cui si è svolta l’operazione di arresto dello studente Luca Giordano hanno la parvenza di quelle solite della cattura di un superlatitante. Operazione certamente pianificata con la dovuta collaborazione della dirigenza.
Come docente titolare del Liceo statale Virgilio, non avrei voluto scrivere su quanto è accaduto, ma sono costretto a farlo almeno per due motivi: 1. dopo aver letto quanto altri, anche estranei al contesto della scuola, hanno scritto e dichiarato ai mezzi di informazione; 2. per tentare di capire qual è l’avvenire delle nostre scuole. Tento di farlo per ciò che ritengo mi competa, innanzitutto come testimone diretto dei fatti, e come docente della scuola in questione che si dissocia radicalmente dal contenuto della lettera, di cui non ero stato informato, pubblicata su Il Messaggero il 26 marzo, a firma: i docenti del Virgilio.
Comincio con una testimonianza personale. Mercoledì 23 marzo, il giorno successivo all’arresto, la scuola era, si può dire, vuota. Ho fatto un giro per i piani perché gli alunni della classe dove avrei dovuto svolgere le prime ore di lezione erano tutti assenti. Molti docenti si trovavano nella sala del consiglio coi registri in mano. Un gruppo di genitori si era lì recato per il ricevimento dei docenti, non avendo però letto la comunicazione, emanata solo due giorni prima, con la quale il ricevimento dei genitori era stato sospeso proprio in concomitanza con la data dell’operazione di arresto dello studente. All’interno dell’edificio di via Giulia ci saranno state poco più di cento persone. Basterebbe consultare i registri di classe per verificare le assenze degli studenti in quel giorno. Fuori dalla scuola c’erano, numerosissimi, gli studenti che protestavano in corteo. A casa era rimasta l’altra grande parte della popolazione studentesca che ha protestato in silenzio. È un dato oggettivo che non si è trattato di “gruppi minoritari”, “della minoranza”, di “cento studenti”, di “esiguo gruppo” se ci si vuol riferire a chi ha espresso dissenso e preoccupazione per ciò che è accaduto il giorno prima. La folla di studenti che si era prima organizzata in corteo e che, dopo, essendo rimasta assediata – da un lato dai blindati della polizia e dall’altro dallo stesso personale scolastico che ne ha impedito l’ingresso a scuola, sbarrando il portone – aveva chiesto, avendone lo stesso diritto di chi si trovava già dentro la scuola, di poter prender parte a un’assemblea straordinaria, convocata solo lo stesso giorno, a partire dalle ore 11,15 e d’autorità, e che perciò ha avuto luogo per i soli pochi alunni presenti all’interno dell’edificio. Dentro i buoni, fuori i cattivi. Ecco il messaggio che la dirigenza scolastica in nome della “buona scuola”, ha voluto trasmettere. Se fosse stato un “esiguo” gruppo di manifestanti, “cento” studenti, non si sarebbe certo impegnata e mobilitata tutta quella forza pubblica e perfino coi blindati e in tenuta antisommossa, come quella che tutti hanno potuto vedere dalle foto pubblicate sui giornali.
Da tale contesto emergono altre imprecisioni o, se dovessimo chiamarle col loro giusto nome, falsità. La prima e più inquietante è: i manifestanti, studenti e genitori, hanno protestato al fine di rivendicare la libertà di spaccio e il consumo di droga all’interno della scuola e per difendere una sorta di “extraterritorialità”, sottratta al controllo della legge. L’altra, non meno preoccupante, che la mobilitazione e la protesta del cosiddetto “gruppo minoritario” è motivata (come ha dichiarato testualmente la stessa dirigente scolastica a Radio 24) da «interessi esterni molto forti. Interessi eversivi, antagonismo politico estremista, molto pericoloso che cerca di attecchire nelle scuole». Più volte e in diverse sedi, la dirigente scolastica ha parlato di questi alunni, indicandoli come «persone violente».
Da quando insegno al Virgilio non ho mai avuto la minima percezione di estremismi politici eversivi. Prima di me, se ciò fosse stato vero, la presenza di forze o organizzazioni eversive l’avrebbero rilevata la Digos e il Ministero dell’Interno. Quello che invece mi ha disgustato è stata la cancellazione della scritta “Virgilio Antifascista” che gli studenti avevano apposto su un murales realizzato nel cortile dell’istituto. La dirigente scolastica lo ha fatto cancellare affermando che quella scritta incitava alla violenza e all’odio.
Si abbia a questo punto l’onestà di dire e riconoscere che il liceo Virgilio vive e subisce al proprio interno una condizione di disagio e di divisioni odiose che tendono a escludere o mettere alla porta con ogni mezzo possibile, chi osa dissentire dai piani mirati della dirigenza, anche all’interno del consiglio di istituto, del quale lo studente arrestato faceva parte.
Luca Giordano è stato per un anno mio alunno e avrebbe continuato a esserlo se la dirigente scolastica non mi avesse rimosso – nonostante i numerosi dissensi degli alunni – da quella classe e anche da altre. Le ragioni con le quali la dirigente mi motivò l’allontanamento da quella classe le potrei comunicare solo al pubblico ministero titolare del procedimento, qualora lo ritenesse opportuno. Per quanto possa attestare dalla mia conoscenza dello studente, ritengo che non si tratti di persona più problematica di quelle presenti in tutte le scuole, connesse anche a una fase della crescita e dello sviluppo della coscienza che ogni persona, in modo sempre diverso, vive e afferma. Ritengo con maggior certezza che, nel caso di Luca, non si tratti di individuo criminale né di contesto familiare o socio-culturale deprivato di modelli e pratiche dalla forte connotazione civile ed etica. Il trattamento che però gli è stato riservato, rischia di equipararlo ad avvezzo malfattore.
Tornando alla situazione generale del liceo Virgilio, del quale questa esperienza rappresenta un’acme, su alcuni dati oggettivi, documentati e inconfutabili ci si deve assolutamente interrogare. Essi sono i seguenti: il piano dell’offerta formativa triennale (PTOF), votato a maggioranza nel consiglio di istituto con l’unanime voto contrario della rappresentanza degli studenti e della maggioranza dei genitori; l’elevatissima richiesta di nulla osta (più di cento), da ottobre a febbraio, per il trasferimento di alunni ad altra scuola; la palese spaccatura nelle votazioni all’interno del collegio docenti; il ricorso, fino al parossismo, dei cosiddetti “consigli di disciplina” con convocazione dell’intero consiglio di classe, al fine di irrogare sanzioni disciplinari gravissime, per questioni sulle quali la pedagogia del dialogo, la responsabilizzazione e la fiducia avrebbero potuto sortire effetti migliori; il bassissimo numero di iscrizioni, rispetto a quello che si registrava fino a tre anni fa, e che quest’anno è ancora di più diminuito, con conseguente riduzione della formazione delle prime classi nonché del numero dell’organico dei docenti.
È un vero peccato che un liceo così prestigioso sia finito sulle cronache nazionali solo per un grammo e mezzo di hashish o per l’occupazione di due settimane. Le scritte dentro e fuori i muri della scuola che invitano la dirigente ad andarsene, sono rivelatrici di una sofferenza diffusa, prolungata e divenuta, oggi, insostenibile.
Non tocca a me né a nessun altro che non sia investito dei poteri che la Costituzione assegna alla magistratura, valutare o giudicare se quello che è accaduto sia stato giusto o sbagliato. Questo dovrebbe valere, oltre che per i firmatari della lettera inviata a Il Messaggero, in primo luogo per la dirigente scolastica che, sulla pelle di un alunno, si è riempita la bocca della parola “Stato”, identificando o scambiando azione educativa con intervento repressivo.