il manifesto 2.3.16
Sul precipizio
di Tommaso Di Francesco
La
guerra altro non è che seminagione d’odio. Nessuno dei conflitti
proclamati dall’Occidente dal 1991 ad oggi — Iraq, Somalia, Balcani,
Afghanistan, Libia, Siria — ha benché minimamente risolto i problemi sul
campo, anzi li ha tragicamente aggravati.
Senza l’intervento in
Iraq del 2003, ha confessato «scusandosi» lo stesso ex premier
britannico Tony Blair, tanto caro al rottamatore Matteo Renzi, lo Stato
islamico nemmeno esisterebbe. Gli «Amici della Siria», vale a dire tutto
lo schieramento occidental-europeo più Arabia saudita e Turchia, hanno
fatto l’impossibile per fare in tre anni in Siria quel che era riuscito
in Libia, alimentando e finanziando milizie e riducendo il Paese ad un
cumulo di macerie alla mercé di gruppi più o meno jihadisti e con così
tanti errori commessi da permettere alla fine il coinvolgimento in armi e
al tavolo negoziale perfino della Russia di Putin.
I rovesci in
Libia tornano addirittura nelle elezioni statunitensi, con il New York
Times che, con focus su Hillary Clinton, ricorda la posizione favorevole
alla guerra di fronte ad un recalcitrante Obama. Senza dimenticare la
tragedia americana dell’11 settembre 2012 a Bengasi.
Quando Chris
Stevens, l’ex agente di collegamento con i jihadisti che abbatterono
Gheddafi grazie ai raid della Nato, cadde in una trappola degli
integralisti islamici già alleati e venne ucciso con tre uomini della
Cia. Hillary Clinton, allora Segretario di Stato uscì di scena e venne
dimissionato l’allora capo della Cia David Petraeus. Perché la guerra ci
ritorna in casa. Avvitandosi nella spirale del terrorismo islamista.
Dalle
«nostre» guerre fuggono milioni di esseri umani. Quando partirono i
primi raid della Nato sulla Libia a fine marzo 2011, cominciò un esodo
in massa di più di un milione e mezzo di persone, tante quelle di
provenienza dall’Africa centrale che lavoravano in territorio libico, ne
fu coinvolta la fragilissima e da poco conquistata democrazia in
Tunisia. Quell’esodo, con quello da Iraq e Siria, prova disperatamente
ogni giorno ad attraversare la barbarie dei muri della fortezza Europa.
Tutto
questo è sotto la luce del sole. Come il fatto che l’alleato, il
Sultano atlantico Erdogan, da noi ben pagato, preferisca massacrare i
kurdi che combattono contro l’Isis piuttosto che tagliare gli affari e
le retrovie con il Califfato.
Eppure siamo di nuovo in procinto di
innescare un’altra guerra in Libia. Dopo che il capo del Pentagono
Ashton Carter ha schierato l’Italia sostenendone la guida della
coalizione contro l’Isis e per la sicurezza dei giacimenti petroliferi.
Il ministro Gentiloni si dichiara «pronto». In altri tempi si sarebbe
detto che un Paese dalle responsabilità coloniali non dovrebbe esser
coinvolto. Adesso è motivo d’onore: siamo al neo-neocolonialismo.
Motiveremo
questa avventura nel più ipocrita dei modi: sarà una «guerra agli
scafisti». Sei mesi fa quando venne annunciata, Mister Pesc Mogherini
mise le mani avanti ricordando, com’è facile immaginare, che ahimé ci
sarebbero stati «effetti collaterali». Nasconderemo naturalmente il
business e gli interessi strategici ed economici. Ormai siamo alla
rincorsa della pacca sulle spalle Usa e delle forze speciali francesi,
britanniche e americane già sul terreno.
L’Italia ha convocato nei
giorni scorsi il suo Consiglio supremo di difesa e prepara l’impresa
libica. Con un occhio all’Egitto sotto il tallone di Al Sisi, ora in
ombra per l’assasinio di Giulio Regeni. C’è da temere che la giustizia
sulla morte di Giulio Regeni venga ulteriormente ritardata e
oltraggiata, e di nuovo silenziata la verità sul regime del Cairo,
criminale quanto l’Isis. Perché l’Egitto — anche con i suoi silenzi? —
resta fondamentale per la guerra in Libia: è la forza militare diretta o
di supporto al generale Haftar, leader militare del governo e del
parlamento di Tobruk che ancora ieri ha rimandato il suo assenso (che
alla fine arriverà) ad un esecutivo libico «unitario». È una decisione
formale utile solamente a richiedere l’intervento militare occidentale.
Perché
la Libia resta spaccata almeno in tre parti, con Tripoli guidata da
forze islamiste che temono che un intervento occidentale diventi un
sostegno alle forze dello Stato islamico posizionate a Sabratha, Derna,
Sirte, già impegnate nella propaganda anti-italiana prendendo senza
vergogna in mano la bandiera e le gesta di Omar Al Muktar, l’eroe della
resistenza al colonialismo fascista italiano.
Mancano pochi giorni
al precipizio. Chi ha a cuore l’articolo 11 della Costituzione, chi è
contro la guerra, una delle ragioni per ricostruire e legittimare lo
spazio della sinistra, alzi adesso la voce.