il manifesto 19.3.16
Verità nascoste. La rubrica settimanale di Sarantis Thanopulos
La normalità riflessa nella morte
di Sarantis Thanopulos
Il
padre di uno dei due assassini romani, che hanno ucciso per vedere la
morte impossessarsi della vita di un loro coetaneo, ha reagito alla
catastrofe avvenuta scartando il silenzio, l’opzione migliore, per
affidarsi al suo blog. Ha scritto, citando la lettera di incoraggiamento
di un suo amico, di confidare nella propria capacità, più volte
collaudata nella vita, di riparare le cose negative, trasformandole in
cose positive.
Questo padre non è sfiorato dal dubbio che il danno
avvenuto sia irreparabile e senza possibilità di ritorno alla buona
sorte. Lasciare fluire il dolore e far sedimentare la disperazione, in
lunghi anni di smarrimento delle proprie certezze sociali e di
ritrovamento delle ragioni più private e personali di sé, non curerà mai
del tutto la ferita, ma serve per mantenersi vivi, per restituire al
mondo, attraverso se stessi, qualcosa della sua umanità.
Non si
può, tuttavia, scaricare su un genitore, come colpa personale, il
difetto collettivo di una mancanza crescente di responsabilità. La
refrattarietà a riconoscere le impasse e i fallimenti, di fare i conti
con le rinunce e le perdite, distinguendo tra inibizione e necessità,
crea una nuova cultura della normalità.
Non è normale che la vita
sia fatta ugualmente di felicità e di infelicità, che la buona e la
cattiva sorte confliggano e dialoghino. È normale essere «normali»:
privi di problemi particolari e del tutto isomorfi agli altri, senza
un’esistenza singolare che causi allarme a se stessi e al prossimo.
Non
è un fatto casuale che la cocaina avvolga il delitto di Roma nelle sue
nebbie. È uno strumento molto efficace di anestesia performativa:
l’agire senza essere davvero presenti in sé. Con il suo effetto
anestetico sorregge la «normalità» del non voler sentire e sentirsi. Con
il suo effetto performante eccitante dà un’illusione di vitalità che
bilancia la morte dei sentimenti a cui conduce la negazione, sotto forma
di oblio, della sofferenza.
La presenza della cocaina nella
nostra vita è una realtà molto diffusa perché non sia riconosciuta,
eppure non lo è. La sua percezione richiede la messa in discussione
della cultura omologante che si appropria del suo uso.
Lo stato
alterato di coscienza, che la cocaina induce, non è la causa
dell’assassinio commesso dai due automi, anche se è stato usato per
sciogliere i loro freni inibitori. La causa vera è la morte psichica
dalla quale sono invasi, che la cocaina chiamata a contrastarla, non ha
fatto che promuovere.
Vedere un coetaneo, stordito anche lui da
una sostanza somministratagli appositamente, morire nella più atroce
delle agonie, ha avuto il significato di estroflettere lo stato
agonizzante della vita dentro di loro, proiettandolo sulla vittima. Non
per liberarsi della morte che incombe nel loro mondo interno, ma per
riflettersi in essa, sfidandola.
Il sadismo terrificante che
domina la scena di questo crimine, deriva da una passione fredda,
invertita nella sua ragione d’essere.
La messa al bando della
sofferenza, il regno di una normalità che si riflette nel nulla, rende
l’amore insensato, un guscio vuoto.
L’odio orfano dell’amore, di
cui è espressione in condizioni di lutto e di dolore, diventa una forza
impersonale che, slegata dalla relazione con l’altro, assume un enorme
potenziale distruttivo che, incistato nello psichismo, è in attesa di
esplodere. Cerca nell’altro il volto della madre sfinge (metafora di un
mondo che ha perso il suo senso), la maschera di morte con cui può
competere: «Non ti temo, sono della stessa sostanza che cancella la vita
di cui sei fatta tu».