il manifesto 16.3.16
Toni Negri, un pregiudizio lungo quarant’anni
Intellettuale perché militante politico. Questa la ragione di una pervicace ostilità
di Sergio Bianchi
Le
ragioni del perché Toni Negri sia lodato dagli intellettuali di mezzo
mondo quanto disprezzato da quelli del suo paese non è di facilissima
comprensione. In parte sarà senz’altro dovuto al residuo di quella
montagna di odio che quasi quarant’anni fa i media hanno saputo
orchestrare nei suoi riguardi. Eppure non si deve trattare solo di
questo. Perché il livore dimostrato in alcune recensioni alla recente
pubblicazione della sua autobiografia fa sorgere il dubbio
sull’esistenza di un istinto pregiudiziale che, per paradosso, vorrebbe
addirittura negargli la legittimità del ruolo di intellettuale. Come a
dire che non merita di appartenere a quella casta perché ne è stato
escluso innanzitutto per indegnità morale, essendo stato responsabile
della degenerazione violenta di decine di migliaia di giovani ai quali
aveva rivolto i sui cattivissimi insegnamenti.
A queste reiterate
accuse Negri sembra rispondere con il sorriso beffardo dell’immagine di
copertina del suo libro. Come a dire che no, non gli sono bastati oltre
dieci anni di galera e quattordici di esilio per pentirsi della sua
lunga esistenza spericolata e a precipizio, effettivamente non
riconducibile nei rassicuranti quanto banali panni dell’intellettuale
dispensatore di sani insegnamenti sull’opportunità della civile
convivenza. Perché Negri, piaccia o no, è sempre stato un intellettuale
schierato con la lotta di classe e convinto assertore di quella
trontiana massima «operaista» che con assoluta chiarezza recita: conosce
veramente solo chi veramente odia. I padroni s’intende. Perché Negri,
piaccia o no, è sempre stato, insieme, filosofo della politica e
militante politico, e ciò in modo coerente e indissolubile.
A
riguardo le pagine sulla sua partecipazione alle lotte operaie a Porto
Marghera negli anni Sessanta, e poi la fondazione di Potere operaio, e
poi ancora dell’Autonomia operaia, sono un straordinaria testimonianza
di cosa significhi essere soggetti produttori di ricerca teorico
filosofica e insieme militanti politici (anche) di base. E sempre a
proposito della dispensazione di una sana conoscenza, alle anime belle
che affollano la nostrana casta degli intellettuali, le quali a sentir
nominare Negri trattengono a fatica l’istinto di sputare per terra,
andrebbero chieste le ragioni del perché la condizione culturale del
nostro paese, a partire dalle università, versa nelle note, miserabili
condizioni. A Luciano Ferrari Bravo, l’amico intellettualmente più
legato a Negri e di conseguenza con lui stupidamente ristretto al
gabbio, era persona pacata, gentile e mite, solo una cosa riusciva a
mandarlo veramente in bestia, appunto l’accusa di essere stato,
all’epoca, lui e tutto l’Istituto di scienze politiche di Padova,
dispensatore di ignoranza. Ed è appunto con il riscontro dell’approccio a
una conoscenza non convenzionale sulla storia della lotta di classe nel
nostro paese, dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta, che
andrebbe affrontata la lettura dell’autobiografia di Negri. Un lavoro
che ha visto la partecipazione, segnata da un serio rigore quanto da una
silente e riservata modestia, di Girolamo De Michele, Tommaso De
Lorenzis e Vincenzo Ostuni.
A chi volesse avventurarsi in questa
impegnativa ma appassionante lettura, che svela nella sua prima parte le
vicende meno conosciute della biografia di Negri, quelle della sua
infanzia, adolescenza e giovinezza, va consigliata, a compendio,
l’accostamento di un’altro suo libro, Pipe-line. Lettere da Rebibbia,
un’opera che ripercorre nello specifico tutti i principali passaggi
della sua formazione filosofica, teorica e politica.