il manifesto 16.3.16
La Terra gemella di Hilary Putnam
Addio al filosofo e matematico statunitense che smantellò il dubbio cartesiano e scrisse «The Meaning of ‘Meaning’»
di Giovanni Iorio Giannoli
Quando
l’hacker-eroe del film Matrix si risveglia nel mondo reale (dominato da
macchine, che traggono energia dal metabolismo degli esseri umani),
arriva ad accorgersi che tutto quello che aveva fino allora pensato,
agito, goduto e patito nella sua vita era soltanto una realtà simulata,
trasmessa al cervello da un cordone di cavi.
Il film dei fratelli
Wachowski uscì in sala nel 1999; riproponeva, dopo oltre tre secoli e
mezzo, l’esperimento mentale suggerito da Descartes, nella sua Prima
meditazione: «Io supporrò, dunque, che vi sia (…) un certo cattivo genio
(…) che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io
penserò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e
tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di
cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me
stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come
non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste
cose».
Nel 1981, quasi vent’anni prima di Matrix, il filosofo
Hilary Putnam aveva discusso estesamente una eventualità del genere, con
intenti affatto diversi da quelli suggeriti da Descartes (che erano, in
sintesi: l’ineluttabilità del dubbio; l’intuizione dell’esistenza del
pensiero e, dunque, della materia pensante; la bontà di Dio, come
garanzia della verità). Accogliendo (per demolirla) l’ipotesi che noi
tutti potremmo essere «cervelli in una vasca», Putnam si proponeva tre
obiettivi: mostrare l’incoerenza del dubbio cartesiano; ribadire che i
contenuti mentali dipendono dall’esperienza; polemizzare contro il
realismo metafisico. Infatti, per Putnam, noi non possiamo pensarci come
«cervelli in una vasca», perché un pensiero del genere è logicamente
incoerente, e si distrugge da solo.
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Hilary Putnam
Del
resto: ogni parola/concetto (compresa la parola «cervello») si
riferisce per Putnam a qualcosa che ha determinato l’introduzione di
quella parola; e, dunque, noi non possiamo avere alcuna esperienza del
nostro cervello come di un «cervello nella vasca», sì da poterlo
pensare/designare in quel modo. Infine: se lo scenario dei «cervelli
nella vasca» è logicamente impossibile (perché i cervelli non possono
guardarsi da «fuori», scoprendosi in una vasca), non c’è alcun modo di
guardare al mondo con gli «occhi di Dio»: la nostra visione della realtà
è limitata dai nostri schemi concettuali, anche se questi dipendono
dalla nostra esperienza. Qualsiasi realtà metafisica, che prescinda dai
nostri schemi concettuali e dalla nostra esperienza, è una vacuità
filosofica.
Non era la prima volta, del resto, che Putnam
utilizzava suggestioni mutuate dalla fantascienza, per argomentare
filosoficamente. Lo aveva già fatto nel 1975, in quello che molti
considerano il suo capolavoro, nell’ambito della semantica: Il
significato di ‘significato’ («The Meaning of ‘Meaning’»). In questo
saggio, Putnam si proponeva di reagire a una tradizione millenaria sulla
natura dei concetti, in particolare all’idea che questi siano
completamente contenuti nella mente, richiamabili dunque da una sorta di
teatro interno, privato, isolato dagli altri esseri umani e dal «mondo
esterno».
Putnam immaginò una «Terra gemella», nella quale l’acqua
non fosse composta da due molecole di idrogeno e da una di ossigeno, ma
da una combinazione degli elementi X, Y e Z, non meglio specificati,
ferme restando tutte le altre caratteristiche dell’acqua nostrana. In un
contesto del genere, il significato della parola «acqua» – nelle due
Terre gemelle – sarebbe diverso, perché diverso sarebbe il loro
riferimento fisico. Ipotizziamo dunque che due individui gemelli –
identici in tutto – pronuncino nelle due Terre la parola «acqua».
Essendo
identici tra loro, lo saranno anche i loro stati mentali interni,
quando pronunciano quella parola; ma se i significati sono diversi,
mentre gli stati mentali sono identici, questo implica il fatto che il
significato dei termini non può essere ridotto ai soli stati interni.
Naturalmente, possono essere avanzate diverse obiezioni, rispetto a
questo argomento; ed infatti, la letteratura in materia è davvero
impressionante. Ma pochi mettono in dubbio che l’anti-soggettivismo di
Putnam, implicito nella sua semantica, costituisca una pietra miliare
del pensiero contemporaneo, una rottura di carattere rivoluzionario,
rispetto all’idea che le basi della conoscenza siano tutte racchiuse
nell’intimità della mente.
Ancor prima di questi risultati, Putnam
aveva avuto modo di farsi conoscere per un’altra idea stravagante: la
tesi secondo la quale uno stesso stato psicologico (per esempio, il
fatto di avvertire un certo dolore, ben localizzato e caratteristico)
potesse essere legato a diversi stati fisici. Questa tesi – nota come
quella della «realizzabilità multipla» – è in qualche modo alla base del
funzionalismo contemporaneo, cioè all’idea che sia per esempio
possibile costruire macchine intelligenti o forme di vita non organiche
(non basate, cioè sulla chimica del carbonio) le quali risultino
funzionalmente isomorfe alla mente e al corpo degli esseri umani,
comportandosi alla stessa maniera e, anzi, sperimentando gli stessi
stati interni. Una tesi del genere, in verità, doveva essere confutata
dallo stesso Putnam qualche anno dopo, proprio sulla base della sua
stessa semantica esternalista: gli stati e le configurazioni interne di
una macchina non sono sufficienti, per garantire circa il significato
delle rappresentazioni che quella macchina è in grado di farsi; così
come non si dà una corrispondenza biunivoca tra tipi di stati fisici e
tipi di stati mentali, non si dà nemmeno una corrispondenza tra tipi di
stati mentali e tipi di stati funzionali.
Già questo tipo di
svolta, circa la consistenza teorica del funzionalismo e il suo valore
esplicativo, dà qualche indizio su inclinazione ricorrente di Putnam:
quella di ritornare sui suoi stessi risultati, per rimetterli in gioco.
Qualcuno, tra i suoi colleghi più brillanti, ha addirittura proposto di
numerare le fasi teoriche di Putnam, come le ere geologiche: «due Putnam
fa, Putnam pensava che…». Ma nel suo necrologio, Martha Nussbaum ha
voluto così ricordarlo: «La gloria maggiore del modo di filosofare di
Putnam stava nella sua totale vulnerabilità. Continuando ad inseguire
ogni argomento fino alle estreme conseguenze, ovunque lo avesse portato,
cambiava spesso le sue opinioni; e il fatto di aver cambiato idea non
era per lui un disappunto, ma piuttosto un piacere; la prova che era
abbastanza umile da essere degno della sua razionalità».
Era stato
un acceso militante: attivista contro la guerra nel Vietnam, per
qualche tempo fu membro di un partito maoista statunitense alla fine
degli anni ’60. Questo non gli impedì restare ad Harvard, dove il corpo
accademico volle difendere la libertà delle sue scelte; a quei tempi,
era noto per i suoi lavori nel campo della logica e della filosofia
della matematica, ma – proprio ad Harvard – tenne anche corsi di
marxismo. La sua forza teorica ed intellettuale lo portò a diventare
poco dopo presidente della American Philosophical Association. E, dopo i
fondamentali contributi in logica, matematica, filosofia della scienza e
filosofia della mente, i suoi interessi si allargarono all’etica, alla
filosofia politica, all’economia, alla letteratura.
Un gigante, insomm