Corriere 21.3.16
Ma il leader prende tempo sul destino dei «ribelli» che voteranno no al referendum sulla Carta
di Francesco Verderami
Si
sono divisi sull’economia e sul lavoro, sulla scuola e sulla giustizia:
da quando Renzi è a Palazzo Chigi i Democratici si sono divisi su
tutto. Ma è impensabile che possano dividersi anche al referendum sulla
riforma costituzionale, perché dopo aver votato insieme nel Palazzo non
potrebbero separarsi nel Paese senza mettere nel conto poi il divorzio,
la scissione. D’altronde, se una comunità politica non avesse una
visione comune sul ruolo e sulle funzioni delle istituzioni, se non si
riconoscesse nella Carta che ha appena deciso di riscrivere, non sarebbe
un partito.
È una questione dirimente, un punto su cui Renzi è
chiamato a dare una risposta dopo che la minoranza interna ha chiesto —
manco si trattasse di un tema etico — di lasciare «libertà di coscienza»
al referendum, prefigurando l’opposizione di un pezzo del Pd a una
riforma approvata da tutto il Pd. E c’è un motivo se Bersani pretende
dal segretario che il chiarimento politico sia immediato, dato che sa
che il leader del partito ha intenzione di scomunicare quanti
abiurassero al progetto della nuova Carta, aderendo ai comitati del no.
Solo che Renzi non vuole affrontare ora il problema, preferirebbe farlo
dopo le Amministrative per non complicare un passaggio elettorale già
difficile.
Così torna prepotentemente l’interrogativo che ha
accompagnato l’iter della riforma in Parlamento: il progetto di
revisione costituzionale serve a cambiare il sistema o serve a regolare i
conti nel Pd? Se è giusto che il referendum non venga trasformato in un
plebiscito sul premier, è giusto che non venga nemmeno trasformato in
un congresso sul segretario democratico. Invece l’eventualità sembra
farsi certezza man mano che si avvicina il voto d’autunno. E il rischio è
che a ridosso di quell’appuntamento il confronto non si accenda sulle
nuove norme della Carta ma sulle vecchie norme di uno statuto di
partito, dove certamente non sono contemplati i provvedimenti da
adottare verso gli iscritti in caso di voto in dissenso su un referendum
costituzionale.
A meno che il problema non venga oggi formalmente
sollevato in direzione, i dirigenti democratici si limiteranno a
dividersi sul referendum per le trivelle. E la questione verrà
rimandata. Se così fosse, sarebbe colpevole la maggioranza renziana a
non chiedere il chiarimento pubblico, continuando a tenere al chiuso
delle proprie riunioni i motivi che imporrebbero sanzioni a quanti nel
partito si schierassero contro la riforma. La scelta di evitare
l’argomento è legata a ragioni tattiche, a una forma di quieto (si fa
per dire) vivere in nome dei candidati sindaci pd esposti all’attacco
dei candidati a cinquestelle.
In fondo la minoranza finora non è
uscita allo scoperto ma si è limitata a lanciare dei segnali, per quanto
minacciosi: in vista della consultazione popolare, D’Alema ha
preannunciato di non sentirsi vincolato al voto se non dalla sua
coscienza; Bersani ha posto precise condizioni per garantire il suo sì;
Letta ha (solo) evocato la sconfitta di Berlusconi al referendum
costituzionale del 2006... Così la maggioranza deve limitarsi a
sospettare — senza peraltro poterlo denunciare — che la «ditta» sta
scommettendo sulla sconfitta al referendum per liberarsi di Renzi.
Ma
un conto è la resistenza passiva, altra cosa il salto di qualità nello
scontro interno di potere. E siccome prima o poi Renzi dovrà dire quel
che pensa degli eventuali «obiettori di coscienza», allora si scatenerà
il conflitto. D’altronde, su un tema cruciale come la modifica della
Costituzione, stare in comitati referendari diversi è come candidarsi
per partiti diversi. A meno di non vedere la profonda differenza che
passa tra organizzare una corrente in un partito e la pretesa di farsi
partito dentro un partito, perché non si ha la forza o l’interesse a
costituire un altro partito.
E le obiezioni a tutela degli
«obiettori» non reggono. La tesi avanzata da Bersani, che chi vota no al
referendum costituzionale dovrebbe avere completa legittimità a restare
nel Pd, finisce infatti per far passare l’idea di un partito omnibus
dove possono convivere posizioni diametralmente opposte. Così il leader
della minoranza accredita il progetto tanto avversato, quello del
Partito della nazione. Così legittima di fatto anche la presenza di
Verdini, che nonostante sia d’accordo (quasi) su tutto con Renzi sta
fuori dal Pd, mentre chi è in disaccordo (quasi) su tutto con Renzi
resta dentro il Pd.
La situazione è davvero paradossale e ad alto
rischio. Ma invece di risolvere la questione i Democratici prendono
tempo, lasciando che avanzi la secessione senza che avvenga la
scissione. È dentro questa ambiguità che prosegue lo sfrenato tatticismo
di un partito che ha messo come posta in palio per il suo congresso
nientemeno che la Costituzione.