sabato 19 marzo 2016

Corriere 19.3.16
Quel ponte mobile da cui transitò la cultura per Roma
di Francesca Bonazzoli

La superiorità dell’Etruria in commercio e arte. Ma la repubblica chiuse i battenti al popolo italico
È stato un ponte a legare il destino degli Etruschi a quello dei Romani: il ponte Sublicio. In latino sublicius significa «che si sostiene su pali di legno (sublica), una struttura facile da distruggere nel caso coloro che abitavano al di là del Tevere avessero avuto brutte intenzioni. I trasteverini dell’epoca erano la più evoluta delle popolazioni italiche: i Greci li chiamavano Tyrrhenoi perché erano insediati nella costa del mare a ponente, il Tirreno. A Nord arrivavano fino all’Arno, a sud fino all’odierno quartiere di Trastevere, nella riva destra che ancora al tempo di Orazio era detta litus tuscus, litorale etrusco, o ripa veiente, cioè territorio degli Etruschi di Veio, la città stato più vicina a Roma.
Quel ponte di legno era dunque gettato dall’isola Tiberina, il vero luogo di nascita di Roma perché le prime capanne sul Palatino, secondo Bianchi Bandinelli, sarebbero rimaste un villaggio se non ci fosse stata quell’isola a consentire a Roma di diventare un centro di traffico e commercio. E infatti, ancora in età imperiale, allo sbocco del ponte sorgevano il foro Boario e il foro Olitorio, rispettivamente il mercato del bestiame e delle verdure.
Ogni anno, il 14 maggio, dal ponte si gettavano dei fantocci di paglia, simulacro di antichissimi sacrifici umani per placare il fiume. Vietatissimo, poi, era l’uso del ferro per la costruzione e, proprio grazie a questo divieto, la leggenda vuole che Orazio Coclite riuscì a trattenere gli Etruschi di Chiusi mentre i suoi commilitoni spezzavano le assi di legno. Tanta paura veniva anche dal fatto che gli ultimi re leggendari di Roma, i Tarquini, artefici dello sviluppo della città nel corso del VI secolo, erano etruschi. Un popolo che non si era mai costituito in uno stato unitario, limitandosi a creare alcune confederazioni di città indipendenti l’una dall’altra, governate prima dai lucumoni e poi da oligarchie. La loro ricchezza economica derivava soprattutto dalle miniere di rame della costa toscana, ma per i traffici con l’Oriente mediterraneo che facevano capo attorno al golfo di Napoli, avevano bisogno di passare da Roma. Il confine della loro espansione in Campania era segnato dal fiume Silaris , il Sele, e l’inizio del loro declino fu sancito proprio quando Ierone di Siracusa, sconfiggendo gli Etruschi sul mare davanti a Cuma nel 474 a.C., li tagliò fuori dagli scambi diretti con i Greci. Da potenza commerciale ed economica, gli Etruschi tornarono così ad essere una federazione di centri agricoli, sempre più simili agli altri della penisola italica.
La loro arte, però, non subì lo stesso destino. Dal VII secolo agli inizi del V a.C. era stata in contatto continuo con quella greca grazie all’importazione, non solo di una grande quantità di ceramiche, ma addirittura di artigiani e anche dopo che il commercio etrusco sul mare venne sostituito da quello greco e cartaginese, la superiorità culturale sulle altre popolazioni dell’Italia centrale non venne mai meno. Quando nel 363 a.C. Roma volle organizzare i suoi primi spettacoli teatrali, chiamò gli attori dall’Etruria e ancora due secoli dopo, prima che diventasse di moda mandare i figli ad Atene, i patrizi romani li facevano studiare in Etruria. Sul finire del V secolo, il tempio sul Campidoglio dedicato alla triade Giove, Giunone, Minerva fu decorato con statue in terracotta dipinta da artisti chiamati da Veio.
Alla fine, la fondazione della repubblica grazie alla cacciata dei Tarquini, i re etruschi stranieri, avvenuta quasi in coincidenza con la sconfitta degli Etruschi a Cuma, fu pagata da Roma con un periodo di decadenza e ancora per tutto il IV e il III secolo a.C. la pittura e la scultura a Roma parlavano etrusco e greco.