Repubblica 29.2.18
Nel libro di Pierluigi Battista una vicenda familiare e politica
Quel padre fascista che non smise mai di credere nel mito del duce
di Eugenio Scalfari
Quando
due mesi fa ricevetti dall’autore Pierluigi Battista il suo libro
intitolato “Mio padre era fascista” con una dedica molto affettuosa
(siamo amici da molti anni e seguo con interesse il suo lavoro di
editorialista del “Corriere della sera”) decisi di leggerlo e di
recensirlo. Di solito non faccio questo mestiere, ma in questo caso il
titolo mi intriga molto e poi dirò perché.
Sono passati due mesi, le celebrazioni prima dei sessant’anni dell’“Espresso” e poi dei quaranta di “Repubblica” mi hanno molto
impegnato.
Eventi dolorosi come la morte di Umberto Eco sono purtroppo
sopravvenuti. Ma ora finalmente sono più sereno e posso adempiere al
compito che mi ero proposto.
Il libro di Battista è edito da
Mondadori, sviluppa 161 pagine e comincia con due esergo, uno dei quali
di Ennio Flaiano merita di essere qui citato: «Famiglia romana con padre
liberale e figlio maggiore comunista, minore fascista, zio prete, madre
monarchica, figlia mantenuta: si sfidano tutti gli eventi ( Frasario
essenziale per passare inosservati in società) ».
Ebbene, la vita
di Pierluigi col padre fu esattamente l’opposto: un dramma psicologico
profondo che dal padre fu trasmesso al figlio quando era ancora
adolescente e che il padre aveva scelto come il solo cui confidare il
proprio rovello, la propria rabbia, la propria disperazione contro
l’Italia e gli italiani che erano stati (quasi) tutti fascisti durante
il ventennio e poi si erano convertiti in massa all’antifascismo
mettendo all’indice quei pochi, anzi pochissimi, che avevano mantenuto i
loro ideali d’un tempo e per essi avevano pagato un altissimo costo sia
negli anni in cui c’era il Duce a guidare il paese sia quando
l’antifascismo era diventato una norma non solo delle leggi ma anche dei
sentimenti popolari.
Scrive Pierluigi: «Mio padre erano due.
C’era mio padre integrato. E c’era quello apocalittico. C’era il
borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica
del lavoro e c’era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza
sosta risentimento e rabbia. C’era il conservatore e c’era il ribelle.
C’era il professionista di successo, l’avvocato stimato nel mondo
forense... e c’era l’uomo intimamente devastato da una storia che
l’aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile,... mangiato
dentro da un’ossessione che non l’abbandonava mai... Io li ho conosciuti
entrambi».
Queste parole scritte dall’autore nelle prime pagine
del libro ne contengono la chiave. Pierluigi ha sofferto per anni di
questa confidenza segreta col padre, che in famiglia gli altri figli
probabilmente non conoscevano e che sua moglie (la madre di Pierluigi)
credeva e sperava che il marito avesse abbandonato considerandola un
errore di gioventù. Pierluigi invece lo sapeva e il padre, per l’amore
che aveva verso di lui, glielo aveva confidato e glielo ricordava quasi
tutti i giorni. In più, Pierluigi scoprì, quando il padre era morto, un
suo diario segreto dove erano raccolte frasi, slogan, brani di canzoni,
aforismi, che emergevano casualmente dalla sua memoria e che annotava
temendo di scordarsene.
Il padre continuò a confidarsi col figlio.
Non cambiò neppure quando si accorse che Pierluigi, invece di
condividere quella sua rabbia e condividerla con un’adesione intima,
aveva invece tratto conseguenze del tutto opposte. Era diventato
comunista e addirittura “gruppettaro”. E poi, passata questa ventata di
radicalismo di sinistra, era tuttavia un riformista democratico come del
resto tutt’ora è e come anch’io l’ho conosciuto.
Suo padre — che
conoscesse con esattezza queste sue posizioni politiche o le ignorasse
perché Pierluigi non gliene aveva mai parlato — adottò comunque un altro
modo di comunicare quella parte di sé che il figlio ha definito
“apocalittica”. Invece di proseguire con la rabbia e il desiderio di
vendetta, cominciò ad additare al figlio le opere positive del regime:
l’arte fascista e i grandi artisti che del fascismo si erano nutriti, a
cominciare da Mario Sironi e dal futurismo in genere (lo stesso Giuseppe
Bottai veniva dai futuristi e pubblicava la bellissima rivista
Primato). E poi l’urbanistica e l’architettura, a cominciare dal
caposcuola Marcello Piacentini e dalle sue opere. Lo portava a passeggio
a via dell’Impero (lui la chiamava ancora col suo vecchio nome), in via
della Conciliazione dove le casupole e i vicoli del Borgo erano state
distrutte da un sontuoso accesso alla basilica di San Pietro; e poi la
costruzione dell’Università dell’Urbe, del Foro Mussolini con il suo
obelisco, di alcune grandi ville patrizie dentro e fuori Roma, a
cominciare dall’unificazione tra il Pincio e Villa Borghese. E Littoria e
le paludi pontine sostituite da terre fertili e da Sabaudia, fino ad
Anzio e al Circeo.
Insomma l’aspetto positivo del fascismo. E le
sue canzoni che di tanto in tanto canticchiava in casa: Roma rivendica
l’impero, Le donne non ci vogliono più bene, Si và sul vasto mar e tante
altre. La famiglia lo udiva cantare quelle canzoni ma non ne faceva un
problema, erano ricordi piacevoli d’una piacevole gioventù.
In
parte era così, ma soltanto in parte. Pierluigi sapeva che cosa c’era
dentro quei ricordi: a 22 anni il padre era partito volontario per
combattere una guerra nazionale; era stato fatto prigioniero in Grecia
ed aveva scontato oltre un anno di prigionia.
Tornato in Italia
s’era trovato dinanzi ad una guerra civile ed aveva scelto di
parteciparvi; dopo due anni di battaglie contro i “resistenti” in difesa
della patria fascista (la sola che per lui esisteva) era stato preso
prigioniero a guerra finita e relegato nel campo di concentramento di
Coltano, dopo aver rischiato la fucilazione. A Coltano due anni di
inferno e infine la liberazione, disposta dal governo antifascista e
appoggiata da Togliatti per pacificare gli animi in nome della nuova
Italia democratica. Ma questa motivazione aveva gettato altro fiele
nell’anima del ribelle che vi aveva visto un’ipocrisia tesa ad acquistar
consenso.
Battista ha vissuto questo dramma fino in fondo e
soltanto negli ultimi anni della vita del padre una maggiore
tranquillità era entrata nell’anima sua. Aveva ormai una solida
posizione professionale, una famiglia, una sua vita ed anche il padre
nei suoi ultimi anni sembrava aver placato il suo dramma interno godendo
il benessere conquistato col suo lavoro.
Anche questa storia,
come molte altre, è sembrata esser finita bene, ma la scoperta del
diario intimo del padre, con annotazioni scritte poco prima di morire,
ha dato a Pierluigi il dolore che era scomparso o almeno attenuato. E
così ha deciso di scrivere questo bellissimo libro che ho qui cercato di
raccontare. Ma l’ho fatto anche per un’altra ragione: anch’io sono
stato fascista, come del resto ho più volte raccontato. Sicché la
lettura del libro di Pierluigi mi ha indotto a considerare quello stesso
mondo cui ho partecipato per dodici anni di seguito, da quando sono
andato alla scuola elementare e sono automaticamente entrato a far parte
come balilla delle organizzazioni giovanili fasciste, fino a quando fui
espulso dal Guf per un articolo scritto su Roma fascista, settimanale
del Guf dell’Urbe al quale collaborai per due anni.
Il libro di
Pierluigi mi ha fatto di nuovo tornare in mente quei miei anni di
fascismo che vennero poco dopo quelli del Battista padre. Lui partì per
la guerra, nel 1940; io fui espulso dal partito fascista nel ’43 e vi
ero entrato nel 1931.
Non starò qui a raccontare come vissi quel
periodo, negli anni in cui frequentavo il ginnasio a Roma, poi a
Sanremo, poi di nuovo a Roma quando entrai all’Università nel ’41. Dirò
soltanto che la mia appartenenza al fascismo non era minimamente turbata
da dubbi. Il Duce era il Duce, le canzoni che Battista padre
canticchiava a casa ed aveva cantato a squarciagola negli anni del
fascismo imperante e poi di Salò, anch’io le ho cantate e di tanto in
tanto capita anche a me di ricanticchiarle adesso. Ma c’è una differenza
di fondo tra la mia storia e quella del Battista padre.
Ai tempi
miei c’erano già, ma forse c’erano sempre state, due o tre diverse
“correnti” nel partito ed anche nei Guf e nei giornali che
rappresentavano la voce studentesca dei giovani fascisti universitari.
C’era
una corrente di “fascismo muscolare” rappresentata da Roberto
Farinacci, una più moderata rappresentata da Galeazzo Ciano ed infine
un’altra culturalmente frondista rappresentata da Giuseppe Bottai. Io
ero fascista nel modo di Bottai, ma molti nel giornale universitario su
cui scrivevamo erano per Farinacci a cominciare da Tedeschi che poi,
dopo la caduta di Salò e l’arrivo della democrazia in Italia, diresse Il
Borghese.
Quando fui espulso dal Guf, attraversai tre o quattro
giorni di grande sconforto, ma poi mi ripresi perché prevalse dentro di
me questa considerazione: se Carlo Scorza, segretario generale nazionale
del partito, mi ha espulso, segno è che non mi considera fascista ma
antifascista. Lui in questa materia ne sa più di me. Quindi ha ragione
lui: io sono antifascista, altrimenti non avrei scritto quell’articolo.
Così
diventai sinceramente antifascista, fondammo con alcuni amici
un’apposita organizzazione clandestina ed esordimmo con una scazzottata
collettiva alla facoltà di giurisprudenza contro i giovani del Guf.
Insomma, per merito di Carlo Scorza che nel colloquio terminato con la
mia espulsione mi aveva strappato le spalline della divisa che indossavo
e se l’era messe sotto i piedi calpestandole, la mia uscita e la mia
“conversione” durarono quattro giorni e non l’intera vita.