lunedì 29 febbraio 2016

Repubblica 29.2.18
Nel libro di Pierluigi Battista una vicenda familiare e politica
Quel padre fascista che non smise mai di credere nel mito del duce
di Eugenio Scalfari

Quando due mesi fa ricevetti dall’autore Pierluigi Battista il suo libro intitolato “Mio padre era fascista” con una dedica molto affettuosa (siamo amici da molti anni e seguo con interesse il suo lavoro di editorialista del “Corriere della sera”) decisi di leggerlo e di recensirlo. Di solito non faccio questo mestiere, ma in questo caso il titolo mi intriga molto e poi dirò perché.
Sono passati due mesi, le celebrazioni prima dei sessant’anni dell’“Espresso” e poi dei quaranta di “Repubblica” mi hanno molto
impegnato. Eventi dolorosi come la morte di Umberto Eco sono purtroppo sopravvenuti. Ma ora finalmente sono più sereno e posso adempiere al compito che mi ero proposto.
Il libro di Battista è edito da Mondadori, sviluppa 161 pagine e comincia con due esergo, uno dei quali di Ennio Flaiano merita di essere qui citato: «Famiglia romana con padre liberale e figlio maggiore comunista, minore fascista, zio prete, madre monarchica, figlia mantenuta: si sfidano tutti gli eventi ( Frasario essenziale per passare inosservati in società) ».
Ebbene, la vita di Pierluigi col padre fu esattamente l’opposto: un dramma psicologico profondo che dal padre fu trasmesso al figlio quando era ancora adolescente e che il padre aveva scelto come il solo cui confidare il proprio rovello, la propria rabbia, la propria disperazione contro l’Italia e gli italiani che erano stati (quasi) tutti fascisti durante il ventennio e poi si erano convertiti in massa all’antifascismo mettendo all’indice quei pochi, anzi pochissimi, che avevano mantenuto i loro ideali d’un tempo e per essi avevano pagato un altissimo costo sia negli anni in cui c’era il Duce a guidare il paese sia quando l’antifascismo era diventato una norma non solo delle leggi ma anche dei sentimenti popolari.
Scrive Pierluigi: «Mio padre erano due. C’era mio padre integrato. E c’era quello apocalittico. C’era il borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica del lavoro e c’era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza sosta risentimento e rabbia. C’era il conservatore e c’era il ribelle. C’era il professionista di successo, l’avvocato stimato nel mondo forense... e c’era l’uomo intimamente devastato da una storia che l’aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile,... mangiato dentro da un’ossessione che non l’abbandonava mai... Io li ho conosciuti entrambi».
Queste parole scritte dall’autore nelle prime pagine del libro ne contengono la chiave. Pierluigi ha sofferto per anni di questa confidenza segreta col padre, che in famiglia gli altri figli probabilmente non conoscevano e che sua moglie (la madre di Pierluigi) credeva e sperava che il marito avesse abbandonato considerandola un errore di gioventù. Pierluigi invece lo sapeva e il padre, per l’amore che aveva verso di lui, glielo aveva confidato e glielo ricordava quasi tutti i giorni. In più, Pierluigi scoprì, quando il padre era morto, un suo diario segreto dove erano raccolte frasi, slogan, brani di canzoni, aforismi, che emergevano casualmente dalla sua memoria e che annotava temendo di scordarsene.
Il padre continuò a confidarsi col figlio. Non cambiò neppure quando si accorse che Pierluigi, invece di condividere quella sua rabbia e condividerla con un’adesione intima, aveva invece tratto conseguenze del tutto opposte. Era diventato comunista e addirittura “gruppettaro”. E poi, passata questa ventata di radicalismo di sinistra, era tuttavia un riformista democratico come del resto tutt’ora è e come anch’io l’ho conosciuto.
Suo padre — che conoscesse con esattezza queste sue posizioni politiche o le ignorasse perché Pierluigi non gliene aveva mai parlato — adottò comunque un altro modo di comunicare quella parte di sé che il figlio ha definito “apocalittica”. Invece di proseguire con la rabbia e il desiderio di vendetta, cominciò ad additare al figlio le opere positive del regime: l’arte fascista e i grandi artisti che del fascismo si erano nutriti, a cominciare da Mario Sironi e dal futurismo in genere (lo stesso Giuseppe Bottai veniva dai futuristi e pubblicava la bellissima rivista Primato). E poi l’urbanistica e l’architettura, a cominciare dal caposcuola Marcello Piacentini e dalle sue opere. Lo portava a passeggio a via dell’Impero (lui la chiamava ancora col suo vecchio nome), in via della Conciliazione dove le casupole e i vicoli del Borgo erano state distrutte da un sontuoso accesso alla basilica di San Pietro; e poi la costruzione dell’Università dell’Urbe, del Foro Mussolini con il suo obelisco, di alcune grandi ville patrizie dentro e fuori Roma, a cominciare dall’unificazione tra il Pincio e Villa Borghese. E Littoria e le paludi pontine sostituite da terre fertili e da Sabaudia, fino ad Anzio e al Circeo.
Insomma l’aspetto positivo del fascismo. E le sue canzoni che di tanto in tanto canticchiava in casa: Roma rivendica l’impero, Le donne non ci vogliono più bene, Si và sul vasto mar e tante altre. La famiglia lo udiva cantare quelle canzoni ma non ne faceva un problema, erano ricordi piacevoli d’una piacevole gioventù.
In parte era così, ma soltanto in parte. Pierluigi sapeva che cosa c’era dentro quei ricordi: a 22 anni il padre era partito volontario per combattere una guerra nazionale; era stato fatto prigioniero in Grecia ed aveva scontato oltre un anno di prigionia.
Tornato in Italia s’era trovato dinanzi ad una guerra civile ed aveva scelto di parteciparvi; dopo due anni di battaglie contro i “resistenti” in difesa della patria fascista (la sola che per lui esisteva) era stato preso prigioniero a guerra finita e relegato nel campo di concentramento di Coltano, dopo aver rischiato la fucilazione. A Coltano due anni di inferno e infine la liberazione, disposta dal governo antifascista e appoggiata da Togliatti per pacificare gli animi in nome della nuova Italia democratica. Ma questa motivazione aveva gettato altro fiele nell’anima del ribelle che vi aveva visto un’ipocrisia tesa ad acquistar consenso.
Battista ha vissuto questo dramma fino in fondo e soltanto negli ultimi anni della vita del padre una maggiore tranquillità era entrata nell’anima sua. Aveva ormai una solida posizione professionale, una famiglia, una sua vita ed anche il padre nei suoi ultimi anni sembrava aver placato il suo dramma interno godendo il benessere conquistato col suo lavoro.
Anche questa storia, come molte altre, è sembrata esser finita bene, ma la scoperta del diario intimo del padre, con annotazioni scritte poco prima di morire, ha dato a Pierluigi il dolore che era scomparso o almeno attenuato. E così ha deciso di scrivere questo bellissimo libro che ho qui cercato di raccontare. Ma l’ho fatto anche per un’altra ragione: anch’io sono stato fascista, come del resto ho più volte raccontato. Sicché la lettura del libro di Pierluigi mi ha indotto a considerare quello stesso mondo cui ho partecipato per dodici anni di seguito, da quando sono andato alla scuola elementare e sono automaticamente entrato a far parte come balilla delle organizzazioni giovanili fasciste, fino a quando fui espulso dal Guf per un articolo scritto su Roma fascista, settimanale del Guf dell’Urbe al quale collaborai per due anni.
Il libro di Pierluigi mi ha fatto di nuovo tornare in mente quei miei anni di fascismo che vennero poco dopo quelli del Battista padre. Lui partì per la guerra, nel 1940; io fui espulso dal partito fascista nel ’43 e vi ero entrato nel 1931.
Non starò qui a raccontare come vissi quel periodo, negli anni in cui frequentavo il ginnasio a Roma, poi a Sanremo, poi di nuovo a Roma quando entrai all’Università nel ’41. Dirò soltanto che la mia appartenenza al fascismo non era minimamente turbata da dubbi. Il Duce era il Duce, le canzoni che Battista padre canticchiava a casa ed aveva cantato a squarciagola negli anni del fascismo imperante e poi di Salò, anch’io le ho cantate e di tanto in tanto capita anche a me di ricanticchiarle adesso. Ma c’è una differenza di fondo tra la mia storia e quella del Battista padre.
Ai tempi miei c’erano già, ma forse c’erano sempre state, due o tre diverse “correnti” nel partito ed anche nei Guf e nei giornali che rappresentavano la voce studentesca dei giovani fascisti universitari.
C’era una corrente di “fascismo muscolare” rappresentata da Roberto Farinacci, una più moderata rappresentata da Galeazzo Ciano ed infine un’altra culturalmente frondista rappresentata da Giuseppe Bottai. Io ero fascista nel modo di Bottai, ma molti nel giornale universitario su cui scrivevamo erano per Farinacci a cominciare da Tedeschi che poi, dopo la caduta di Salò e l’arrivo della democrazia in Italia, diresse Il Borghese.
Quando fui espulso dal Guf, attraversai tre o quattro giorni di grande sconforto, ma poi mi ripresi perché prevalse dentro di me questa considerazione: se Carlo Scorza, segretario generale nazionale del partito, mi ha espulso, segno è che non mi considera fascista ma antifascista. Lui in questa materia ne sa più di me. Quindi ha ragione lui: io sono antifascista, altrimenti non avrei scritto quell’articolo.
Così diventai sinceramente antifascista, fondammo con alcuni amici un’apposita organizzazione clandestina ed esordimmo con una scazzottata collettiva alla facoltà di giurisprudenza contro i giovani del Guf. Insomma, per merito di Carlo Scorza che nel colloquio terminato con la mia espulsione mi aveva strappato le spalline della divisa che indossavo e se l’era messe sotto i piedi calpestandole, la mia uscita e la mia “conversione” durarono quattro giorni e non l’intera vita.