Repubblica 25.2.16
La ricetta dello studioso francese Pierre Rosanvallon:
“La democraticità delle elezioni va unita alla democraticità dell’azione di governo”
“Non basta il voto per essere cittadini”
intervista di Fabio Gambaro
PARIGI
 «Inostri regimi possono essere considerati democratici, noi però non 
siamo governati democraticamente». Parte da questa amara constatazione 
il nuovo utilissimo saggio di Pierre Rosanvallon, “Le bon gouvernement” 
(Seuil), ultimo capitolo della sua ormai più che decennale riflessione 
sulle forme e i caratteri della democrazia. In queste pagine lo studioso
 francese che insegna al Collège de France parte dall’insoddisfazione
dei
 cittadini di fronte a governi che non rispettano le regole della 
trasparenza e della responsabilità, proponendo oltretutto politiche 
confuse e illeggibili. Motivo per cui considera urgente tracciare una 
mappa delle regole del buongoverno e delle modalità che consentano ai 
cittadini di esercitare un controllo più stringente sulle azioni della 
politica. Solo il buon governo, infatti, può battere il disincanto 
democratico.
«Oggi la vera scommessa della democrazia non è il 
carattere democratico dell’elezione, ma il carattere democratico del 
governo», spiega Rosanvallon, già autore di molti saggi tra i cui 
Controdemocrazia e
La società dell’uguaglianza (editi in Italia da
 Castelvecchi). «In passato, ci siamo soprattutto preoccupati di 
organizzare sistemi elettivi, preoccupandoci molto meno di come gli 
eletti avrebbero esercitato il potere. Ciò aveva un senso quando il 
Parlamento era all’origine delle leggi. Oggi i parlamenti hanno cambiato
 natura, da istanze indipendenti produttrici della legge sono divenuti 
istanze subordinate all’esecutivo».
Perché l’esecutivo ha assunto questo ruolo centrale?
«L’evoluzione
 è iniziata all’epoca della primo conflitto mondiale, quando l’urgenza 
della guerra ha anteposto la necessità della decisione all’elaborazione 
della norma. In guerra occorre essere nell’azione. Inoltre, l’inizio del
 XX secolo ha segnato l’avvento di un mondo più globalizzato e in rapida
 evoluzione, nel cui contesto il potere esecutivo è diventato sempre più
 importante. Da allora questa tendenza non ha fatto che rafforzarsi».
In effetti oggi nella società c’è una forte domanda d’azione e d’autorità.
«Soprattutto
 emerge il bisogno di efficienza e responsabilità. E un’assemblea non è 
responsabile: può deliberare, ma non agire. Da qui il dominio 
dell’esecutivo, che per altro favorisce il progressivo spostamento da 
una politica centrata sui programmi a una politica centrata sugli 
uomini. In un mondo mobile e frammentario dove non è più possibile 
pianificare il futuro come in passato, ad assicurare la continuità non 
sono più i programmi, costantemente rimessi in discussione dalla realtà e
 dalle crisi, ma gli uomini. Le persone restano anche se i programmi 
evolvono. Anche la mediatizzazione focalizza l’attenzione sugli uomini 
più che sulle idee».
La personalizzazione della politica favorisce cesarismo e populismo?
«È
 un rischio reale. Se nel XX secolo la patologia della democrazia è 
stata il totalitarismo, nel XXI secolo prevalgono le patologie della 
democrazia autoritaria. Si pensi a Putin, a Erdogan o ai populisti 
dell’America latina. Si tratta di situazioni dove l’elezione è 
democratica, ma il governo no. Il moderno cesarismo tende a far saltare 
le mediazioni tra il capo e il popolo. Inoltre considera la società come
 un unico blocco che deve pensare allo stesso modo, negando la diversità
 delle opinioni».
Anche le società occidentali sembrano diventare più sensibili alle sirene del populismo.
«La
 sua semplificazione sembra far presa. Da un lato i populisti, ad 
esempio Marine Le Pen, si presentano come i veri rappresentanti del 
popolo, accusando gli altri di rappresentare solo le élite. Dall’altro, 
propongono di risolvere i problemi solo attraverso il ripiegamento della
 società su se stessa. Il protezionismo è un modo per semplificare il 
mondo, rifiutandone le contraddizioni».
Lei dice che occorre 
definire le caratteristiche del buon governo per poter realizzare una 
vera democrazia d’esercizio. Cosa significa questa espressione?
«Una
 democrazia d’esercizio è una democrazia che definisce le regole di 
esercizio democratico del potere. Un potere infatti è democratico non 
solo perché è eletto democraticamente, ma soprattutto perché governa 
democraticamente. E se un potere è veramente democratico, la società 
deve potersene appropriare sempre e non solo il giorno delle elezioni. 
Ciò significa che il funzionamento delle istituzioni deve essere 
innazitutto leggibile e comprensibile. Oggi prevalgono decisioni 
parziali, incomprensibili per l’opinione pubblica. La prima qualità 
democratica è la leggibilità dell’azione di governo che consente ai 
cittadini di comprenderla, per poi approvarla o criticarla».
Un altro elemento fondamentale è la responsabilità?
«Certo.
 Un potere deve essere sempre responsabile e quindi sottoposto a 
valutazione. Oggi la valutazione avviene solo al momento dell’elezione. 
Abbiamo bisogno di momenti di valutazione più frequenti. Visto che la 
politica insiste sull’effetto annuncio più che sulla realtà dell’azione,
 sottoporre i politici a valutazioni frequenti significa costringerli a 
maggior coerenza e realismo».
Quali sono le altre caratteristiche del buon governo?
«La
 reattività, che non è solo la capacità di reazione di fronte agli 
avvenimenti, ma anche la volontà di uno scambio continuo tra potere e 
società. Poi la necessità di parlare con franchezza. Infine l’integrità 
morale che consente all’uomo di governo di identificarsi con la propria 
funzione, senza utilizzarla come un potere personale al servizio dei 
propri interessi».
Nel suo libro ha indicato alcune modalità — 
consigli, organismi, commissioni — per implicare maggiormente i 
cittadini nell’azione di controllo. Non c’è il rischio di complicare 
ulteriormente l’azione pubblica, già abbastanza macchinosa?
«Non 
credo. L’autogoverno è impossibile, ma una deliberazione pubblica 
allargata è auspicabile e realizzabile. Abbiamo sempre pensato la 
democrazia come l’espressione della voce del popolo, oggi abbiamo 
bisogno che essa sia anche l’organizzazione del popolo. E dato che non 
tutti i cittadini possono o devono partecipare a tutte queste istanze, 
l’estrazione a sorte di alcuni di loro potrebbe essere una novità 
importante. Ciò sancirebbe il principio che chiunque è potenzialmente in
 grado di partecipare: un modo per rendere di nuovo attraente e 
credibile la democrazia».