Repubblica 17.2.16
Tito Boeri.
“Riforma delle pensioni solo se cambierà il patto di stabilità Ue”
Il
 presidente dell’Inps: per introdurre l’età pensionabile flessibile 
Bruxelles va convinta a tener conto del debito futuro, destinato a 
calare
di Roberto Mania
ROMA. «Se vogliamo 
introdurre il pensionamento flessibile dobbiamo cambiare il Patto di 
stabilità in Europa». Tito Boeri, economista, bocconiano, con una lunga 
esperienza internazionale, all’Ocse e come consulente del Fondo 
monetario, è da un anno il presidente dell’Inps, il più grande istituto 
di previdenza d’Europa. Boeri ha fatto dell’uscita flessibile dal lavoro
 il centro della sua proposta per riformare («per l’ultima volta») la 
previdenza. La rilancia spiegando, però, che la vera partita si gioca 
nelle stanze della Commissione di Bruxelles. Servirà anche a togliere 
«il tappo che in questi anni ha bloccato le assunzioni dei giovani.
Boeri, perché dice che la partita per il pensionamento flessibile si gioca in Europa?
«Perché
 l’introduzione di maggiore flessibilità in uscita peggiora 
nell’immediato il disavanzo, mentre nel tempo lungo la spesa si riduce 
visto che con l’anticipo del pensionamento l’importo dell’assegno sarà 
più basso anche se erogato per più anni. Ma le attuali regole europee 
non tengono conto di tutto questo. Guardano al debito passato, non al 
debito futuro, invece è questo che diventerà decisivo a causa della 
crescita della spesa in protezione sociale che peserà su tutti i bilanci
 europei per effetto dell’invecchiamento della popolazione. È un aspetto
 di rilievo che dovrebbe essere considerato da chi ha a cuore la 
sostenibilità fiscale».
Per l’Italia indebitata questo sarebbe un vantaggio?
«L’Italia
 ha un alto debito pubblico accumulato ma è uno dei Paesi che ha fatto 
una riforma pensionistica in grado di controllare la dinamica della 
spesa. Non si tratta di chiedere deroghe al Patto, di strappare margini 
di flessibilità. Si tratta di introdurre vincoli più stringenti, ma 
vincoli diversi da quelli attuali. L’Italia ha un livello del debito 
pensionistico del tutto sostenibile e per questo andrebbe premiata».
Ma
 se è così, perché il governo che dice di voler introdurre quest’anno il
 pensionamento flessibile non ha chiesto di cambiare su questo il Patto?
«Perché
 ha voluto perseguire altre strade. Peccato, perché il pensionamento 
flessibile è importante ora, nel 2016, non tra due o tre anni. Sarebbe 
troppo tardi».
Troppo tardi, perché?
«Perché l’innalzamento 
repentino dell’età anagrafica per il pensionamento in questi anni di 
crisi economica ha creato un tappo all’assunzione dei giovani. Prima 
della crisi il tasso di occupazione degli under 24 era sostanzialmente 
uguale a quello degli over 55. Oggi il tasso di occupazione dei 
lavoratori adulti è al 45 per cento e quelli dei giovani al 12 per 
cento. Questo, insieme al blocco delle assunzioni nel pubblico impiego 
ha determinato una situazione devastante sull’occupazione 
intellettuale».
Lei è contro il blocco delle assunzioni?
«Si
 protrae da ormai 15 anni e ha avuto effetti negativi sulla pubblica 
amministrazione. La vera riforma da fare è quella della macchina della 
pubblica amministrazione. Senza una macchina efficiente non si cammina. 
C’è una disattenzione colpevole su questo tema. La politica improvvisa 
alla ricerca del consenso, la tecnostruttura ha le conoscenze per far 
funzionare la macchina ma non le trasferisce perché così può mantenere 
le sue posizioni di rendita. Quanto alle assunzioni, ho chiesto più 
autonomia dell’Inps in questo senso e nella gestione del bilancio, 
garantendo risparmi alla spesa di funzionamento maggiori rispetto a 
quelli richiesti (300 milioni che si vanno ad aggiungere ai 700 già 
realizzati). Non mi è stata data. E quando l’Istituto potrà nuovamente 
assumere dovrà prendere gli ex lavoratori delle Province e la coda dei 
vincitori di concorso del 2012. Non è questo di cui abbiamo bisogno».
Resiste di più ai cambiamenti la politica o la burocrazia?
«Entrambi.
 Appena mi sono insediato ho chiesto che venisse riformata l’attuale 
governance monocratica dell’Inps per reintrodurre il consiglio di 
amministrazione e snellire gli organi. Mi è stato risposto che non c’era
 il veicolo normativo. Basterebbe inserirla in uno dei decreti attuativi
 della legge Madia. Abbiamo chiesto di poter utilizzare risorse del 
bilancio per inviare a tutti i lavoratori la “busta arancione” con i 
loro dati pensionistici. Ci è stato risposto che non si potevano 
utilizzare risorse non specificatamente stanziate. Il Parlamento non ha 
cambiato la norma permettendoci di pagare l’invio. Ma, in ogni caso, 
quest’anno invieremo a 10 milioni di lavoratori che non accedono online 
ai servizi dell’Inps la busta arancione».
Lei ritiene di aver reso più efficiente l’Inps? Come?
«Assieme
 al direttore generale Cioffi, con cui sono felice di lavorare, abbiamo 
appena presentato la riorganizzazione dell’Inps. Per effetto della 
fusione con l’Inpdap e l’Enpals, avvenuta su carta ma non di fatto, ci 
siamo trovati 48 direttori centrali (la somma dei dirigenti dei vari 
istituti). Ora vogliamo completare questa fusione sia nella struttura 
che nelle procedure. Dal lato della riorganizzazione abbiamo ridotto il 
numero di dirigenti che riportano al direttore generale a 10, per 
rendere la struttura più snella e efficiente. Dal lato delle procedure i
 ritardi che ci sono, ad esempio nei pagamenti delle pensioni dei 
pubblici dipendenti, sono dovuti anche alle resistenze delle 
amministrazioni a fornirci i dati contributivi sui dipendenti: è 
incivile che ciò accada».
Cosa pensa del progetto del governo di razionalizzare le pensioni di reversibilità ancorandole all’Isee?
«Nella
 proposta dell’Inps per la riforma del sistema previdenziale non c’era 
niente sulle pensioni di reversibilità. Per due ragioni: non c’è un 
problema di sostenibilità perché nel calcolo dell’importo si tiene già 
conto della speranza di vita del superstite, e perché è già stata fatta 
la riforma legata alla situazione reddituale del superstite. Ci sarebbe 
altro da cambiare: mi pare molto discutibile che cinque miliardi di 
prestazioni assistenziali vadano al 30 per cento più ricco della 
popolazione».
 
