Repubblica 11.2.16
Sanders.
In New Hampshire ha
stracciato la rivale. Resuscita lo spirito di Occupy Wall Street Fa
presa sui giovani e sui tanti feriti dalla crisi
La vittoria di Bernie il socialdemocratico che parla ai cuori
di Federico Rampini
Il governo non è di un pugno di miliardari che finanziano i candidati
I progressisti vincono quando c’è un’alta affluenza alle urne
Il senatore del Vermont si è nettamente aggiudicato il New Hampshire, dopo la sconfitta sul filo in Iowa
MANCHESTER
«Da qui è cominciata una rivoluzione politica — tuona Bernie Sanders
raschiandosi la gola affaticata — con la partecipazione di cittadini che
non avevano mai fatto politica prima. Il messaggio di queste primarie è
che il governo del paese appartiene a tutti voi, non a un pugno di
miliardari che finanziano i candidati ». Nella serata del suo trionfo
alla primaria del New Hampshire, dopo avere inflitto un distacco
umiliante a Hillary Clinton (60% contro 38%), il senatore del Vermont
illustra questa “ricetta Sanders” che è la grande novità della campagna
presidenziale in campo democratico.
«I progressisti vincono quando
c’è un’alta affluenza alle urne, i conservatori vincono quando la gente
è demoralizzata e non vota ». È la prima lezione che vuole
sottolineare. La sua straripante affermazione ha coinciso con una
partecipazione-record alle primarie. Neppure Barack Obama aveva portato
così tanti a votare nel 2008. Per il 74enne Sanders il dato è
importante, e non solo perché conferma la sua forza di trascinamento,
soprattutto verso i giovani che sono solitamente i più astensionisti. È
importante perché la “rivoluzione politica” che lui promette agli
americani, ha come condizione essenziale proprio un terremoto
elettorale, un balzo in avanti così forte nella partecipazione, da
riportare una maggioranza democratica sia alla Camera che al Senato, per
impedire quella paralisi tra esecutivo e legislativo che ha segnato la
presidenza Obama.
In quelle sue parole c’è il primo ingrediente
del fenomeno Sanders, la differenza abissale tra lui e la Clinton.
Hillary aveva preparato una campagna perfetta a tavolino, ha un
curriculum esemplare, nessuno discute la sua competenza. Sanders si
presenta invece come il leader di una grande causa, il trascinatore di
un movimento per risanare e rinnovare un’America turbata e insicura. Lei
parla alla ragione, lui ha una presa formidabile sui cuori e sulle
speranze. La divaricazione si ripete nei rispettivi atteggiamenti verso
Obama. L’ex segretario di Stato non perde occasione per elogiare il
presidente in carica e presentarsi come la continuatrice della sua opera
(soprattutto dopo il disastro del New Hampshire, ha un disperato
bisogno dell’endorsement dalla Casa Bianca). Sanders “continua Obama” in
un senso diverso: ne raccoglie la promessa di cavalcare una
mobilitazione permanente della società civile, per cambiare il paese;
una promessa che contribuì alle due vittorie di Obama nel 2008 e nel
2012, e poi fu regolarmente disattesa. Qual è il modo migliore per
difendere le grandi riforme di Obama (sanità, ambiente, matrimonio gay)
da una destra decisa a smantellarle? La Clinton sostiene che la sua
esperienza le consente di negoziare accordi bipartisan, proprio quelli
che la destra negò a Obama. Sanders punta invece su un ribaltamento dei
rapporti di forze, che riduca la destra in minoranza sia alla Camera sia
al Senato.
Un “riallineamento” storico di quelle dimensioni
riuscì a pochi presidenti: Franklin Roosevelt per i democratici, Ronald
Reagan per i repubblicani. È credibile che il prossimo sia il “nonno
sessantottino”? I giovani entusiasti che lo sostengono con percentuali
bulgare vogliono credere di sì, che sia questa la via maestra al
cambiamento.
Il suo programma lo stesso Sanders lo definisce
“socialdemocratico”: sistema sanitario nazionale a gestione pubblica per
rimediare la riforma incompleta di Obama che lascia troppo potere alle
assicurazioni e a Big Pharma; università gratuita; salario minimo
aumentato a livelli dignitosi; tasse sulla speculazione finanziaria di
Wall Street. I repubblicani e la stessa Hillary sono convinti di poterlo
affondare dimostrandone i costi fiscali: un prelievo di tasse di
livello europeo sarebbe davvero una rivoluzione socialista, dopo 40 anni
di egemonia neoliberista in America. Fu proprio Bill Clinton a
decretare la resa della sinistra a quella egemonia, quando affermò il
dogma che nessun democratico poteva riconquistare la Casa Bianca con la
ricetta “tassa- e-spendi”. Sanders vuole dimostrare il contrario: che la
bassa pressione fiscale americana è illusoria, perché sanità e
università sono un onere insopportabile per i bilanci privati delle
famiglie.
Ora per Hillary diventano cruciali gli appuntamenti
ravvicinati del Nevada e del South Carolina. Là c’è un elettorato
etnicamente più variegato. La saggezza convenzionale del clan Clinton
dice: al Sud e a Ovest si gioca in casa grazie a neri e ispanici. Ma
quel modo di calcolare a freddo il peso delle varie constituency
storicamente legate ai Clinton, non fa i conti con la capacità di
Sanders di creare un movimento, un’emozione nuova, facendo salire a
livelli record l’affluenza alle urne. I giovani ispanici e neri
potrebbero votare seguendo una mobilitazione generazionale,
“l’insurrezione dal basso” che resuscita lo spirito di Occupy Wall
Street. Quel movimento fu breve, effimero, ma la crisi che lo scatenò
non è dimenticata. Dietro la scommessa di Sanders c’è questa
convinzione: che l’impatto della crisi del 2008-2009 sulla condizione di
vita, sulla psiche e sull’immaginario di una parte degli americani si
avvicina allo shock della Grande Depressione, e come quello può
partorire trasformazioni straordinarie, che Obama ha appena accennato.