Repubblica 11.2.16
Debrà Libanòs l’ultimo oltraggio a quei monaci massacrati
Una strage compiuta dagli italiani in Etiopia. Un monumento a Rodolfo Graziani. Una storia finita in tribunale
di Alberto Melloni
Nel
2012 il comune di Affile ha dedicato un sacrario al viceré dell’Africa
orientale Fu la feroce rappresaglia per un attentato Vennero uccise
millecinquecento persone
La regione Lazio di Nicola Zingaretti ha
revocato il finanziamento al monumento in onore di Graziani nel comune
di Affile. Sul caso è attesa domani la pronuncia del Tar
Debrà
Libanòs è un nome difficile da fissare nella memoria del nostro paese.
Questa città monastica, nel lembo nord dell’altipiano etiope dello
Scioà, di fronte alle lande incontaminate del Mens, fu oggetto di una
grande strage di cristiani fra il 21 e il 29 maggio 1937. Le fonti
contano un minimo di quattrocento vittime fra i religiosi, che salgono a
millecinquecento, contando i fedeli. Un eccidio, comunque: che si
potrebbe presumere fissato nella memoria di tutti, come quelli delle
Fosse Ardeatine, di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema. Invece no.
Debrà Libanòs — il più grande massacro di una comunità religiosa
d’Africa — resta un nome sconosciuto a troppi.
Ma non è una
“scoperta” recente, venuta a tacitare il negazionismo strisciante di chi
proclama, forse per incoraggiare nuove avventure, la necessità di
liberare l’Occidente da un senso di colpa che non ha e da quella
diffidenza verso la guerra che si chiama (si chiamava?) Europa. Fin dal
1965 Angelo Del Boca aveva studiato anche questo frammento della “guerra
di sterminio” dell’Italia fascista in Africa orientale, denunciato a
suo tempo dagli etiopi. Negli ultimi trent’anni Michel Perret, Lucia
Ceci, Degife Gabre-Tsadik hanno aggiunto fonti, che Ian Campbell ha
ripreso in un volume del 2014, a cui Nicola Labanca ha dato un aiuto e
che Del Boca ha prefato. Un letterato, Luciano Marrocu, ne ha fatto
impudicamente lo sfondo di un romanzo giallo. Niente da fare. Debrà
Libanòs resta il nome di un delitto invisibile.
La strage viene
pianificata all’indomani dell’attentato del 19 febbraio a Rodolfo
Graziani, viceré dell’Africa orientale italiana. Ad Addis Abeba, due
resistenti di origine eritrea, si intrufolano alla festa per la nascita
del primogenito di Umberto di Savoia: lanciano granate, fuggono. Sette
morti, cinquanta feriti, fra cui Graziani.
In città si scatena una
rappresaglia feroce. Il corrispondente del Corriere della sera, Ciro
Poggiali, annota inorridito nel suo diario le uccisioni a sprangate, i
roghi che bruciano gli occupanti dei tucul e le chiese, le fucilazioni
di religiosi copti, gli sgozzamenti — il tutto ad opera di persone a lui
note e “normali”.
Se l’Africa è il luogo di collaudo del razzismo
italiano, questo si mostra lì in tutto il suo sanguinario vitalismo. Le
vittime si contano a migliaia: 6 mila dicono i giornali inglesi, 30
mila gli etiopi. Ma a Graziani non basta: egli resta convinto che nella
città monastica di Debrà Libanòs si debbano punire i mandanti con una
strage esemplare.
La mattanza viene fissata a maggio, attorno alla
grande festa di san Mikael. La gestirà il generale Pietro Maletti, che
fa annunciare la visita al monastero della seconda autorità della chiesa
copta, l’“ecceghiè” Tekle Ghiorghis, per attirare in trappola i monaci
dei romitori e i pellegrini. Il generale ispeziona a poche ore
dall’inizio delle operazioni un sito vicino: il precipizio che dalla
piana di Laga Wolde scende nel letto d’un torrente, il Fincha Wenz, che
sembra adatto a quel che ha in mente.
Il 18 maggio Maletti isola
il monastero: chiude in chiesa i pellegrini e i monaci che trova
rastrellando la città monastica. Il vicepriore (lo “tsabate”) Gabre
Mariam mette in salvo i suoi discepoli e i bambini nella cripta di
Maskel Beit. Un eremita, Abba Gebre Gyiorgis, riceve in sogno la visita
di un angelo che gli dice di fuggire: e fugge. Gli altri monaci e fedeli
— «circa mille» telegrafa Maletti — vengono imprigionati in parte nella
chiesa maggiore in parte nella vicina località di Chagel. Per due volte
viene la notte, e poi il giorno.
Il mattino del 20 maggio inizia
la mattanza, senza che gli altri prigionieri se ne rendano conto.
Vengono uccisi per primi i disabili e gli ammalati, i cui cadaveri sono
buttati nel fiume Gonjit. Al mattino del 21 alcuni camion iniziano a
trasferire i prigionieri a Laga Wolde. Lì vengono bendati e uccisi: gli
ascari controllano che nessuno si avvicini e sparano all’orecchio dei
martiri per finirli. Poi li si fa rotolare nel dirupo.
Chi sale
sui camion dopo i primi viaggi qualcosa capisce. I monaci copti portano
alla cinta un piccolo salterio, come simbolo e reliquia della millenaria
preghiera di una chiesa dalle origini apostoliche. Trovarne alcuni sul
fondo dei camion, insieme alle croci lascia intendere il peggio. Che
arriva inesorabile per tutti. I camion fanno 39 volte la spola: se
portano 30 persone, sono 1200 morti; se ne stipano 40, sono 1600
esecuzioni. Nel telegramma n. 25876 di quel giorno, Graziani si
attribuisce il merito di aver «fatto passare per le armi» 296 monaci
compreso il vicepriore e 23 complici: il resto non lo conta neppure.
Il
sabato 22 i camion portano le ultime 430 persone verso Debrà Berhan,
forse per dividere l’usura psicologica del massacro fra diversi reparti
di ascari e diversi soldati o ufficiali italiani. Trenta giovanetti (dei
novizi si direbbe nel lessico cattolico) vengono separati dal gruppo,
ma non per un gesto di pietà: andranno a finire nel famigerato campo di
concentramento di Danane, nella Somalia italiana, dove la metà dei
detenuti vengono uccisi dalla denutrizione. Gli altri quattrocento
deportati di Debrà Libanòs sono portati, mercoledì 26, a Guassa e lì
ammazzati: di 129 diaconi si tiene il conto nello scrupoloso telegramma
n. 27136 del viceré. Degli altri — insegnanti, fedeli, operai subalterni
— nulla si dice: vite irrilevanti al censimento di una strage che vuol
rasare via il monastero dalla storia. Per questo, per non lasciare nulla
di incompiuto, il 29 maggio tre monaci di Debrà Libanòs imprigionati in
precedenza ad Addis Abeba vengono fucilati, mentre coloro che lo
“tsabate” aveva nascosto a Maskel Beit, sono morti di fame e di sete nel
grande silenzio che avvolge il santuario.
A cose fatte Maletti si
vanta di un’azione «opportuna e salutare »; e Graziani telegrafa a
Roma: «Del convento di Debrà Libanòs non rimane più traccia». Ma non è
così: e non perché il suo successore cerchi di recuperare credito
lasciando riprendere la vita monastica di Debrà Libanòs.
Rimane
l’indelebile orrore che si tramanda a partire da quello straziante di
chi sei mesi dopo prova ad andare a cercare la salma dei propri morti
del monastero e deve desistere: sono ancora troppi gli strati dei
cadaveri, ammassati lì, in attesa che le iene e gli avvoltoi li
smozzichino, così da farli poi scivolare, brandello dopo brandello,
verso il fiume.
Rimane la vita semplice e pura di monaci pastori
ed eremiti: che tornano, col salterio alla cintola e il senso della
fraternità monastica (il priore di Bose Enzo Bianchi è stato loro ospite
e TV2000 di Paolo Ruffini sta realizzando un documentario).
Rimane
un delitto che non costituisce un’inattesa impennata della ferocia di
Graziani, ma fa parte del terrore nel quale la chie- sa etiopica ha
pagato un prezzo altissimo, col martirio di migliaia di cristiani e fra
loro della stessa guida della chiesa, l’Abuna Petròs, torturato e ucciso
dai fascisti (è come se i nazisti avessero portato Pio XII a via
Tasso).
Un successore di Abuna Petròs, l’Abuna Paulos, patriarca
della Chiesa “Tewahedo” ortodossa etiope, venne a Roma nel 2009 come
delegato fraterno al sinodo per l’Africa: ricordò anche il martirio del
suo predecessore nell’aula sinodale. Mi pare che nessuno nella Chiesa
colse l’occasione per dire la parola che il patriarca aspettava e che
globalallianceforethiopia. org chiede al papa. Neppure l’Italia colse
l’occasione per gesti che mostrassero l’intenzione di prendere atto del
dolore di un popolo e del martirio d’una chiesa: d’altronde non ha
saputo nemmeno fermare lo sfregio di un monumento dedicato nel 2012 dal
comune di Affile a Graziani, con tanto di prete reazionario benedicente,
sul cui finanziamento la magistratura si pronuncia domani, in un
procedimento che è una vergogna nazionale ridotta ad affare di Tar.
Prendere
atto di quella strage è difficile. Il pressapochismo e la sottocultura
che non vuol sentirsi dire che l’Europa è esattamente il “no” a tutto
questo resisterà agli sforzi per conoscere e riconoscere quel massacro
nel grande massacro coloniale. Ma proprio perché è più difficile è più
necessario.