sabato 27 febbraio 2016

La Stampa 27.2.16
La minoranza e quella lezione di Gaber
di Riccardo Barenghi

È difficile, a volte si tratta di un’impresa che va oltre le nostre forze. Spesso si fa finta di non vedere, ci si illude che la situazione possa cambiare, che con un po’ di pazienza e di tenacia si riuscirà a rimettere le cose nel verso giusto, a tornare alle origini. A quando ci eravamo tanto amati.
Ma la realtà pur essendo spesso sporca, brutta e cattiva, è appunto reale. E la realtà che oggi rappresenta il Pd di Matteo Renzi non è la stessa, tutt’altro, di quella in cui avevano creduto e che avevano costruito coloro i quali oggi sono in minoranza. La sinistra del partito, insomma, i vari Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza, Gianni Cuperlo, Miguel Gotor, Walter Tocci, lo stesso Massimo D’Alema da ormai due anni militano in un partito che non è più il loro partito. E ogni giorno che passa lo è sempre di meno. Fino a ieri quando si è concretizzato lo spettro che da mesi si aggirava attorno ai democratici: lo spettro di Denis Verdini. Che insieme all’altro, ossia quello di Angelino Alfano, sta via via mettendo una fortissima ipoteca sull’identità di quel partito tanto faticosamente partorito, da Prodi in poi.
E allora non sarebbe meglio per la sinistra prendere atto che quella storia è ormai finita, piuttosto che invocare improbabili congressi in cui discutere proprio di quell’identità? O sperare che Renzi perda il referendum costituzionale?
Oggi l’identità è Renzi e il suo progetto di Partito della nazione, ovvero di un qualcosa che attiri chiunque, elettori, dirigenti, funzionari, da sinistra a destra. Non importa cosa pensassero o facessero prima, importa che condividano le idee del leader (o viceversa). Se ne può anche discutere in un congresso, naturalmente, ma è molto probabile che quel congresso lo vincerebbe Renzi (che ha dimostrato una enorme capacità di prendere e di esercitare il potere nel partito e nel Paese). A quel punto la minoranza ne uscirebbe con le ossa ancora più rotte di adesso (e già le fratture sono molte e dolorose).
Che fare allora?, avrebbe detto Vladimir Lenin. C’è solo la strada su cui puoi contare, aveva risposto Giorgio Gaber quarant’anni fa. Mentre Ignazio Silone , dieci anni prima di Gaber, aveva intitolato il libro in cui racconta il suo tormentato addio al Partito comunista «Uscita di sicurezza».
In certi casi, e questo sembra proprio uno di quei casi, restare in una casa, in una ditta che non ti appartiene più diventa un’operazione autolesionista. Sarebbe meglio prenderne atto e partire armi e bagagli per una nuova avventura politica. Qualche compagno di avventura lo troverebbero sicuramente lì fuori, sulla strada. Certo, ci vuole coraggio: ma i dirigenti della sinistra del Pd non sono don Abbondio. Quello che il coraggio, se non ce l’hai, nessuno te lo può dare.