La Stampa 26.2.16
Il G20 contro la crisi, ora Pechino prenda l’iniziativa
di Andrea Goldstein
Il
G20 dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche centrali
che si tiene questo weekend a Shanghai è il più importante dal vertice
di Londra di aprile 2009. Fu allora che, creando il Financial Stability
Board e riavviando il credito al commercio internazionale, vennero messe
le basi per un sistema di governance globale che ha evitato che alla
Grande Depressione si accompagnasse un ancora più pericoloso aumento del
protezionismo e il possibile sgretolarsi della globalizzazione. Ora, in
un mondo incerto in cui le super-potenze sono più efficaci nel bloccare
i compromessi che nel consentire gli accordi, c’è bisogno di parecchia
leadership per uscire dallo stallo. In primis da parte dei cinesi che
presiedono il G20.
Che il 2016 sia iniziato male è sotto gli occhi
di tutti. Le spiegazioni più gettonate sono il rallentamento cinese, il
calo del prezzo delle materie prime, l’incertezza sulla direzione del
dollaro, la fragilità delle banche. E in più rispetto al 2008 c’è un
inedito addensarsi di nubi geopolitiche. Nessuna causa è però
sufficiente. Certamente quando la seconda economia mondiale non cresce
più al 9/10% annuo ma si accontenta di un 7%, le opportunità di vendere
materie prime o borsette ai cinesi si riducono. In compenso, una Cina
più attenta alla qualità della crescita è anche una Cina meno
ossessionata dall’esportare ogni genere di bene e, almeno nei paesi
industrializzati, questo riduce il deficit commerciale. Quando poi si
parla del prezzo del petrolio, è difficile capire se prevalgono i rischi
per i paesi produttori o le opportunità per i consumatori. Stessa
storia infine per il dollaro: da un paio d’anni il suo tendenziale
apprezzamento favorisce l’export europeo e giapponese, ma penalizza le
imprese che, soprattutto nei paesi emergenti, si sono indebitate in
valuta estera. Un dollaro forte poi è un ulteriore freno all’inflazione,
che Oltreoceano è da ormai tre anni e mezzo molto al di sotto del
target del 2%.
Di tanta incertezza è testimonianza l’inquietudine
della Fed, che sembra presa da rimorsi dopo aver rialzato il tasso di
sconto a fine 2015. Le altre banche centrali, dopo aver portato il costo
del denaro sotto lo zero, non sanno a che santo votarsi, anche perché
gli istituti di credito sono già abbastanza sotto tensione senza aver
bisogno di pagare una tassa per la liquidità che depositano.
Questo
vuol dire che il prossimo G20 è destinato a non incidere? Sicuramente
l’opzione dell’accordo globale per stabilizzare i mercati finanziari
sulla falsariga di ciò che il G7 cercò fare al Plaza nel 1985 e al
Louvre due anni dopo, senza peraltro grande successo non è più
percorribile. Ma non per questo ci si deve abbandonare al piagnisteo che
il genio della globalizzazione finanziaria è ormai uscito completamente
dalla bottiglia e che ogni tentativo di fare ordine è destinato al
fallimento. Come sostiene Olivier Blanchard, in questo momento i mercati
non hanno una bussola e sono ansiosi di vedere qualcuno assumersi la
responsabilità. Il G20 può farlo se si concentra sugli obiettivi per i
quali ha visto la luce conciliare la globalizzazione con la crescita
sostenibile e inclusiva. Per questo va dato nuovo vigore alla strategia
del Fsb: rafforzare le istituzioni finanziarie globali, eliminare il
problema di banche troppo grandi per fallire, regolamentare il mercato
degli strumenti derivati, contenere il fenomeno dello shadow banking.
Se
sul fronte della patrimonializzazione ci sono stati progressi,
soprattutto grazie all’adozione dei criteri di Basilea III, per il resto
ci sono seri problemi d’implementazione e compliance normativa. In un
quadro incompleto, l’incertezza si propaga rapidamente, come dimostrato
dall’attuale tensione intorno ai titoli bancari, in Italia più che nel
resto d’Europa, ma anche altrove. Circostanza che rinvia alla
maledizione della governance informale nei vari formati G che si sono
sviluppati negli ultimi anni: al di là della moltiplicazione degli
incontri e delle dichiarazioni, i meccanismi istituzionali sono fragili
ed è difficile trovare una soluzione condivisa ai problemi sistemici.
A
Shanghai il G20 ha un’occasione storica per dimostrare che il successo
registrato sette anni fa, quando nel momento più cupo della crisi
finanziaria globale si decise di farne il nuovo forum per la governance
globale, non è stato un episodio riconducibile unicamente a circostanze
eccezionali e auspicabilmente non ripetibili.