La Stampa 12.2.16
Ascoltare il brusio dell’universo
di Antonio Scurati
Fermatevi
un istante. Silenziate quel cavolo di smartphone e mettetevi ad
ascoltare. Usciamo dalle caverne e scopriamo la meraviglia.
Anche
qui, nel fondo delle nostre metropoli assordate dai crolli di Borsa, dai
proclami di politici garruli e dai romanzi d’appendice, perfino qui,
sotto il sordo tran tran della vita tardo-moderna, quando la città dorme
e gli uomini piangono, ci si può sintonizzare sulla frequenza di una
stella morente, si può udire il brusio dell’universo. Arriva anche qui
la musica delle sfere celesti.
Oggi, infatti, a cento anni esatti
dal giorno in cui il genio di Albert Einstein ne dedusse la necessità
per via teorica attraverso un calcolo matematico, e dopo numerose prove
indirette, l’esistenza delle onde gravitazionali è stata provata. Quella
sorta d’invisibile e inaudito tessuto cosmico che lega tra loro i corpi
celesti nelle loro universali gravitazioni, che lega i destini della
materia e dell’anti-materia, le sorti delle masse cieche inter-stellari,
che stringe un nesso indissolubile tra il tempo e lo spazio, quel
tessuto sottilissimo e ubiquo, più simile a un tappeto sonoro che a un
substrato materiale, è stato per la prima volta ascoltato.
Da
oggi, grazie a strumenti giganteschi e avveniristici che portano antichi
e leggiadri epiteti e nomi di donna - Virgo, Lisa - potremo percepire
il «sonoro» dell’universo, udire gli inauditi messaggi inviatici dai
moti di massa in galassie remote. Oggi siamo ancora e di nuovo
all’incrocio delle risonanze, oggi inizia una nuova era di ascolto
dell’universo.
Percepisco un diverso tipo di brusio. Più acuto,
più consueto, più metallico. Suona più o meno così: «Capirai che me ne
frega a me! Io ci ho la bolletta da pagare e il reflusso gastrico». E
subito il meraviglioso mormorio dell’universo notturno svanisce
soffocato dalla diuturna querimonia terrestre, dal raglio d’asino del
cantante a San Remo e dalla nota di basso continuo dei lamenti per la
fine del mese. A chi può importare davvero che il tempo non sia una
grandezza assoluta, che l’evento spazio-temporale si curvi come un
foglio di gomma sotto il peso della materia, aggravata anche dalla
minuscola macchia di sangue dei nostri corpi affannati, a chi può
davvero importare del comportamento di stelle binarie in procinto di
collassare l’una sull’altra, di buchi neri che si scontrano nel centro
inimmaginabile della nostra galassia, a chi frega dello «orizzonte degli
eventi», di quella zona di confine oltre la quale non ci sono più né lo
spazio né il tempo? A noi che non abbiamo più né santi né eroi -
nemmeno il progresso - quale sorpresa potrebbe riservare ancora
l’universo?
«Le città di notte contengono uomini che piangono nel
sonno, poi dicono Niente. Non è niente. Solo un sogno triste. O qualcosa
del genere … Passa rasente sulla nave del pianto, con i radar delle
lacrime e le sonde dei singhiozzi, e li scoprirai». Attraverso questo
memorabile incipit del suo miglior romanzo, Martin Amis ci introduce a
quel mondo in cui gli uomini non alzano mai la testa verso il cielo -
accanto a sé hanno solo donne che li fraintendono per l’ennesima volta
prima di tornare a dormire, niente dietro e niente davanti, se non la
scadenza del mutuo mensile - in cui gli eventi non accadono mai eppure
schiantano perché non hanno orizzonte. E’ il nostro mondo, non c’è che
dire, quello in cui lo spazio e il tempo non si curvano nemmeno a
martellate e se per caso provi qualche volta a mettere la testa fuori
dal guscio ti senti subito uno smarrito idiota del cosmo.
Eppure, a
ben guardare, il grande romanziere e la grande scienza si accordano. Lo
strano bipede che nel fondo delle città, a notte, piange nel sonno
ripetendosi «niente, non è niente» entra a modo suo in risonanza con
l’universo. E’ lo stesso animale che in un giorno glorioso riuscirà a
captare le onde gravitazionali. Si estinguerebbe presto se non provasse
ancora a cercare il proprio posto nel cosmo.