martedì 23 febbraio 2016

Il Sole 24.12.15
Mattarella grazia due ex agenti Cia
di Donatella Stasio

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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-12-24/mattarella-grazia-due-ex-agenti-cia-063805.shtml?uuid=ACYakYzB


Il Sole 23.2.16
La riforma costituzionale
L’iter legislativo e il Senato ridimensionato
di Giuseppe Franco Ferrari


Il Senato nella versione revisionata dal ddl Boschi presenta molti profili di interesse anche dal punto di vista delle funzioni, e in particolare della dinamica del procedimento legislativo. L’iter di formazione della legge ha assunto infatti profili di particolare complessità, rispetto al modello del 1948.
Anzi tutto, l’elenco delle materie in cui il bicameralismo perfetto è stato mantenuto si è ampliato rispetto alla versione originaria. La necessità della approvazione paritetica di Camera e Senato sopravvive in una lunga serie di casi. Non è facile individuarne il filo comune, ma l’elencazione può aiutare. In primo luogo, l’eguale consenso delle Camere occorre per leggi di revisione costituzionale, leggi costituzionali, leggi attuative di disposizioni costituzionali in materia di minoranze linguistiche: qui il nesso è riconducibile alla necessità di rispettare il procedimento aggravato dell’art.138 per modificare l’impianto della Costituzione. In secondo luogo, vi è una serie di materie che attengono alla forma di governo, come il referendum. In terzo luogo, tutta la normativa che attiene alle autonomie locali: scelta logica alla luce della composizione della seconda Camera, pensata per valorizzare il ruolo di Regioni e Comuni nella produzione normativa. Infine, la disciplina della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione Europea: si tratta del tentativo di rivitalizzare il ruolo dell’Italia attraverso un maggiore attivismo degli enti territoriali, spesso destinatari delle misure ma troppo passivi nel cogliere opportunità finanziarie e di sviluppo.
Al di fuori dell’ambito del procedimento bicamerale paritario, si apre un ventaglio di ipotesi che si innestano su un meccanismo base. Tutti i ddl approvati dalla Camera vengono trasmessi immediatamente al Senato, che può fare a meno di esaminarlo, nel qual caso il Presidente della Repubblica può fare luogo alla proclamazione. Un terzo dei suoi membri può tuttavia richiedere di esaminarlo e il Senato può decidere di farlo entro 10 giorni, nel qual caso ha a disposizione 30 giorni per deliberare emendamenti. Se però lascia decorrere tale termine senza completare l’approvazione di proposte modificative, egualmente può farsi luogo alla proclamazione. Nel caso in cui le modificazioni al testo della Camera siano varate nel termine, la Camera si pronuncia in via definitiva anche a maggioranza semplice; ove le proposte senatoriali siano rigettate in tutto o in parte, l’iter si chiude e il Senato non ha più voce in capitolo.
Nella sola ipotesi di ddl finalizzati a intervenire in materie riservate alle Regioni per motivi di interesse nazionale variamente atteggiati, le rispettive maggioranze vengono aggravate. Al Senato è richiesto infatti di deliberare a maggioranza assoluta, ma anche la Camera può disattenderne le indicazioni a maggioranza assoluta nel voto finale. La linea di divisione delle competenze tra Stato e Regioni viene così garantita da maggioranze qualificate. L’ipotesi non pare destinata a essere particolarmente frequente, visto che di solito l’invasione di ambiti regionali avviene in forma inavvertita o implicita e non per mezzo di una dichiarazione espressa, che pare riservata a condizioni di estrema emergenza economica o giuridica. Comunque, si tratta di una specie di contesto di chiusura, che contiene il criterio di soluzione di una vera e propria emergenza dell’ordinamento. Infine, in materia di bilancio, il termine a disposizione del Senato per proporre modificazioni è dimezzato a 15 giorni.
In sintesi, i percorsi base del procedimento legislativo sono 4, ma le ipotesi procedurali che possono verificarsi sono una decina. Il ruolo del Senato ne esce ridimensionato, ma a prezzo di una notevole dose di complicatezza procedurale.
Naturalmente un sistema politico robusto può sopportare qualche dose di aggravamento procedurale, specie se finalizzata ad obiettivi di semplificazione. Basti pensare, ad esempio, alla evoluzione del rapporto tra Comuni e Lords in Gran Bretagna dal 1911 al 2005. La svolta impressa alle nostre istituzioni ha però luogo in un unico passaggio, che coinvolge sia la forma di governo ed il bicameralismo che la forma di Stato ed il rapporto tra le autonomie territoriali e la sintesi statale. Rimane da vedere, quindi, in primo luogo come l’insieme della riforma verrà assorbito: un procedimento legislativo più breve può essere compatibile con complicazioni, se non rare, almeno sporadiche. La semplificazione tuttavia non basta. Occorre che le istituzioni ricevano nuovo impulso e stimolo ad un funzionamento più efficace. E soprattutto serve che la conformazione e il funzionamento del nuovo Parlamento contribuiscano a riavvicinare i cittadini alla politica. Questo però è il risultato più difficile.

Il Sole 23.2.16
Renzi ci mette la faccia. Con un occhio ai sondaggi
di Emilia Patta

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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-02-21/renzi-ci-mette-faccia-un-occhio-sondaggi-180523.shtml?uuid=ACjBuHZC


Il Sole 23.2.16
Due anni dopo Renzi, nel Pd si apre il cantiere dei candidati alternativi
di Lina Palmerini


Non è ancora chiaro come verrà costruita la candidatura alla segreteria Pd di Enrico Rossi ma un merito – intanto – ce l’ha. Ed è che ieri, con il suo annuncio, ha rotto il ghiaccio e ha ufficialmente messo nel partito una alternativa alla leadership di Matteo Renzi. Perché in questi giorni di bilancio sui due anni del premier - e delle alterne vicende del suo Governo - va fatto pure un bilancio di chi gli ha fatto opposizione e di come l’ha organizzata, soprattutto dentro il Pd.
La storia comincia con la minoranza che – dopo una direzione di partito - gli apre la strada per Palazzo Chigi ma da quel giorno molte cose gli sono state messe nel conto: Italicum, Jobs act, riforma della scuola, ultima legge di stabilità con il taglio alla tassa sulla casa, riforma del Senato. Tanti posizionamenti, sconfitte e mediazioni, ma dopo due anni dovrebbero essere mature le condizioni per far scendere in campo chi lo sfiderà alle primarie. E in effetti sembra che nel meeting di tre giorni organizzato a Perugia, dall’11 al 13 marzo, la minoranza del partito potrebbe lanciare Roberto Speranza verso la corsa congressuale. E cominciare a giocare una partita politica non solo in Parlamento ma nel Paese e tra le altre forze. Che è esattamente il passaggio che manca. Nel senso che non basta far mancare i numeri alla Camera o al Senato, come è accaduto su alcuni provvedimenti in questi due anni, ma la sfida è di trovarli - i numeri - nella società e nel partito delineando in modo chiaro quello che oggi non si capisce.
Perché tra i vantaggi del premier nel non avere avuto un anti-Renzi, è che questo gli ha consentito un margine di ambiguità o volubilità su alcune posizioni. Sull’Europa, per esempio. Il fatto di non avere nel partito una posizione netta e strutturata su quali proposte fare, a chi farle, quali alleanze costruire, a chi dire no e a chi dire sì, ha permesso che in questi due anni oscillasse da un’inclinazione tedesca a una anti-tedesca. Il punto, insomma, è che le politiche si definiscono anche in relazione a quelle dell’avversario o del competitor ma Renzi, su alcuni dossier, si è trovato davanti a un mare aperto. Con una minoranza che l’ha incalzato a strappi, su alcune leggi, ma che non ha costruito una posizione politica organica.
E quindi l’annuncio di ieri di Enrico Rossi di candidarsi – anche se alcuni nel partito maliziosamente dicono che è almeno il terzo – è forse l’avvio di una nuova fase in un partito che comunque tra un anno farà le primarie. Se non sarà prima. Resta, infatti, l’ipotesi di voto anticipato o di un congresso anticipato dopo il referendum costituzionale di ottobre. In sostanza, tutto comincia ad allinearsi verso una scadenza di 12 mesi - o forse meno - e per questo è più che attesa la convention della minoranza dell’11 marzo.
Che Roberto Speranza lanci o meno la sua personale candidatura, l’obiettivo è che si veda meglio il profilo politico dell’alternativa a Renzi. Che, per esempio, non sarà sul “no” al referendum sulla riforma costituzionale – votata anche dalla minoranza – ma che sarà un “sì” a quello sulle trivelle. E soprattutto si dovrà vedere meglio il menù su economia ed Europa visto che la piattaforma sociale della sinistra non sposa il rigore di scuola tedesca. Nel mirino ci sarà – verosimilmente – il Jobs act, si parlerà di redistribuzione e di reddito minimo: temi cruciali in un Pd che si sta trasformando e potrebbe trasformarsi ancora ma non si capisce bene come. Dopo due anni di Governo, anche per gli avversari è tempo di bilanci. E di proporre un anti-Renzi che non sia solo in grado di condizionare il premier ma che lo costringa a precisare i contorni della sua proposta di partito e al partito.

Il Sole 23.2.16
Verso fusione con la tv
Riassetto dei media vaticani Lombardi lascia la radio
di Ca. Mar.


Il gesuita padre Federico Lombardi, 73 anni - direttore della sala stampa vaticana dal 2006, incarico che mantiene - lascia la guida della Radio Vaticana, dove era approdato nel 1990 come direttore dei programmi e dal 2005 ne era direttore generale: gli subentra, nel quadro della riforma dei mass media vaticani che prevede tra l’altro l’unificazione dell’emittente con il Centro televisivo vaticano (Ctv), Giacomo Ghisani. Procede quindi il programma di razionalizzazione dei media della Santa Sede dopo la nascita della Prefettura per le Comunicazioni guidata da monsignor Viganò. Insieme a padre Lombardi da Radio Vaticana esce anche il direttore amministrativo Alberto Gasbarri, che lascia anche il delicato incarico di organizzatore dei viaggi papali, che ricopriva come responsabile da oltre un decennio (ma vi lavorava da 37 anni): il viaggio in Messico è stato il suo ultimo incarico e infatti il Papa lo ha pubblicamente ringraziato durante il volo di ritorno. A partire dal prossimo viaggio sarà sostituito da mons. Mauricio Rueda Beltz.

il manifesto 23.2.16
Una sinistra in quattro mosse
Cosmopolitica. Il comitatone, i referendum, le comunali. E dal 3 al 5 dicembre il congresso. Il gruppo centrale e i 60 delle regioni per decidere come eleggere il leader. E le regole delle assise
di Daniela Preziosi


La «sinistra massimalista» non vince «neanche le elezioni di condominio»; quelli che hanno vinto, come Alexis Tsipras in Grecia, «poi hanno assunto una posizione sanamente e pragmaticamente riformista».
Davanti ai cronisti della stampa estera in Italia il presidente Renzi la prende larga per dire quello che pensa di chi sta alla sua sinistra. Quelli fuori dal Pd sono «massimalisti», quelli dentro o si adeguano oppure «ciao», come ha spiegato domenica scorsa all’indirizzo della minoranza Pd.
Basterebbe questo per spiegare la mutazione che si è formalmente compiuta lo scorso week end al Palazzo dei Congressi di Roma in tre giorni fantasiosamente denominati «Cosmopolitica» che di fatto hanno consumato lo shakeraggio fra Sel, un gruppo di ex Pd con un tesoretto di militanti al seguito, alcune associazioni (Tilt, Act, Sinistra e lavoro), singole personalità, fra intellettuali ed ex social forum.
La giornata di domenica ha sancito il passaggio di testimone di Nichi Vendola, consegnato ad un video: «È tempo che una nuova generazione avanzi sulla prima linea». E il testimone sarebbe evidentemente destinato a Nicola Fratoianni, che ha fatto l’ultimo intervento (formalmente in quanto coordinatore della segreteria). Ma il leader in pectore della nuova formazione si è attenuto ai tempi stretti, come tutti gli altri, per dare l’idea che ancora niente è deciso.
E comunque nella tre giorni è affiorata una trama di giovani leader già in prima linea, e infatti molto applauditi: da Marco Furfaro di Sel («Che bello vedere due sindaci come Zedda e Pisapia venire in un laboratorio tematico, ascoltare e poi portare il proprio contributo. La sinistra torna a vincere se va per aggregazione, non per sottrazione»), Claudio Riccio, Act («Vogliamo costruire una grande forza popolare, saremo impegnati per non fare la solita cosa, la solita sinistra», Mapi Pizzolante di Tilt («Non mi abituo alla sinistra del rancore, delle formule, degli uomini che se lo misurano, voglio costruire un’intelligenza collettiva in cui governa la solidarietà, la condivisione, il mutualismo»). Per non parlare dell’esplosiva sindaca di Molfetta Paola Natalicchio, un vero fenomeno dal palco.
Ma l’assemblea è finita tutta in piedi per Luciana Castellina, fondatrice del manifesto e ormai un’icona di quest’area, che con ironia allegra elogiava i ragazzi e proponeva «una federazione dei vecchi». Prima aveva tributato applausi allo «zapatismo partenopeo» di Luigi De Magistris e a Leoluca Orlando. Più fredda l’accoglienza per un coraggioso Gianni Cuperlo venuto a offrire la sua mano per «continuare a costruire ponti».
Il nuovo soggetto nasce dalla rottura del centrosinistra.
Le comunali, il referendum sulle trivelle del 17 aprile e quello costituzionale — i primi tre appuntamenti del nuovo partito — non accorceranno le distanze.
Si vedrà al congresso che si terrà dal 3 al 5 dicembre.
Da qui a quei giorni la platea di Cosmopolitica ha deciso un percorso, con inevitabili dosi di riunioni di backstage.
La proposta accettata è quella di Peppe De Cristoforo, responsabile organizzazione di Sel, e discussa in due lunghe sessioni venerdì e sabato. A breve nascerà un comitatone promotore di 150 persone ripartito in tre «gambe».
La prima è quella dei parlamentari di Sinistra italiana. Una quarantina ormai: oltre a quelli di Sel e agli ex pd fin qui già confluiti, hanno annunciato la loro adesione gli ex dem Giovanna Martelli e Corradino Mineo, gli ex 5 stelle Campanella e Bocchino (un altro ex grillino, Zaccagnini, aveva già aderito). Resta di sapere cosa decideranno i senatori Uras e Stefano, vendoliani ma contrari al nuovo corso.
La seconda gamba sarà una delegazione ’centrale’ composta dalla segreteria nazionale di Sel e dai rappresentanti delle organizzazioni e associazioni fondatrici, insieme a singole personalità, in tutto una cinquantina di persone.
La terza gamba verrà dai famosi «territori»: entro due mesi saranno saranno sce lti tre rappresentanti per ciascuna regione «su base consensuale». Tradotto: dovranno mettersi d’accordo evitando i litigi. Cosa non semplice soprattutto in alcune città, leggasi Roma e Milano, dove la scelta arriverà in piena campagna per le amministrative e costringerà alla conta le componenti favorevoli alla ricostruzione del centrosinistra. Non sarà un pranzo di gala, lo si è visto già nel corso della tre giorni del Palacongressi in cui non sono mancate le polemiche anche ruvide: Cofferati e Fassina da una parte, Pisapia, Zedda e Smeriglio dall’altra.
I 150 del comitatone (a occhio solo il 50 per cento proverrà da Sel) dovranno decidere le regole per il congresso e per il tesseramento (sia online, sulla piattaforma «Commo», che nei circoli).
Ma è una partita tutta ancora aperta. Così come quella delicatissima della modalità dell’elezione del o dei leader, della scelta di un congresso per mozioni o per tesi, quella del nome.
«Sinistra italiana», nome provvisorio deciso prima dell’assemblea romana non ha riscosso l’entusiasmo dei più giovani né del coté ambientalista di Sel, preoccupato per questioni anche di impianto culturale del nuovo soggetto. Il simbolo è piaciuto ancora meno.
Resta anche il nodo di chi non c’è.
Non solo l’elettore della sinistra inseguito dal nuovo soggetto ma anche i «compagni di strada» che per ora restano su un’altra strada. Ferrero del Prc, presente a Cosmopolitica, ha ripetuto la sua proposta di coalizione di sinistra. Marco Revelli, dell’Altra Europa, quella di una «vera costituente di un soggetto plurale, unitario, inclusivo, aperto». Pippo Civati invece non c’era. Una risposta più possibilista è arrivata dai candidati unitari (Fassina e Airaudo) ma per Nicola Fratoianni la condizione resta l’ingresso nel nuovo partito: «Con oggi chiudiamo la stagione degli accrocchi a sinistra».

il manifesto 23.2.16
Renziani e cosmopolitani a confronto nella Rete
Sinistra. L’ottimismo e la fiducia per il leader del Pd. Scetticismo e recriminazioni per Ma appena inizia l’assemblea della sinistra l’umore cambia verso
di Aldo Carra


Renzi abbaia all’Europa per farci girare dall’altra parte e distrarci dai problemi irrisolti del nostro paese. Questo è abbastanza chiaro a tutti. Ma come mai raccoglie ancora il consenso di un terzo degli italiani ed addirittura registra qualche miglioramento? Oltre al neopopulismo renziano di cui si è parlato, c’è un altro fattore che non va trascurato: il consenso reale di cui Renzi gode nel paese. Questo consenso poggia intanto su un fattore storico: l’effetto trascinamento dell’elettorato proveniente dall’eredità di sinistra che sentiva fortemente il bisogno di accedere al governo nazionale da cui era stato escluso per decenni e che egli soddisfa.
Ma oltre a questo c’è il mondo social che interviene a sostegno. Per limitarci a Facebook esistono una varietà di gruppi di supporter di Renzi: Italiani con Renzi, gruppo dedicato a coloro che credono in Matteo Renzi; Italiani in Polonia con Renzi, Amici lucani insieme con M. E. Boschi; Matteo Renzi il futuro è solo l’inizio; Per M. Renzi insieme, ed altri ancora.
Si tratta di decine di migliaia di partecipanti che sono portatori del messaggio renziano.
Che rimbrottano chi protesta per le statue coperte dicendo che «parlando di questo si fanno passare in secondo piano i miliardi che arrivano e che creeranno posti di lavoro»; che si vittimizzano perché «tutti attaccano Renzi» e si consolano perché «questo dimostra il suo grande potere e questo giustifica tanti nemici»; che tifano «Renzi e vai.…l’Italia sta proprio prendendo il volo!»; che minacciano «volete riportarci all’immobilismo.…non ci provate»; che non sono ancora contenti della svolta di Repubblica: «bene Calabresi, ma ancora poco perché nel tono degli articoli prevale ancora la linea livorosa di Scalfari e Mauro»; non abbastanza soddisfatti nemmeno della Gruber perché ospita Scanzi e Travaglio; per non parlare della crociata antifannulloni: «era ora di un bel repulisti!!»; o dello squallido post con una M.E.Boschi in ampio décolleté e un commento che più maschilista non si può: «rosicate, rosicate..gufi e corvi!».
Naturalmente talvolta esagerano e ricevono questo post: scusatemi siete stati gentili ad inserirmi in questo gruppo, ma purtroppo non ho alcun interesse per il partito della nazione, anzi contatemi tra gli avversari non violenti, ma decisi. Succede, per eccesso di euforia, ai neofiti di esagerare.
Questi agit prop di nuova generazione sono la vera la base attiva del Pd di oggi.
Naturalmente vi sono anche quelli che non condividono, ma subiscono e quelli che si sono allontanati. Ma in un partito sempre più rinsecchito di circoli ed iscritti questo è il corpo vero del partito e la relazione affidata a tweet e social è il vero canale di comunicazione democratica. E’ la combinazione di questa componente con quelle prima descritte la vera chiave del successo renziano, malgrado tutto.
Ma se questo è lo scenario come vi si colloca la sinistra? Una carrellata parallela negli ambienti social frequentati dalla sinistra ci mostra una realtà ben diversa da quella prima descritta: sostanzialmente inesistenti post e commenti ottimisti o entusiasti.
Amarezza, contrapposizione, critiche su tutto, astio, processi al passato ed alle intenzioni, ferite recenti e lontane visibili, sono i tratti più diffusi. La comunità di sinistra somiglia ad una massa di persone che si aggira tra le macerie di un terremoto e che guardano con invidia chi ha subito meno danni, che si rinfacciano l’un l’altro le responsabilità dell’accaduto, perché c’era chi aveva previsto tutto e non è stato ascoltato e così via.
Quasi nessuno parla di proposte e cose da fare, quasi tutti di schieramenti, il nemico è sempre il vicino, nessuno guarda avanti e trascina gli altri verso un progetto di ricostruzione.
Emerge, insomma, una sinistra che non ha ancora elaborato il lutto delle vecchie sconfitte e divisioni e che guarda con sospetto e sfiducia ogni tentativo.
«Il nuovo partito sarà l’ufficio di collocamento dei sinistri che vogliono tenere il culo al caldo su una poltroncina gentilmente offerta dal Pd». «Cosmopolitica, una iniziativa totalmente preconfezionata: sabato andrò a scuola di mazurca»; «Una iniziativa veramente pessima: andate a quel paese!»; «Si debbono rimuovere gli errori commessi!», (intendendo naturalmente sempre gli errori degli altri).
Tutto questo fino a pochi giorni fa. Ma con Cosmopolitica qualcosa sembra poter cambiare. E, ad evento ancora in corso, cominciano a circolare post di tutt’altro segno: «Ci siamo! Dobbiamo svegliare questo paese addormentato», «Spero che i giovani riescano a prendere in mano il loro futuro». Fino ai cori da stadio: «Daje!», «E SIiiiii! Grande!!»; «Avanti compagni, diciamo SI!».
L’iniziativa dell’Eur, gestita bene dai giovani — i cosmopolitani sono stati i veri protagonisti organizzativi e politici — sembra segnare una inversione fino ad elevarsi in un: «Domenica sarebbe bello se potessimo dire: la sinistra è bellissima, senza frontiere e senza confini. Ovviamente potrà farlo chi ha il coraggio di mollare la terra ed assaltare il cielo. Buona cosmoavventura!».
Uno scatto di fiducia e speranza improvviso e nuovo. Una bella scommessa ed una enorme responsabilità per chi dovrà facilitare il processo. E, se così è, questa volta non si potrà certo sbagliare.

il manifesto 23.2.16
Nessuna verità per Giulio Regeni. E la repressione infuria
Egitto. L’Italia allenta la pressione, il boia no. Solo ieri 116 condannati, tra cui un bimbo di quattro anni (!). Agli arresti lo scrittore Ahmed Naji
di Giuseppe Acconcia


Tra i tavoli dei bar del Cairo, mentre fino a qualche giorno fa tutti gli avventori citavano Giulio e la necessità di fare chiarezza, ora il clima è cambiato. «L’Italia non fa la voce grossa», si sente ripetere.
In verità, due sono i motivi per cui il pressing del governo Renzi sul presidente al-Sisi non sembra affatto significativo. L’Italia è pronta a sostenere l’Egitto in caso di guerra in Libia. Questo è ormai uno dei punti più delicati della politica estera italiana dopo la formazione di un governo di unità nazionale che non accenna a decollare e i raid Usa su Sabrata. In secondo luogo, gli accordi economici per lo sfruttamento dei giacimenti di gas Eni, a largo di Port Said, sono tra le priorità in politica economica. Ieri il ministero del Petrolio egiziano ha dato il via libera definitivo ad Eni per lo sviluppo di Zohr XI, la storica scoperta dello scorso settembre che cambierà gli equilibri economici nel Mediterraneo orientale. Pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni era prevista proprio la firma dei contratti attuativi per procedere con i lavori, che dovrebbero chiudersi entro il 2017, tra Eni e autorità egiziane.
Tutto questo rende la verità nel caso Regeni più difficile da esigere e nelle mani delle autorità egiziane che hanno tutto l’interesse a depistare e insabbiare il caso. Nei giorni scorsi, gli egiziani erano tornati a protestare proprio sulla scia dell’indignazione per la morte del giovane dottorando italiano. Dopo le richieste di fare chiarezza sulla vicenda, avanzate la scorsa domenica dal premier Renzi, il ministro dell’Interno, Abdel Ghaffar, ha fatto riferimento all’intesa con l’Italia e alla necessità di «arrestare i responsabili». Ma sembra che le autorità egiziane non vogliano collaborare davvero con il team di investigatori italiani (Ros, Sco e Interpol), che si trova ormai da quasi tre settimane al Cairo. Gli inquirenti resteranno ancora, come richiesto anche dalla famiglia del giovane friulano in un’intervista rilasciata nei giorni scorsi.
L’Egitto è tornato ad alzare la voce per gli abusi compiuti dalla polizia. Decine di familiari di prigionieri politici e desaparecidos si sono radunati alle porte del Sindacato dei giornalisti per chiedere «processi giusti». Alcuni dei manifestanti tenevano tra le mani le foto dei loro familiari, detenuti nella prigione di al-Aqrab, quasi tutti processati da tribunali militari e condannati a morte. Non solo, i dirigenti del Centro per la riabilitazione delle vittime di Violenza e Tortura (Nadeem) hanno annunciato che resisteranno al provvedimento di chiusura della clinica, disposta direttamente dal governo.
Secondo Amnesty International sono 41mila i prigionieri politici in Egitto, circa 1500 i casi di sparizioni denunciate e migliaia le condanne a morte. Solo ieri il Tribunale del Cairo ha condannato a morte 116 persone per gli scontri del 3 gennaio 2014 tra sostenitori dei Fratelli musulmani e polizia che causarono 13 vittime. Tra i condannati a morte figurerebbe anche un bambino di quattro anni che all’epoca dei fatti ne aveva due. Questo dimostra ancora una volta che i giudici procedono a condanne sommarie senza neppure studiare i casi dei condannati o leggere i nomi degli imputati in aula.
In una lettera dal carcere, uno dei leader del movimento 6 aprile, Ahmed Maher, ha criticato la repressione che ha impedito migliaia di egiziani di tornare a protestare contro il regime militare lo scorso 25 gennaio. Nel giorno in cui Giulio Regeni è sparito, quinto anniversario dalle rivolte del 2011, non ci sono state significative manifestazioni di piazza.
E dopo le proteste dei giornalisti e gli arresti di comici e fumettisti, ieri lo scrittore Ahmed Naji è stato arrestato dopo aver subìto una condanna a due anni di prigione per linguaggio osceno. Le accuse si riferiscono al suo ultimo romanzo Istikhdam al-Hayah (Usando la vita) del 2014. Naji ha respinto le accuse. Secondo lo scrittore, autore di Rogers (2007), i giudici continuano a riferirsi al testo come a un articolo mentre si tratta di uno dei capitoli del suo libro. Anche il caporedattore del quotidiano Akhbar al-Adab, Tarek al-Taher, che lo ha pubblicato, dovrà pagare una multa di 1500 euro. Il sindacato dei giornalisti ha definito la sentenza un attacco all’«immaginazione degli scrittori».

il manifesto 23.2.16
Giulio Regeni non è un crimine isolato
Egitto. L’omicidio di Giulio Regeni è parte di una sistematica campagna tesa a chiudere lo spazio pubblico in Egitto. In una sola stazione di polizia al Cairo i gruppi per i diritti umani hanno documentato 14 casi di morte dopo tortura negli ultimi due anni, con 8 persone assassinate nel 2015. Anche il crimine di sparizione forzata è diventato frequente: le organizzazioni per i diritti che documentano questi casi stimano si sia arrivati a una media di circa tre casi al giorno
a cura dell'Arci


Le impressionanti notizie sulle torture e l’omicidio del ricercatore universitario italiano Giulio Regeni hanno prodotto un’inedita attenzione su alcune delle più grandi violazioni dei diritti commesse in Egitto contro cittadini e cittadine egiziani.
Tra i commenti espressi in Egitto sul caso Regeni, uno è particolarmente significativo: «Giulio era come noi, ed è stato ucciso come noi».
Un altro cittadino europeo, Ibrahim Halawa, che è stato imprigionato in Egitto nell’agosto del 2013 ed è stato vittima di maltrattamenti, ha testimoniato a una organizzazione non governativa per i diritti umani che «alcuni prigionieri erano costretti nudi in una posizione crocifissa nel corridoio della prigione, e altri sono stati sottoposti a scariche di elettricità — venivano usate vasche di acqua per aumentare il dolore».
Lettere e testimonianze
In una lettera spedita alla sua famiglia ha scritto: «Questo è un luogo dove si sperimentano torture.… Le parole non riusciranno mai a rendere giustizia di quello che succede nelle carceri egiziane».
Autorevoli organizzazioni sociali per i diritti umani hanno confermato innumerevoli casi di detenuti sottoposti a torture, a maltrattamenti e ad abusi sessuali, come descritto da Halava. Ciò avviene per estorcere confessioni e informazioni, ma anche nel contesto di pratiche punitive sistematiche, rivolte non solo contro i prigionieri politici ma anche contro ogni sorta di detenuti. Secondo un comunicato congiunto di quindici gruppi egiziani per i diritti umani, nel corso del solo novembre 2015 sono stati registrati 49 casi di tortura, inclusi 9 casi di morte durante la detenzione. In una sola stazione di polizia nel distretto Matareya del Cairo i gruppi per i diritti umani hanno documentato 14 casi di morte in conseguenza di tortura negli ultimi due anni, con 8 persone assassinate solo nel 2015.
Nel 2015, anche il crimine di sparizione forzata è diventato frequente in modo allarmante. Le organizzazioni per i diritti che documentano questi casi stimano si sia arrivati a una media di circa tre casi al giorno, e sottolineano il coinvolgimento di parecchie forze di sicurezza e dei servizi.
Nonostante questa realtà impressionante, l’Egitto non ha messo in opera nessuna delle raccomandazioni relative alla tortura che ha ricevuto durante la sua Revisione Periodica Universale nel novembre 2014. Queste raccomandazioni sono state presentate da Francia, Slovenia, Svizzera, Danimarca, Spagna, Botswana, Palestina e Gaza. Ancor più preoccupante, l’Egitto ha respinto tutte le raccomandazioni presentate in relazione alle sparizioni forzate.
L’impunità degli aguzzini
Tali pratiche, così come la quasi totale impunità dei corpi di sicurezza e del Ministero degli Interni, stanno ulteriormente minando la legalità in Egitto, già erosa a un grado mai raggiunto così come descritto dal capo del Comitato denunce al para-governativo Consiglio Nazionale dei Diritti umani.
Dal 2011, nessuno dei governi egiziani ha provato seriamente a realizzare riforme del settore della sicurezza o a lottare contro la sua cultura dell’ impunità. Al contrario, negli ultimi due anni, la legittima lotta contro il terrorismo è stata usata come una scusa per rafforzare questa cultura.
Il rafforzamento del «prestigio» dello Stato — inteso come la sua capacità di instillare paura- è considerato come la soluzione al terrorismo.
Sfortunatamente, il presidente Sisi non ha dimostrato una volontà politica chiara di voler porre termine a queste pratiche.
Nel suo discorso del 3 dicembre alla Accademia di Polizia Egiziana, egli ha negato che le sparizioni forzate e la tortura siano sistematici in Egitto, e ha esplicitamente dichiarato che si tratta solo di casi individuali. Questa dichiarazione differisce grandemente dai dati del report del Dipartimento di Stato Usa sulle pratiche dei diritti umani, il quale ha evidenziato più di 60.000 casi di arresti legati ad attività politica in Egitto nel solo 2013.
Ancora, il presidente Sisi non considera i diritti umani come una priorità: durante un’intervista televisiva il 1 febbraio 2016 egli ha affermato che è difficile e molto delicato conciliare diritti umani e sicurezza.
Oggi, mentre non c’è modo di far rendere conto ai responsabili, il flagello della tortura e delle sparizioni forzate sta aumentando l’instabilità perché nutre l’emarginazione, la rabbia e la disperazione fra componenti chiave della società egiziana. Rendendo la propria gioventù vulnerabile ai discorsi radicali e all’estremismo violento, l’Egitto sta diventando un terreno sempre più fertile per il terrorismo, per la crescita della violenza politica e della guerra civile.
La tortura, le sparizioni forzate e l’impunità per questi crimini sono attualmente fra le più gravi minacce alla sicurezza nazionale egiziana — una minaccia che non possiamo ignorare nella odierna situazione regionale. Nelle parole dell’ex prigioniero statunitense Mohamad Soltan, che ha avuto esperienza di abusi fisici durante la sua detenzione in Egitto, «la brutalità e la schiacciante perdita di speranza sta creando una situazione che giova alla narrativa dello Stato islamico, viene usata per reclutare persone e circolare il loro messaggio».
Il presidente Sisi rifiuta di ammettere che la stabilità e il rispetto dei diritti umani sono sinonimi; il 5 novembre il sindacato egiziano dei medici ha minacciato uno sciopero generale in tutti gli ospedali pubblici per protestare contro l’inazione della Procura sulle sistematiche violazioni dei funzionari di polizia contro il personale medico per ottenere trattamenti preferenziali. E invece, la Procura egiziana ha aperto una inchiesta sulla chiamata allo sciopero dei sindacati egiziani in quanto illegale.
Il destino spaventoso di Giulio Regeni dovrebbe dare la sveglia ai partners europei dell’Egitto. L’Europa, come l’Egitto, si confronta con le minacce di estremismi violenti che vanno combattuti senza violare i diritti dei cittadini; nessuno stato, nessun governo è interamente senza colpa, ma ciò non li condanna al silenzio di fronte alla caduta degli alleati in una spirale di violenza.
L’argomento della necessità non è più funzionale a giustificare un supporto acritico all’Egitto.
Il corpo di Islam Atito
Nel maggio 2015, il direttore del Cairo Institute Bahey El Din Hassan si è rivolto al Parlamento Europeo sul caso di uno studente egiziano il cui destino è stato simile a quello di Giulio. Il corpo del giovane Islam Atito è stato trovato in una zona desertica alla periferia del Cairo. Il Ministero degli Interni ha dichiarato che Atito avrebbe aperto il fuoco contro le forze di sicurezza e che sarebbe stato ucciso durante un conflitto a fuoco.
E invece testimoni hanno collocato Islam nella sua Università pochi giorni prima che il suo corpo fosse ritrovato, quando fu scortato da un funzionario scolastico e da agenti di sicurezza fuori dal campus, e mai più rivisto.
In risposta alla dichiarazione di Hassan davanti al Parlamento Europeo, il Cairo Institute è stato posto sotto inchiesta da un giudice.
Atito avrebbe potuto essere l’ultima vittima di crimini tanto orrendi, se il presidente egiziano fosse stato pubblicamente avvertito che gli alleati dell’Egitto non avrebbero più tollerato sparizioni forzate e torture, e se la Procura avesse aperto una inchiesta imparziale sul suo caso. Sfortunatamente ciò non è stata considerata una priorità e dozzine di altre persone, incluso Giulio, hanno condiviso il suo destino.
Nello stesso mese, un’altra autorevole organizzazione per i diritti umani ha lavorato a un progetto di legge per definire la tortura in accordo con gli standard internazionali.
Il leader di questa organizzazione e i giudici che egli aveva invitato a un simposio per discutere il progetto di legge sono stati tutti posti sotto inchiesta e i giudici sono stati sospesi. Chiediamo urgentemente ai leader europei di sottoporre queste richieste alle autorità egiziane:
a) un cambio immediato della politica su tortura e sparizioni forzate: la gravità e l’ampiezza della crisi attuale dovrebbe essere pubblicamente riconosciuta, la supervisione e l’assunzione di responsabilità di tutte le forze di polizia e di sicurezza dovrebbe essere annunciata come urgente priorità.
b) di invitare il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla Tortura e il Gruppo di Lavoro sulle sparizioni forzate a visitare immediatamente l’Egitto.
c) di concedere alle organizzazioni per i diritti, egiziane e internazionali, il pieno accesso a tutti i luoghi di detenzione e a poter visitare tutti i prigionieri in essi trattenuti. Consentire al Consiglio Nazionale per i diritti umani di compiere visite non annunciate in tutti questi luoghi, per assicurarsi che siano consoni alle norme, alla legge e alle garanzie costituzionali.
d) di investigare senza ritardi sulle denunce delle famiglie delle vittime di sparizioni forzate, e comunicare i risultati in modo ufficiale alle famiglie e ai collegi legali. Condurre investigazioni serie e trasparenti su tutte le denunce di torture da parte della polizia e delle forze di sicurezza; chiamare i colpevoli alle loro responsabilità senza eccezioni.
e) di perseguire tutti i funzionari egiziani di polizia direttamente coinvolti in pratiche criminali relative a pratiche di tortura e sparizioni forzate.
f) di inserire il crimine di sparizione forzata nella legge egiziana, e non renderlo soggetto a nessuna prescrizione. Ratificare la Convenzione per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate e il Protocollo opzionale della Convenzione contro la Tortura.
g) sulla tortura, di fare i necessari emendamenti al Codice Penale e al Codice di procedura penale in modo che essi corrispondano all’articolo 52 della Costituzione, che proibisce la tortura in tutte le forme e tipi.
Il Consiglio Nazionale Arci all’unanimità ha impegnato tutta l’associazione al massimo impegno per ottenere verità e giustizia per Giulio Regeni e tutte le vittime della repressione in Egitto. Nell’ambito di questa campagna, vi inviamo un documentato report su torture e sparizioni forzate in Egitto, con le richieste alle autorità italiane ed europee. Il rapporto è scritto sulla base della documentazione raccolta da associazioni egiziane dei diritti umani con le quali l’Arci collabora. Per chi volesse relazionarsi direttamente con loro, siamo a disposizione per fornirvi i contatti.

Il Sole 23.2.16
Grecia, 12mila migranti bloccati al confine con la Macedonia
di Vittorio Da Rold

qui
http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-02-23/grecia-salgono-12mila-migranti-bloccati-confine-macedone--102000.shtml?uuid=ACr3wEaC


Il Sole 23.2.16
Sistema bulimico
Per la Ue la Cina produce troppo
La Camera di commercio a Pechino: l’overcapacity si trasforma in dumping
di Rita Fatiguso


La bulimia del sistema produttivo cinese non ha fine, né sembra trovare rimedi efficaci. È denso di pessimismo l'ultimo rapporto sull'overcapacity cinese della Camera di commercio europea a Pechino: dal 2009, data della precedente edizione, la situazione, nonostante gli sforzi, è peggiorata. L'overcapacity è un ostacolo alle riforme, già il titolo della presentazione è eloquente.
«Non possiamo più importare i problemi della Cina – taglia, secco, il presidente della Camera Joerg Wuttke - l'overcapacity cinese si trasforma inevitabilmente in dumping, il che attesta chiaramente che il Paese non ha ancora adempiuto agli impegni presi 15 anni fa quando aderì al laWto: dimostrare, nei fatti, che si sarebbe preparata a diventare una economia di mercato».
Così, dimostra l'analisi della Camera, non è stato. Le mosse per contrastare l'overcapacity sono quanto di più lontano dalle forze di mercato, il surplus è peggiorato, Pechino lotta per attuare le riforme e superare la resistenza dei governi locali ossessionati dalla crescita, a tutti i costi. Adesso, proprio questa difficoltà di tenere a freno la produzione è una delle cause dell'incapacità di riformare il sistema produttivo.
Il protezionismo locale, l'incapacità di applicare anche le migliori direttive del Governo centrale, le tecnologie inadeguate, creano effetti a cascata tra cui un'allocazione non perfetta delle risorse, profitti ridotti, inquinamento, taglia i fondi per ricerca & sviluppo, il noto cortocircuito tra prestiti e interessi. Questo, a livello locale. «A livello macro – aggiunge Joerg Wuttke – l'effetto peggiore sta nelle dispute del commercio internazionale, sempre più frequenti, con potenziale perdita di posti di lavoro, un clima pesante che frena anche la capacità di investire all'estero. Non si può ribilanciare, si deve ristrutturare l'economia cinese. La nostra indagine dimostra inoltre che la strategia legata all'Aiib la nuova banca asiatica per le infrastrutture non è sufficiente, la Banca ha fondi limitati e ci sono prodotti che non possono essere esportati, i mercati dell'Obor, la One belt One road, inoltre, sono limitati».
Eppure il governo centrale cinese ha dichiarato guerra all'eccesso di capacità e disposto la chiusura di imprese “zombie” oppresse dai debiti come una delle sue priorità politiche per il 2016, e ha già reso noti piani di azione prima del Capodanno cinese per eliminare 100-150 milioni di tonnellate di capacità produttiva di acciaio di fascia più bassa e 500 milioni di tonnellate di produzione di carbone.
Quello più nel mirino è certamente il livello locale, l'indagine della Camera europea punta il dito contro quei governi che hanno perfino ostacolato le fusioni e le acquisizioni nel timore del trasferimento delle entrate fiscali ad altre giurisdizioni. Proprio nel 2008, anno del grande stimolo economico per combattere la crisi globale, la Cina ha iniziato ad accumulare sovraccapacità, approvando progetti faraonici e consentendo il calo drastico dell'utilizzo in settori come l'acciaio, l'alluminio e prodotti chimici. Tra i settori esaminati, solo quello delle turbine eoliche ha visto un miglioramento nell'utilizzo della capacità produttiva. Per di più l'overcapacity ha innescato una valanga di crediti, né Pechino oggi ha sufficienti energie per evitare il fallimento delle aziende afflitte da questo male. Ricordiamo che fino a un anno e mezzo fa lo Stato ha sempre salvato le aziende che non riuscivano ad onorare le scadenze dei corporate bond. Ecco perché le aziende cinesi hanno disperatamente cercato di esportare le loro eccedenze, l'anno scorso le esportazioni di acciaio verso la Ue sono cresciute del 50 per cento.
Secondo il China Iron and Steel Association (Cisa), la Cina ora ha un surplus annuo della capacità di circa 400 milioni di tonnellate, con tassi di utilizzo piombati al 67% nel 2015. Anche se la produzione è scesa per la prima volta dal 1981 l'anno scorso, la capacità probabilmente aumenterà ulteriormente nel 2016. La Cina inoltre chiuderà 1.000 miniere di carbone nel 2016 tagliando 500 milioni di tonnellate in 3-5 anni. Ha promesso di fermare l'approvazione di tutti i nuovi progetti delle miniere di carbone per tre anni, nel tentativo di controllarne la capacità. A parte il carbone, la Cina dovrà anche affrontare l'eccesso di capacità nel settore termoelettrico, quest'anno, controllando nuove costruzioni e l'annullamento dei progetti nelle regioni con più grandi eccedenze di capacità.
Tra le raccomandazioni dirette fatte dalla Camera al Governo c'è il bisogno di spezzare il triangolo d'oro enti locali- banche -società statali (bene con i local bonds, ma non è sufficiente). Riformare il sistema fiscale per dare alle regioni più possibilità, rafforzare le norme a difesa dell'ambiente, aumentare l'IP protection, ridurre i sussidi ai prezzi dell'energia, pubblicare dati più trasparenti in modo tale che le aziende possano essere informate delle decisioni. E indirettamente smettere di versare soldi alle imprese statali destinandoli invece alla social security, all'educazione, all'healthcare. Creare un safety net, migliorare l'ambiente di sviluppo generale dovrebbe essere questa la priorità.
Tre ore dopo, nei locali del Consiglio lo Stato il ministro dell'Industria e del Commercio Zhang Mao illustrava in conferenza stampa i progressi fatti nello sviluppo dell'economia, spiegando che oltre 750 aziende sono state messe fuori mercato, che c'è una lista nera per quelle fallite, che l'industria è sotto controllo e si sta giovando della variabile internet. Insomma, tutta un'altra storia. Forse proprio qui, in questa distanza abissale tra la realtà e le promesse sta il dramma dell'overcapacity cinese.

il manifesto 23.2.16
Quelle strane forbici sui fondi alla fondazione Basso
Camera. Oggi la decisione in commissione. Un’esclusione sorprendente da parte del Miur. L’ipotesi del ricorso al Tar
di R.D.M.


In un’intervista a Valentino Parlato di qualche anno fa, Umberto Eco diceva che negli anni ’70 «l’unica alternativa possibile» per chi volesse essere di sinistra senza stare con il Pci era, oltre al manifesto, «il giro di Lelio Basso». Questo patrimonio culturale si è tramandato per decenni, ma il ministero dell’Università e della ricerca non sembra riconoscerlo. Per il triennio 2014–2016, infatti, il Miur alla Fondazione Basso non darà un euro. Alla faccia della sua storia e della sua attività attuale, con nomi in cda come Fabrizio Barca, Salvatore Settis, Walter Tocci, Stefano Rodotà.
Questa mattina la commissione Cultura della Camera dovrà esprimersi sullo schema di decreto ministeriale che istituisce la tabella triennale 2014–2016 degli enti privati di ricerca e ripartisce tra di essi lo stanziamento previsto dal Miur per l’anno 2014. In sostanza, solo oggi si chiede un parere su un provvedimento che per oltre due anni è rimasto inevaso. Inoltre, parliamo di contributi statali (pochi) all’attività di ricerca svolta da Istituti che, sebbene abbiano una forma giuridica privata, svolgono una funzione di utilità pubblica riconosciuta da un Decreto del Miur del 2008. La cosa più sorprendente, e deludente, si ricava però dalla lettura della tabella allegata al provvedimento, dove sono elencati i 42 Istituti ammessi al contributo: non tanto per le presenze, ma appunto per un’assenza che appare incomprensibile. Non si trova infatti traccia della Fondazione Lelio e Lisli Basso (Issoco), della quale è ampliamente nota, in Italia e all’estero, la fervente attività scientifica e di ricerca su temi fondamentali per la conoscenza della società contemporanea svolta da oltre 40 anni in ogni parte del mondo: dagli studi storici al diritto, dall’antropologia alla filosofia, dall’economia alla sociologia, fino a comprendere le interazioni con la dimensione tecnico-scientifica nei campi della bioetica e dell’ambiente, delle risorse energetiche e delle tecnologie digitali. Sulla base dei punti fermi dell’interdisciplinarità e della dimensione internazionale, la Fondazione Basso contribuisce a costruire il discorso scientifico e culturale sulla democrazia, sui movimenti sociali, sulle più emergenti contraddizioni del contemporaneo e ha una spiccata e originale vocazione per la difesa dei diritti fondamentali in Italia, in Europa e nel mondo. La sua attività nel campo della formazione comprende scuole di giornalismo e di democrazia politica, corsi di perfezionamento sui diritti e sui patrimoni culturali. Ha rapporti di collaborazione scientifica con le università e gli enti di ricerca a tutti i livelli, su scala locale, nazionale e internazionale.
L’assenza della Fondazione Lelio e Lisli Basso dall’elenco dei contributi sembra dunque scandalosa ed è a maggior ragione sorprendente perché figurava nelle tabelle dei trienni precedenti. Si tratta dunque un’esclusione che, si ricava dal raffronto delle tabelle, giunge nel momento in cui gli istituti finanziati, per complessivi 3 milioni di euro, beneficiano di aumenti fino al 630%. Beninteso, sono sempre pochi soldi, ma che in un momento di grande difficoltà per gli istituti di cultura rappresentano pur sempre un aiuto fondamentale e che meriterebbero una gestione più accorta e basata sugli effettivi riscontri di merito. C’è naturalmente la possibilità del ricorso al Tar.

il manifesto 23.
Ida Magli
L’antropologa scomoda
Ritratti. È morta a 91 anni Ida Magli. Scrisse testi fondamentali sul matriarcato, la sessualità, l'iconografia della Madonna e la storia laica delle donne religiose. Negli ultimi anni, aveva radicalizzato il suo pensiero, abbracciando posizioni reazionarie
di Alessandra Pigliaru


Figura controversa e complessa del panorama italiano, l’antropologa e scrittrice Ida Magli è scomparsa a Roma all’età di 91 anni. Per chi ne abbia letto i numerosi testi, in particolare quelli pubblicati tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta, dedicati ad argomenti liminari al femminismo – è difficile individuare la ragione che, negli ultimi venti anni, l’ha spinta verso un passo reazionario. Sarebbe tuttavia riduttivo collocarla alla svelta nella deriva antieuropeista che in tempi recenti ha abbracciato anche se, in tutta onestà, potrebbe essere questo uno dei motivi che l’ha resa poco attraente soprattutto alle generazioni di giovani studiose che, con i testi, si confrontano. Ma per capirne il quadro completo e l’eredità che ha lasciato a chi si misura con i senso parlante dei testi, bisogna fare un necessario passo indietro, ne sono convinte in molte che di Magli hanno ascoltato quelle mirabili lezioni di Antropologia culturale alla Sapienza di Roma fino al suo pensionamento nel 1988.
Tra quelle allieve spicca Loredana Lipperini che, quando la notizia della scomparsa della professoressa Magli è stata diffusa, ha affidato ai social network parole tanto affettuose quanto colme di gratitudine per averle insegnato una curvatura dello sguardo ineguagliabile. Ed è forse su questo che ci si potrebbe soffermare, non per espungere i testi dal portato biografico ma per evitare di renderla una intellettuale rubricata semplicisticamente e rapita dalle destre; perché cioè le vada riconosciuto ciò che ha fatto, ovvero individuare alcuni elementi essenziali e spesso scomodi al dibattito antropologico e femminista contemporaneo e che poi hanno retto la parte centrale della sua esistenza.
In realtà, la storia tra Ida Magli e il femminismo è stata piuttosto intermittente, e questo nonostante abbia avuto da sempre il chiaro desiderio di seguirne il passo a giudicare dai passaggi che le sono stati cari.
Basti pensare a volumi come Matriarcato e potere delle donne (1978), in cui compaiono alcuni passi sulle società matriarcali e una inedita traduzione del poderoso testo Das Mutterrecht di Bachofen. Solo due anni prima, aveva fondato la storica rivista dwf.
È del 1982 La femmina dell’uomo e poi c’è lo studio in cui si concentra su Santa Teresa di Lisieux. Una romantica ragazza dell’Ottocento (1994), quello su La Madonna (1987), fino a un’interessante edizione aggiornata, dieci anni dopo, La Madonna, dalla Donna alla Statua; cruciale è stato La sessualità maschile (1989) e il suo studio sulla Storia laica delle donne religiose (1995).
Insieme ai testi forse più conosciuti vi è stato l’impegno costante verso l’antropologia che ha percorso sempre con disinvoltura e originalità di posizioni. È suo il più generale manuale di Introduzione all’antropologia culturale (1983) così come si deve a lei la fondazione e direzione (dal 1989 al 1992) della rivista Antropologia culturale.
Il nodo sessualità-religione è stato per Magli uno dei più frequentati, là dove entrambi i punti sono stati sempre interpretati con una certa ritrosia anche nella discussione politica pubblica.
Ida Magli in realtà, come ricorda Lea Melandri, che abbiamo raggiunto per telefono, è stata precorritrice lucidissima di alcuni snodi fondamentali: «Certo, non si può leggere solo parzialmente, bisogna guardarla nel suo intero e in quanto è stata capace di offrirci alla lettura. È rimasta sempre abbastanza in disparte, ma il femminismo l’ha intersecato; forse non è stata così riconosciuta come avrebbe meritato, e molto ci possono raccontare ancora i suoi libri; vi sono per esempio frammenti folgoranti, coraggiosi che mettono in chiaro alcuni aspetti forti: sessualità, immaginario e fantasie maschili sui corpi delle donne e il grande nodo religioso». Melandri prosegue citando alcuni passaggi cruciali, per esempio quelli che attengono il corpo delle donne, la sessualità e il potere che disciplina i corpi fino a diventare violenza.
Su quest’ultimo punto, infatti, anche la stessa attenzione di Melandri si è soffermata. «Ho letto e riletto alcuni suoi frammenti perché penso ci siano preziosi. Non sono stati mai scontati e andrebbero ascoltati. Ma penso anche alla lezione sulla storia laica delle religiose, un lavoro straordinario che andrebbe accolto con maggiore generosità».