il manifesto 27.2.16
Denis, il puntello di Matteo. Ma anche la sua zavorra
Governo.
Al di là della retorica renziana, il premier esce indebolito dalla
vicenda delle unioni civili. E se abbia fatto bene i conti lo si
scoprirà presto
di Andrea Colombo
Matteo Renzi
esce dalla partita delle unioni civili indebolito. Ha dovuto piegarsi al
ricatto di un alleato considerato sino a quel momento del tutto
impotente. Una campagna che era stata pensata con la palese finalità
strategica di riconquistare consensi a sinistra in vista delle comunali
si è conclusa, da quel punto di vista, disastrosamente. Infine, il
premier ha dovuto registrare, nel momento meno opportuno, l’ingresso
semi-ufficiale dei mercenari di Denis Verdini nella maggioranza. Che
prima o poi dovesse accadere era inevitabile, ma certo non ora, non alla
vigilia del voto amministrativo, non su una legge già condizionata dai
rappresentanti del cattolicesimo più reazionario.
Che questo esito
non fosse inevitabile, aldilà del bombardamento propagandistico teso ad
addossare ogni responsabilità al Movimento 5 Stelle, è certo. È vero
che i pentastellati erano stati oggetto di fortissime pressioni da parte
dei vescovi, ma è anche vero che Gianroberto Casaleggio aveva garantito
loro solo la resistenza sul piano procedurale, confermando che sul
merito della stepchild adoption i suoi senatori avrebbero deciso per
conto loro. La legge, senza stralcio e fiducia, sarebbe passata nella
sua versione originaria.
In parte Renzi ha giocato sulla
difensiva. Temeva non una bocciatura del ddl ma l’approvazione di
qualche emendamento subdolo proveniente dall’interno del suo partito,
che lo avrebbe messo in una posizione ancor più difficile, senza nemmeno
potersi vantare di aver imposto la legge. Ma l’elemento determinante è
stato probabilmente un altro. Renzi sa di essere sotto assedio. Il
rischio di perdere consensi nelle urne è temibile, ma ha considerato
anche più minaccioso quello di trovarsi sguarnito, con una maggioranza
in frantumi e circondato da amici pronti a tradire a fronte dell’assedio
dei poteri che, in Italia e in Europa, vogliono toglierselo di torno,
non subito ma appena dopo il referendum.
I paragoni con il passato
sono sempre tirati per i capelli. La situazione di oggi è molto diversa
da quella del 2011, quando una trama europea forte di altissime sponde
in Italia mise alla porta Silvio Berlusconi. Al Quirinale non siede più
Giorgio Napolitano, che è ancora attivissimo ma almeno non più
onnipotente. L’Europa cinque anni fa poteva ancora presentarsi con
un’immagine granitica. Oggi fatica a fronteggiare il disfacimento.
Infine, un nuovo colpo di mano non sarebbe probabilmente accettato dagli
italiani, che subirono invece senza un fiato quello del 2011, persino
con qualche sciagurato festeggiamento in nome dell’antiberlusconismo.
Ciò
non toglie che l’offensiva già iniziata, e per nulla stemperata dai
sorrisi diplomatici di ieri nell’incontro Juncker-Renzi, sia molto più
che preoccupante. Se l’obiettivo di sfrattare Matteo Renzi da palazzo
Chigi appare oggi fuori portata per chiunque, quella di mettergli il
guinzaglio al collo dettandogli nel dettaglio le scelte economiche è
invece un’ambizione del tutto realistica.
Con Napolitano ancora in
campo come tutore degli interessi europei (proprio a lui avrebbe
telefonato settimane fa Angela Merkel per chiedere di riportare
all’ordine il reprobo fiorentino) e con un Pd che all’Europa ha sempre
offerto una resistenza di burro, il premier ha scelto di rinsaldare
prima di tutto la propria maggioranza e di puntellarsi apertamente su
Verdini. È una decisione che gli costerà voti sonanti e che offre
un’arma contundente all’opposizione interna al partito ma che Renzi ha
comunque preferito all’eventualità di affrontare l’attacco dei poteri
finanziari interni ed esterni quasi senza difese. Se abbia fatto bene i
conti o no, lo si scoprirà molto presto.