martedì 16 febbraio 2016

il manifesto 16.2.16
Conflitto di interessi, va in scena lo scontro
Alla camera. Proposta di legge blanda a trazione Pd, ma per Forza Italia è comunque troppo e il relatore berlusconiano si dimette con un pretesto
di Andrea Fabozzi

ROMA Fuochi d’artificio in prima commissione alla camera dove si discute la legge sul conflitto di interessi («la faremo nei primi 100 giorni» disse Renzi due anni fa), il relatore di Forza Italia si è dimesso. Si tratta di quel Francesco Paolo Sisto che aveva conservato l’incarico da quando — con i berlusconiani formalmente in maggioranza — era presidente della commissione. Quasi un atto dovuto, che i forzisti hanno voluto enfatizzare parlando di «asse Pd-M5S» destinato a produrre nientemeno che «un ostacolo all’esercizio dei diritti politici». Casus belli la bocciatura della proposta di Forza Italia di rendere non punibile la coincidenza tra l’interesse privato e il generale interesse pubblico.
È sempre stato questo l’argomento difensivo di Berlusconi nei lunghi anni in cui ha governato al riparo della debole legge Frattini: i miei interessi (a proposito di tasse, o di giustizia) coincidono con quelli degli italiani, dunque che male c’è? Niente da fare, ha detto ieri il relatore (sopravvissuto) di maggioranza, il deputato Pd Sanna, accogliendo di buon grado le dimissioni di Sisto: «Forza Italia ripropone uno degli argomenti triti e ritriti tipico della legge Frattini, noi ci battiamo per una legge seria». Peccato però che in uno degli articoli che saranno esaminati oggi (articolo 7 comma 8) sia prevista come situazione di conflitto di interessi la mancata astensione di un componente del governo ma solo nel caso in cui il «vantaggio economicamente rilevante» che gliene deriva sia «differenziato rispetto alla generalità dei destinatari». Siamo sempre lì. Ed è possibile un altro passo indietro: nel testo in esame è prevista la nullità dei voti espressi in consiglio dei ministri da chi è in conflitto di interessi, l’atto è poi revocabile «in autotutela». Un emendamento del Pd rimette in discussione il principio: deciderà di volta in volta il presidente del consiglio.
Il testo base che arriverà in aula la prossima settimana — si tratta di un ritorno, dopo 14 mesi — non è certo un testo all’americana. Non c’è il blind trust, il fondo cieco che solo può consentire di separare seriamente il patrimonio e le attività economiche dal titolare di cariche di governo. Al suo posto un «contratto di gestione fiduciaria» attraverso il quale l’amministratore pubblico affida a una banca o a una società specializzata l’amministrazione del suo patrimonio, ricevendo periodicamente informazioni e dividendi. Sono esclusi anche i conflitti di interesse non immediatamente economici, visto che — in questo caso con la convergenza di Pd e Forza Italia — è stata cancellata quella parte dell’articolo 5 che sanzionava le «interferenze» anche «in assenza di uno specifico vantaggio economicamente rilevante». «Avrebbe dato luogo — ha spiegato Sanna — a continue incertezze». E non c’è neanche l’estensione della vigilanza dell’Antitrust sui patrimoni del pubblico amministratore nei tre anni successivi alla cessazione dalla carica, quando non si può escludere che vengano riscossi i crediti politici. È stata invece, su proposta di Si-M5S, introdotta una sanzione penale per i ministri che non comunicano correttamente all’Antitrust la loro situazione patrimoniale. Oltre alla multa si potrà procedere per omissione di atti d’ufficio, il che significa che può scattare la decadenza prevista dalla legge Severino. Per i ministri solo dopo la condanna definitiva.