il manifesto 11.2.16
Lo scompiglio del potere
Sentieri
critici. Un percorso di letture, alcune cruciali e altre discutibili,
sull’opera di Michel Foucault, a partire dal confronto aperto con Marx
che invita a un controverso «corpo a corpo»
di Girolamo De Michele
La
pubblicazione degli ultimi corsi e alcuni convegni hanno reso densa la
bibliografia critica su Michel Foucault: dai volumi collettivi Usages de
Foucault e Marx & Foucault a Le sujet des normes di Macherey,
dalla monografia di Chignola Foucault oltre Foucault ai capitoli
foucaultiani di Confini e frontiere di Mezzadra e Neilson e di La razón
neoliberal. Economía barrocas y pragmática popular di Verónica Gago.
Prova a staccarsi da questo panorama il volume curato da Daniel Zamora
Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale
(edizioni Aden, Paris), che si propone di svelare, attraverso la
comprensione degli «anfratti più ambigui della gauche intellettuale»,
una compromissione con il pensiero neoliberale di Foucault nel suo
«ultimo periodo di lavoro», che sarebbe «relativamente poco sottolineata
e spesso ignorata», e che sarebbe un significativo indice della deriva
della gauche post-68.
In verità, è curiosa la descrizione di un
Foucault misconosciuto in un volume del quale sono parte preponderante
Michael C. Behrent, Michael S. Christofferson e Jan Rehmann, dei quali
le critiche a Foucault sono note da anni: tant’è che buona parte del
volume è costituito da testi già pubblicati lo scorso decennio, o
riscritture di cose già dette. Vale a dire: testi che precedono non solo
il «Foucault greco» (falsificandolo in una sorta di riposo del
guerriero conseguente alla sua abdicazione neoliberale), ma anche i
corsi sulle istituzioni penali e la società punitiva, dai quali si
evince la presenza di Thompson e Porchnev nelle letture del Foucault
preteso pre-politico. Insomma, un «ultimo Foucault» che inizia e finisce
dove piace ai suoi «demistificatori». Cui si aggiunge spesso il mancato
uso sistematico dei Dits et écrits, sostituiti da un utilizzo dei testi
e delle citazioni secondo il metodo dei morceaux choisis. Così del
corso sulla biopolitica Behrent fornisce una faziosa genealogia, che
elenca l’ingresso in Francia del neoliberalismo senza fornire alcun
nesso causale fra le traduzioni di Hayek e Friedman e il lavoro di
Foucault: si allude a una concomitanza che si insinua essere non
casuale, omettendo di ricordare che quegli stessi anni coincidono con
episodi di militanza attiva, o con intense attività seminariali delle
quali esiste una testimonianza inoppugnabile in un lontano e prezioso
fascicolo del 1978 di «aut aut» (n. 167–168).
Così come viene
riscritta la biografia intellettuale di Foucault con scivoloni
marchiani, come quello che accade a Christofferson per aver preso per
buona senza verifica l’affermazione che «le parole capitalista e
proletariato non appaiono in alcuna opera di Foucault prima del 1970»
(Eric Paras): affermazione falsa – e molte sorprese avrebbe lo sciatto
lettore se cercasse anche bourgeois, o addirittura Marx; e soprattutto
che non comprende l’intrinseca politicità del Foucault studioso degli
enunciati e dei rapporti fra cose e parole. Quanto alla tentazione
neoliberale, essa è resa credibile con lo scorporo del corso del 1979 da
quello del 1976, nel quale Foucault chiariva l’intenzione di avviare,
enunciando delle fondamentali «precauzioni di metodo», a un’analitica
del potere tutt’altro che accondiscendente; di scorporare il corso sulla
biopolitica dal conseguente sviluppo in direzione dei processi di
soggettivazione non solo come assoggettamento, ma altresì come
resistenza al potere; e di spacciare la lettura del neoliberalismo – o
l’analisi della dottrina fiscale di Stoléru (Zamora) – per un’adesione
ideologica. Ignorando, come sottolinea Laval nel suo contributo a Usages
de Foucault, che Foucault ha chiarito in un’intervista inedita
recuperata dallo stesso Laval (ma anche in Non au sex du roi, compreso
nei Dits et écrits), come la sua «analisi positiva» delle forme di
potere, in analogia con le pagine di Marx sulla questione dei furti di
legna, non comporta alcun giudizio favorevole agli «aspetti negativi»
del liberalismo, ma al contrario la loro comprensione come «effetti
negativi di una nuova figura di potere».
Lotte trasversali
È
Rehmann a esemplificare, suo malgrado, il livello di questa pretesa
critica, laddove, riferendosi a Bread and roses di Ken Loach, osserva
che lo spettatore «avrebbe difficoltà a identificare le sottili tecniche
di condotta di sé, ma vi troverà molte caratteristiche di un feroce
«dispotismo del capitale» che gli studi foucaultiani bypasserebbero (con
buona pace di Chakrabarty, che si serve proprio di Foucault per
attualizzare quel concetto marxiano). Il fatto è che Foucault non negava
(si veda il dibattito con Chomsky del 1971) il carattere classista
dello sfruttamento: aggiungeva però che la determinazione economica, da
sola, non è sufficiente a individuare i luoghi e le forme in cui si
esercita questo «potere di classe».
È Rehmann, per contro, a non
riuscire a vedere i processi di soggettivazione presenti nel bel film di
Loach: dalle lotte dei migranti nel settore dei servizi che mettono in
questione la centralità e le pratiche del sindacalismo tradizionale,
alle soggettivazioni di genere e alle pratiche di assoggettamento. Ciò
che sfugge a questi critici è che il corso sulla biopolitica non chiude,
ma riapre la ricerca foucaultiana: in direzione del rapporto fra
liberalismo, biopolitica e regimi di veridizione, e del rapporto fra
neoliberalismo, ragione calcolante e società del controllo.
Tutta
qui, dunque, la loro capacità interpretativa? Sì e no. Perché se gli
strumenti sono davvero rugginosi e spuntati, il vero scopo di questo
libro appare piuttosto la costruzione di una grunf-filosofia al servizio
di quella politica grunf-grunf che vede nelle forme di lotta e
conflitto del tempo presente il tradimento di un programma
materialistico in stile-Diamat, del quale si indicano i responsabili in
Foucault e nei Nietzscheani di sinistra – così Rehmann nel libro
omonimo, non per caso introdotto in Italia da Stefano Azzarà, da anni
intento a riscrivere il capitolo su Nietzsche del De Ruggero-Canfora.
Quasi che non sia stato Foucault a studiare le lotte trasversali al loro
manifestarsi, ma i soggetti di queste lotte ad aver agito sobillati
dalla lettura di Foucault, Nietzsche e Deleuze.
Non stupisce
allora che sia l’autore del saggio più teoreticamente debole, Jean-Loup
Amselle, a costruire (come fece Cacciari nel 1977) una «sinistra
post-moderna» a suo uso e consumo nella quale ribollono assieme Negri e
Aubry, Agamben e Halloway, Occupy Wall Street e gli Indignados, la cui
strategia riformista consisterebbe nella svendita all’austerità e
all’abbattimento dei livelli di vita in cambio di qualche «leccalecca»
come il matrimonio per le coppie omosessuali.
Nondimeno, questi
autori sfiorano una questione aperta: quella del mancato incrocio tra
Foucault e il marxismo. Che non avvenne perché in Francia il marxismo
«ufficiale» reagì chiudendosi a testuggine verso quegli intellettuali
che ne mettevano in discussione i presupposti ortodossi, a partire dalla
centralità della nozione di soggetto. La stessa polemica contro lo
strutturalismo fu caratterizzata dalla creazione di un oggetto polemico,
nel quale erano unificati Lacan, Althusser, Lévi-Strauss e Foucault, in
reazione al tentativo di rinnovamento del pensiero di Marx. In altri
termini, quel marxismo, costretto a «mollare la presa» di una critica
che non poteva più tenere al guinzaglio, difendeva con ottusa protervia
la Fortezza Bastiani da quel «fertile sconvolgimento dell’orizzonte
scientifico dei rivoluzionari» in atto — così Negri nel 1978 — al quale
anche Foucault contribuiva.
Il potenziale dirompente
Diversa
era la situazione in Italia, dove un altro marxismo aveva cominciato a
dialogare con Foucault – attraverso la rivista «aut aut», ma anche in
quelle pagine del Marx oltre Marx dove Negri descriveva la circolazione e
distribuzione delle merci come distribuzione analitica delle funzioni
di potere, concatenando di fatto un certo Marx col Foucault
dell’analitica del potere. Come sia stata interrotta quella ricerca
teorico-pratica, è noto. Ma quei fili erano destinati a riallacciarsi, e
di fatto cominciano ad esserlo: lo testimoniano i testi già citati, e
in particolare quelli del colloquio Marx & Foucault curati da
Laval, Paltrinieri e Taylan. Dove al Foucault lettore di Marx, con
saggi, in particolare quelli di Chignola e Laval, che praticano già un
uso marxiano di Foucault, succedono tentativi, spesso riusciti, di
avviare una rilettura di Marx a partire da Foucault (Negri,
Sibertin-Blanc, Dardot, Giardini).
Non si tratta di elevare la
foucaultiana diagnostica del presente a un «insieme di consegne che il
filosofo-maestro di verità donerebbe ai suoi discepoli», come
sottolineano nel proprio intervento — che conclude il volume — Nicoli e
Paltrinieri, ma di usare la critica per mostrare «il potenziale
dirompente e le trappole che minacciano la pratica delle lotte», senza
reintrodurre la figura dell’intellettuale che pretende di sottomettere
le lotte alle ingiunzioni di verità: per quello, i grunf-grunf bastano e
avanzano.